Ad entrare nella serie dei contatti fotografici della Maier bene si apprende le intenzionalità creative della fotografa col cappello, di semplice eleganza vestita… le serie fotografiche sono la testimonianza di un acume espressivo da studiare con attenzione… la fotografa è parca, quasi ossessionata dalla ripetizione formale… la distanza tra ritrattati e autore è sempre la stessa… la Maier sembra scomparire di fronte ai soggetti trattati, tuttavia si sente la presenza di un intuito che accompagna i suoi scatti… non sono però fotosequenze… ma la ricostruzione di un evento quotidiano per “strappi”… dove la veridicità del momento si trascolora in comprensione e il bello, il brutto, il volgare o il regale sono imperativi di verità, di realtà significanti. Si fotografa per vivere o per meglio morire, il resto è prostituzione.

La fotografia della malinconia della Maier è una sorta di gioia raffinata… non appartiene a niente se non alla propria sensibilità esiliata ai bordi della realtà… non ha patria né identità che non sia l’atto del fotografare, testimoniare il vero che avanza… se non si possiede il senso dell’irrealtà del ludico si è cattivi fotografi e si perde il sentore di ciò che vive, di ciò che sente la soggettività del fotografo… ci si aggrappa disperatamente a una tecnica come a una fede e la seduzione di ciò che accade davanti alla fotocamera si colloca a fianco di un dio (senza eresia) che fa ridere perfino un visionario che vede nei falsi bisogni dei piaceri mercantili l’agorà della felicità. Il fatto è che la felicità si crea, non si paga, diceva. Dove la fotografia ha seminato la propria felicità mercantile non spunta più che la sua tirannia.
Va detto. La fotografia a colori della Maier non è che ci attanaglia molto… anzi per nulla… figure, ombre, riflessi, posture, dettagli… sono indicizzati sui gialli, marroni, rossi, verdi… e gli accostamenti sono piuttosto elementari… anche la distanza tra fotografo e ritrattati cambia… l’immagine diventa più descrittiva… la significazione estetica prevale sul contenuto e di un nero che vende palloncini sui marciapiedi della metropoli, si vedono più i palloncini che la sua povertà. Anche il ritratto della donna col cappotto, il cappellino rosso e le labbra verniciate di rosso, sovrapposta a una striscia gialla, sembra quasi un manichino… non c’è l’atmosfera dell’accadere o dell’incontro, nemmeno l’incedere della stupefazione. La signora borghese con gli occhiali, il visone, i guanti bianchi e il cappello viola… lascia trasparire una sorta d’involontaria o ingenua trascrizione della scelta fotografica… l’immagine è sovraccarica di segni… la donna sulla destra, due donne dietro (di ceto diverso) e il cielo bianco che piomba sull’intera inquadratura, la relega a poco più di un’allusione di classe… e gonne, calze, scarpe, cappelli, fiori, borse, forme vagamente impressioniste… tutto un inventario di colori più o meno tinteggiati… sovrastano o si annettono l’esteriorità del momento e non ne tracciano o non acquisiscono l’imperfezione o il contenuto della vita come percorso di tentazioni e di vertigini. L’uso del grand’angolo, del taglio trasversale, di geometrie condizionate a corpi in movimento… risentono di un certa disarticolazione del visivo che resta in margine al discorso fotografico.
La fotografia di strada non è una ricetta buona per tutte le pulsioni o velleità occasionali… è l’evidenza di un mistero o di una prossimità… la fotografia colta nel suo farsi testimonianza di un’esistenza o cancellazione di una presenza… è il passaggio all’interdetto o un abuso di neutralità… la fotografia si libera del suo linguaggio indicale, soltanto per l’uso che se ne fa! Quando opera uno spiazzamento radicale, la fotografia di strada assume il carattere d’uso sociale dell’immagine e rifonda quell’idea di fotografia che rinvia non tanto alla verità fotografica, quanto all’autorità che la sopprime.

Il potere autocertificante della fotografia non ha mai cessato di spostare la critica della memoria e della similitudine fuori dalla rappresentazione immediata, nella sua singolarità… e la post-fotografia dell’era digitale è l’apogeo dove il fotografico è svenduto a processi e culture generalizzate nella quantificazione di nozioni, tecniche, programm, post-produzioni… la fotografia di strada (fatta con qualsiasi strumento, anche con uno smartphone), si sostituisce all’affermato del linguaggio dominante, non per fissarlo o per meglio formularlo, ma, al contrario, per gioire della sua distruzione.
La fotografia della vita quotidiana fruga nelle ferite dell’esistenza, anzi deve allargarle o non è niente… a cosa serve la fotografia? ad imparare una tecnica o un delirio di consenso? no!… di certo!… per imparare le tre o quattro regole della fotografia basta andare a scuola dal primo imbecille che ha letto qualche libro e ha fatto un po’ di fotografie la domenica… la fotografia, io credo, deve essere davvero una ferita sanguinante nel corpo della società!… che può cambiare in qualche modo la vita dell’autore e del lettore… si tratta di lavorare a una filosofia del risveglio e alla fustigazione dei luoghi comuni… una fotografia che promuove l’esaltazione o la sacralità dell’immagine consumerista è una fotografia fallita! Si tratta di sabotare lo stile della fotografia accademica, attentare l’idea di fotografia come sistema che si erge sulla disuguaglianza sociale.
È terribile che un fotografo riesca a diventare celebre!… a che serve un fotografo che per tutta la vita non ha mai turbato nessuno, men che meno se stesso? Non si discute la fotografia, la si esprime o la si brucia… lo sguardo offeso di un pazzo è più vero di tutte le glorie lebbrose dei fotografi con l’ossessione del monumento pubblico… almeno è protagonista dei propri eccessi e si tiene il genio nel cuore. Tutti i fotografi aureolati e quelli che ne soffrono il consenso — come i criminali realizzati — temono di essere scoperti e sostituiti con altri di superiori idiozie appassionate… senza sapere mai che più si è inseriti nel letamaio della fotografia, più si è spregevoli.
L’abolizione delle verità preordinate è la scomposizione dei meccanismi di riproduzione sociale della tirannia politica… il potere bruttura ogni cosa!… la fotografia senza la grazia eversiva/libertaria che insinua il risentimento e non concede al potere il consenso che lo costituisce, è un ossessione del nulla o del vuoto!… la fotografia è la negazione della morale dominante!… la fotografia è l’elusione della menzogna e della mediocrità (statuale, religiosa, finanziaria, ideologica, culturale) che si sbarazza di tutti i tormenti della notorietà in nome della conoscenza dell’uomo, della donna e li sdogana nel mondo.

La fotografia che agisce sotto il fascino dell’impossibile è la sola capace di generare un’utopia di bellezza e di giustizia e minaccia da vicino la sclerosi, la rovina, la catastrofe annunciata della civiltà dello spettacolo. È l’utopia a riscattare la storia delle violenze subite!… è l’utopia che mette fine al modello messianico, religioso, mercatale… è l’utopia che attraverso la resistenza al presente, lavora alla conquista della massima felicità per il maggior numero di persone. La liberazione arriva quando gli uomini e le donne cessano di dare al potere ciò per cui sussiste… del credito che essi stessi gli danno… quando smetteranno di sostenerlo, crollerà da solo nella sua propria miseria. Né servi né padroni, sempre.
Burkina Faso 30 volte gennaio 2013 / Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 6 volte gennaio, 2014
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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