“Quelli che nascono mostri sono l’aristocrazia del mondo dell’emarginazione…
Quasi tutti attraversano la vita temendo le esperienze traumatiche.
I mostri sono nati insieme al loro trauma.
Hanno superato il loro esame nella vita, sono degli aristocratici…
Io mi adatto alle cose malmesse. Intendo dire che non mi piace
metter ordine alle cose. Se qualcosa non è a posto di fronte a me,
io non la metto a posto. Mi metto a posto io”.Diane Arbus
La grazia della fotografia “freaks”
La grazia della fotografia “freaks” Quando l’occhio del fotografo si fa coltello. Sulla filosofia della fotografia di strada ed elogio dell’imperfezione. L’immagine fotografica è addomesticata, offesa, violata nei sentimenti etici ed estetici più profondi… tutto è merce e la fotografia più consumata è una scrittura del potere e ovunque la vita quotidiana si misura in funzione delle immagini che diventano “pensiero comune”. La fotografia, ad ogni livello di produzione e di ricezione, ha perso la magia dell’evento e acquistato il significato di concetto. La scrittura analogica o digitale non c’entrano, o c’entrano poco. Conta invece l’accostamento alla fabbricazione delle immagini argentiche e l’elaborazione delle immagini numeriche. Le immagini numeriche o argentiche si sostituiscono materialmente all’immaginario della vita quotidiana. La critica radicale della fotografia di strada coincide con la critica della violenza ed è la filosofia della sua storia.
Diane Nemerov Arbus è l’angelo nero o il mito della fotografia randagia, maledetta, trasgressiva, sistemata in modo scomodo negli annali della storiografia fotografica (113).
(113) Pino Bertelli, Della fotografia trasgressiva. Dall’estetica dei “freaks” all’etica della ribellione, NdA, 2006
Le sue immagini ormai celebri di nani, handicappati, “freaks”, omosessuali, puttane, barboni, persone dabbene… hanno contribuito a ridefinire il confine tra “normalità” e “devianza”, ghettizzazione e accettazione, fine della paura e politica della bellezza. Il suo fare-fotografia è stata forse, la più alta poetica o scrittura iconografica della nostra epoca. Il fascino inquietante della sua opera nasconde tenerezze infinite e genialità corrosive che nulla o poco hanno a che vedere con il fotogiornalismo rampante degli anni cinquanta/sessanta o esposizioni galleristiche del mondano d’autore.
Diane Arbus ha fotografato l’infelicità e l’ingiustizia degli esclusi, degli ultimi e di tutti gli esseri estremizzati. Le sue fotoscritture di strada sono così profondamente antiche o moderne da non avere più età.
Nel linguaggio della contraddizione, la critica radicale del presente passa dalla distruzione delle tavole comandamentali delle ideologie e delle fedi e dallo smascheramento della totalità sociale. Il détournement (il rovesciamento) dei saperi codificati strappa la verità al suo contesto e nello “stornamento” di tutte le nozioni dissimulate come sacrari, esprime lo stile della negazione e fa di ogni fascio mercantile delle idee, il bordello senza muri di tutte le arti. Il linguaggio iconografico di Diane Arbus figura il détournement della ritrattistica fotografica storica e reinventa il senso o il rapporto tra soggetto e fotografo.
Nelle sue immagini non c’è minaccia dell’oblìo o della significazione del banale, ma una rappresentazione dell’istante ri/costruito che non mostra ciò che passa, ma ciò che ritorna.
Il détournement si configura in uno stile insorgente e l’eversione che contiene come utopia possibile, riconduce alla sovversione delle falsità e delle menzogne fantasmate come valori di Stato, Dio, Famiglia e mercato globale… gli strumenti del comunicare (cinema, fotografia, televisione, carta stampata, internet, telefonia, cannoni, giocattoli…) sono nelle mani dei profeti che giocano in Borsa e gestiscono le segrete delle religioni monoteiste, delle politiche oppressive o delle democrazie spettacolari… e non sono soltanto i guardiani serventi del potere in carica ma, soprattutto, sono i carcerieri e i buffoni dell’immaginario di corte. L’impero delle merci è un’esposizione mitica delle diversità che cementa o ri/produce una coesione sociale assoggettata. I concetti di identità, etnia, cittadinanza, cultura… sono volatili… le appartenenze sono ingoiate dal mercato universalista del dominio. Le masse sono in fuga. I
poveri più poveri vengono cancellati dalle guerre, catastrofi ambientali, dalla miseria… i terrorismi dei fondamentalismi religiosi hanno la stessa incoscienza malata e decadente delle politiche economiche dei governi ricchi. Il terrorismo è la guerra dei poveri, la guerra è il terrorismo dei ricchi, diceva (114).
(114) Frei Betto, Gli dei non hanno salvato l’America, Sperling & Kupfer, 2004
Forse le cose non stanno più così, se lo sono mai state… se per Maometto “il Paradiso sta sotto l’ombra delle spade” e Cristo diceva, ”non crediate che che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada”… i fausti del neoliberalismo fioriscono sotto il fuoco delle bombe “intelligenti”… le preghiere delle religioni e le parole dei governi uccidono, le utopie impegnano a costruire la comunità tra liberi e uguali che viene.
“Il mondo possiede già il sogno di un tempo di cui deve ora possedere la coscienza per viverlo realmente” (Guy Debord). Gridare una visione transnazionale dei diritti, significa disertare, opporsi, boicottare il dominio generalizzato della merce e approdare a una Teologia della liberazione (115) o ad una partecipazione degli uomini tutti (non-cittadini, esuli, rifugiati, profughi, clandestini, indesiderati, canaglie senza Dio e senza patria…) al diritto di eguaglianza e condivisione della lotta per l’autodeterminazione dei popoli.
(115) Gustavo Gutiérrez, Teologia della liberazione, Queriniana, 1972. I punti essenziali della TdL sono:
1. La situazione attuale della maggioranza dei latinoamericani contraddice il disegno divino e la povertà è un peccato sociale.
2. La salvezza cristiana include una “liberazione integrale” dell’uomo e raggruppa per questo anche la liberazione economica, politica, sociale e ideologica, come visibili segni della dignità umana.
3. Non vi sono solo peccatori, ma anche persecutori che opprimono le vittime del peccato che richiedono giustizia.
4. Rivendicare la democrazia, approfondendo la presa di coscienza delle popolazioni riguardo i loro veri nemici, per trasformare l’attuale sistema sociale ed economico.
5. Eliminare la povertà, la mancanza di opportunità e le ingiustizie sociali, garantendo l’accesso all’istruzione, alla sanità, alla scuola ecc.
Il gran stile di un’epoca è quando un popolo comincia a ballare sulla testa dei re, dei preti e dei padroni. La passione egualitaria è una poetica del senso critico e nelle insolenze della rivolta riscopre il caleidoscopio del meraviglioso, dove la vita sognata degli angeli non ha bisogno di patria né di dèi, di guerre né di mitologie consumistiche… gli angeli con la faccia sporca sanno bene che ogni bandiera innalzata in nome del progresso è già stata piantata nel cuore dei bambini affamati d’ogni terra. I veri insorti sono sempre misconosciuti, armeggiano al limitare del bosco… è lì che fanno i covi e dissotterrano con la malinconia dei maestri carbonari, nuove utopie estreme, al di là del bene e del male.
La fotografia (come tutti i media così asserviti…) non serve a niente. Quasi sempre è complice dell’umanitarismo d’accatto o dell’educazione popolare ascritta nei processi di consenso e nei piani elettorali dei partiti. Ogni fotografia codificata nel mercimonio d’ogni casta politica equivale a una lordura.
Ogni immagine esposta in una galleria, in un museo o in una taverna di fronte ad un pubblico di ebeti della comunicazione seriale, è un attentato alla bellezza. L’uomo idiota scrive dizionari, brucia le culle dimenticate degli orfani di guerra e nella gogna della politica uccide l’amore dell’uomo per l’uomo. Ecco perché preferiamo Platero, l’asino di Juan Ramón Jiménez, (116) o Balthazar, l’asino di Robert Bresson, (117) ai fucili che ammazzano la fame dei bambini con i piedi scalzi nel sole e la pioggia sulla faccia. Ovunque ci sono bambini che sorridono esiste un’età dell’oro, si sente il profumo del fiore di albicocca e le farfalle bianche li accompagnano nel cielo degli eroi ebbri di luna e ubriachi di stelle. La fotografia, come l’amore, non è mai innocente.
(116) Juan Ramón Jiménez, Platero e io, Passigli, 1998. Il libro di Jiménez è un opera, come è stato detto, «bella senza abbellimenti», “forse la più amata dagli spagnoli fra quelle di questo secolo: il poeta e il suo asino — anzi, l’asino e il poeta — e, come sfondo, il leggendario paesaggio dell’Andalusia. È un libro dolcissimo, pieno di colori e di luci; un’elegia leggera, che narra la storia dell’amicizia, della solidarietà fra l’uomo e l’animale, compagni di viaggi, scorrerie, ricordi, riflessioni; una favola che si nutre di realtà e di conoscenza dell’uomo… di cui l’asino Platero resta il simbolo per eccellenza, così vero, così rassicurante” (Carlo Bo, nella prefazione). Un’annotazione: “I passeri. Viaggiano senza denari e senza valigie; cambiano casa quando vogliono: avvertono un ruscello, sentono una fronda e hanno soltanto da aprire le ali per ottenere la felicità: non sanno né di sabati né di lunedì, si bagnano dappertutto in ogni momento; amano l’amore senza nome, l’amata universale”
(117) Robert Bresson, Auhasard Balthazar, 1966. Il film di Bresson è un capolavoro. Da una parte c’è l’asino, dall’altra il mondo. L’asino non reagisce alle violenze degli uomini, ma c’è una ragazzina basca (interpretata da Anne Wiazemsky, splendida) che in qualche modo si oppone alla cattività della gente. Poi la ragazzina è stuprata da un branco di balordi e la lasciano nuda in una casa abbandonata. Scompare. Forse
si uccide. L’asino passa di padrone in padrone, maltrattato sempre. Finisce persino in un circo. Diventa vecchio. In ultimo trasporta delle reliquie e la popolazione lo tratta come un santo. Una notte Balthazar è portato in montagna e utilizzato per il contrabbando. C’è uno scontro a fuoco tra i contrabbandieri e i doganieri e una pallottola lo uccide. Muore al mattino, serenamente, in un prato, tra un gregge di pecore.
La grande fotografia (come quella di Diane Arbus, ad esempio), si riveste di una particolare forma di grazia estetica ed etica… contiene in sé un’aurea di enunciazione del Bello che, come gli angeli della Kabbalah (118), è destinata a cantare solo per un attimo le sue lodi non davanti a Dio ma a fianco dell’uomo in difficoltà, prima di dissolversi nell’epifania dolce del suo dolore antico.
Le fotoscritture che mostrano le ali dell’angelo nuovo di Walter Benjamin, di Paul Klee o di García Lorca… sono messaggeri dell’invisibile e portano la comprensione e la complicità a livelli superiori di qualità della realtà. Ecco perché certe icone sono per sempre. Ogni immagine è davvero immortale quando reca in sé — come fanno gli ebrei col nome aggiunto dei loro figli — l’innocenza della bellezza o quel qualcosa di privato e coinvolgente che deve restare segreto. L’angelo della bellezza è l’angelo nero della ribellione che le sacre scritture chiamano Satana (in ebraico significa accusatore) (119). Del resto anche le streghe sono angeli della bellezza e dell’insorgenza… sono loro, prima di ogni altro, che hanno mangiato il frutto dell’albero della conoscenza e decretato la morte degli dèi. (120) L’argot blasfemo di Rabelais e la lingua dell’odio dei malfattori di Parigi s’intrecciano all’insurrezione in armi delle Pétroleuses della Comune (1871) e tra una ricetta di cucina, (121) il lavaggio delle braghe degli insorti e un colpo di fucile contro i canuts (delinquenti in doppio petto) sono riuscite anche a denunciare l’inutilità dell’arte, la faziosità delle religioni e il disprezzo dei governi… le donne in rivolta sono state stuprate, deportate, ammazzate per un’idea di amore e di uguaglianza tra i popoli e tra i generi… non hanno dimenticato neanche le fotografie di delazione (122) poliziesca che raffigurano (con dovizia di particolari) i cadaveri dei Comunardi trucidati sulle barricate o fucilati dai soldati del regime e buttati in casse di legno in bella posa per la storia (le fotografie furono così ben riuscite che la “buona borghesia” ne fece “carte da visita”). E tutto per avere sognato la liberà, tutta la libertà, nient’altro che la libertà. Gli anarchici e le Pétroleuses però non archiviano. Non dimenticano. Attendono nuove primavere di bellezza per restituire ciò che i loro padri, fratelli e sorelle hanno ricevuto. Si ottiene molto di più da uno oppressore, impiccandolo all’asta della bandiera nazionale che stringendogli la mano o baciarlo sulle guance.
118 Mosè Maimonide, La guida dei perplessi, UTET, 2005
119 Gershom Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi, 1978
120 Jules Michelet, La strega. La rivolta delle donne nel romanzo-verità dell’inquisizione, Stampa Alternativa, 2005
121 Gianni-Emilio Simonetti, La vivandiera di Montélimar. Il secolo delle rivolte e la nascita della cucina
moderna nelle memorie di una pétroleuse, Derive e Approdi, 2004
122Ando Gilardi, Wanted!. Storia, tecnica ed estetica della fotografia criminale, segnaletica e giudiziaria,
Bruno Mondadori, 2003
La fotografia trasgressiva di Diane Arbus, canta il disfacimento o decolonizzazione dell’arte come “prodotto estetico” o strumento poliziesco di controllo di tutte le attività umane al servizio della burocrazia dei sentimenti e del congelamento della spontaneità nelle baracconate multimediali della tecnica (analogica o digitale fa lo stesso). (123) Per Diane Arbus (come per Dada, Surrealisti, Lettristi, Situazionisti, trasfughi d’ogni legiferazione della cultura cattedratica), l’arte è “un apprezzamento della realtà, una valorizzazione che
giunge sino a eternizzare l’istante. L’arte non fa che rendere preziosa la realtà, mentre la tecnica la svalorizza. L’arte non ha altra finalità che rendere preziosi, con i mezzi che lo sviluppo della sua epoca concede ed esige, gli atti umani” (Asger Jorn) (124). Quella di Diane Arbus è una critica radicale sulla costruzione di situazioni che riguardano (ad ogni livello) il valore d’uso della creatività. I fanatici dell’Apocalisse o i passatori di confine sono i soli che accendono i fuochi nella notte del patriarcato dei sogni e mettono fine alla tutela feudale crocifissa nei parlamenti, dove al primo posto di ogni discutere hanno messo la distruzione dei diritti umani e civili dell’umanità impoverita. Amen e così sia!
123 A guisa di chi si vuole interessare come funziona lo sguardo (l’occhio) e quindi come agisce la macchina fotografica in rapporto alla realtà o alla cosa che scippa alle menzogne della storia, basta consultare una qualsiasi pubblicazione specializzata che possiamo rubare nella sala d’aspetto dell’oculista o del dentista: L’occhio raccoglie gli stimoli luminosi provenienti dal mondo esterno, li trasforma in impulsi elettrici e li invia al cervello, che li decodifica e l’interpreta come immagini. La struttura e il funzionamento dell’occhio e in tutto eguale all’“occhio” di una macchina fotografica. La fotocamera possiede un diaframma, l’iride, con un foro (la pupilla) che si allarga e si restringe per regolare l’ingresso della luce. Un obiettivo, formato da più lenti, principalmente la cornea, il cristallino e il corpo vitreo. Una pellicola sensibile (o un linguaggio numerico), vale a dire la retina, situata nel bulbo oculare. Il “corpo” della macchina fotografica corrisponde, nell’occhio, a una membrana (la sclera) che riveste internamente il bulbo oculare e che nella parte anteriore diventa trasparente e curva: la cornea. Gli stimoli visivi, provenienti dall’esterno, attraversano la cornea e la pupilla, quindi proseguono attraverso il cristallino e il corpo vitreo e raggiungono la retina. Qui, cellule specializzate (i coni e i bastoncelli) le trasformano in impulsi elettrici. Attraverso il nervo ottico, gli impulsi elettrici vengono condotti alla corteccia occipitale, una zona del cervello in grado di elaborarli e di trasformarli in immagini. Ed è per questa apparente capacità di fabbricare fotografie che fino a vent’anni tutti fanno fotografie (o scrivono poesie), poi restano gli imbecilli e i poeti
124 Asger Jorn, La comunità prodiga. Critica della politica economica ed altri scritti, Zona, 2000
L’utopia della fotografia freaks (o dell’angelo nero) di Diane Arbus segna una rinascita del particolare o dell’istante che va oltre l’incendio dell’incontro occasionale o della trascendenza autoriale… la visione utopica/fotografica di questa libertaria malinconica e schiva ai vezzi addomesticati dell’intelligenza… è una sorta di crogiolo estetico dove l’orizzonte delle attese si discioglie nello squadernamento del — già visto — e nelle sue fotografie l’eccezione diviene luce e sangue dei giorni. Cioè fine degli ostacoli dei possessori/produttori dei valori imposti (sfruttamento, violenza, povertà)… quella di Diane Arbus è una scrittura iconologica del bel-luogo (Eu-topos) dove l’utopia entra nella storia e diventa il cammino o il ponte che conduce dal tempo dell’imperfetto al tempo della gioia originaria (la scoperta di quel Paese di non-dove dove scorre il latte e il miele a fiumi e gli idoli sono stati rasi al suolo)… è la meraviglia dell’Io che gli utopisti rivendicano nei volti sfigurati dell’Altro, dell’Altra. La libertà è in ogni istante amoroso che doniamo all’Altro, all’Altra e ogni istante è sempre la prima volta.
La fruibilità dell’arte alla portata di ogni cliente dei grandi magazzini è l’ultima maschera strappata all’estetica del terrore per giustificare il dominio. Il controllo delle masse poggia sul principio, tutto parlamentare, di mantenere stretta sorveglianza sui confini che separano i luoghi di ricchezza dai luoghi di povertà. Eternizzare la barbarie. Fare del saccheggio globalizzato un affare di ordinaria amministrazione. Le tecnoburocrazie internazionali lavorano a colpi di bombe per la sicurezza pubblica. Le minoranze sociali sono schiacciate ovunque la loro terra sputi petrolio, oro, diamanti, acqua… o possa essere rottamata da centinaia di bidoni pieni di scorie nucleari. L’egemonia della modernità o la democrazia della bomba atomica sono lo spettacolo più seguito e goduto in cosmovisione (il crollo delle “torri gemelle” a New York nel 2001, è stato il più grande spettacolo della trucidità in “presa diretta”, dopo i campi di sterminio nazisti). Giacché tutto è merce, tutto è fac-simile. Copia. L’uomo è la merce che consuma.
Lo spettacolare totalitario e lo spettacolare democratico sono la stessa cosa. Le guerre neocoloniali, i terrorismi religiosi, l’informazione genuflessa, le ideologie repressive, le catechesi miracolistiche, i partiti del falso elettorale… sono il nuovo fascismo. La messa in scena è virtuale e i soli corpi che hanno diritto alla parola sono quelli ammazzati dalle guerre di Stato: “Lo spettacolare diffuso accompagna l’abbondanza delle merci, lo sviluppo non perturbato del capitalismo moderno… È in questa lotta cieca che ogni merce, seguendo la sua passione, nell’incoscienza realizza in effetti qualcosa di più elevato: il divenir mondo della merce, che è altrettanto il divenire merce del mondo” (Guy Debord) (125).
125 Guy Debord, La società dello spettacolo, Vallecchi, 1979
Ogni residuo di dignità umana è perduta. I campi di sterminio dei regimi occidentali, i mucchi di musulmani che uccidono per guadagnarsi il plauso del profeta o i disastri ecologici che l’uomo ha procurato al pianeta azzurro… legittimano gli orrori di un tempo senza valore e di epoche applaudite da uomini che hanno attuato il genocidio delle differenze. Dalla purezza della razza, del sangue e del partito, gli esteti della ragione istituzionalizzata sono passati all’ebbrezza sacrificale della merce, all’ingabbiamento mediatico e all’apoteosi della guerra.
L’immaginale di un mondo che non è né spirito né materia è in atto. Il dominio ontologico della merce, intermediato dalle immagini, è la realtà più consueta. La reificazione imposta dalla società della merce è l’impedimento per la costruzione libera della vita. Lo spettacolo è la realizzazione profana dell’ideologia e della fede. E la critica radicale delle ideologie, delle religioni e delle economie di guerra è la condizione primaria di ogni critica. Trasformare il mondo e cambiare la vita sono le invocazioni degli oppressi che aspirano ad un cambiamento più grande dell’esistente. La critica radicale è la libera ricostruzione o il libero rovesciamento di tutti i comportamenti della società alienata (126)… e la creatività liberata nella poetica dell’accoglienza, della condivisione, della fratellanza… sarà solo l’inizio di una festa comunarda mai conosciuta sulla terra. E non c’è nessuna religione che possa annettersi la felicità dell’uomo senza prima avere torturato, impalato, bruciato… frotte di eretici che insistevano sul fatto che dietro ogni profeta, ogni santo, ogni papa… c’è un ciarlatano o un boia. (127)
(126) Etudiants de Strasbourg, Della miseria nell’ambiente studentesco. Considerata nei suoi aspetti economico, politico, psicologico, sessuale e specialmente intellettuale e di alcuni mezzi per porvi rimedio,
Nautilus, 1988. Il pamphlet è stato coordinato dal situazionista algerino Mustapha Kayati. I fondi per
la pubblicazione furono rubati dalla cassa degli studenti universitari. Il libello è stato il detonatore
del Maggio ‘68 a Parigi. Niente poi è stato più come prima.
(127) A studiare Il gallo cantò ancora. Storia critica della Chiesa, di Karlheinz Deschner, Massari Editore 1998, e affrontando la messe di annotazioni, citazioni, rimandi in oltre 500 pagine di osservazioni ostinate sulla sovranità e infallibilità della Chiesa cattolica riguardo alla salvezza eterna dei peccatori redenti… non è difficile comprendere che il cattolicesimo, quanto l’ebraismo o l’islamismo… sono storicamente delle religioni fondate sul dominio, l’espropriazione e il delitto. A proposito di Gesù. “Tutta la letteratura non-cristiana del I secolo tacque su di lui: i paralitici camminavano, i ciechi vedevano, i morti resuscitavano, ma gli storici di Palestina, Grecia e Roma non ne ebbero notizia”
Le tecniche dello spettacolo equilibrano la politica e dettano i rituali di connivenza. La rappresentazione spettacolare degli eventi è svuotata da forme di democrazia diretta e i simulacri si riempiono di slogan e canzonette. Il governo migliore è quello che ha più morti sulla coscienza e gioca a “mosca cieca” con le poltrone del comando. E il popolo, sempre più stupido, annichilito, seppellito sotto cataste d’informazioni tutte eguali e tutte false… guarda spaurito, plaudente o demente la propria perduta identità.
(continua …)
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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