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Elio Ruffo. Sul Cinema della disperanza (parte quarta)

di Pino Bertelli

Di S.O.S. Africo.
In S.O.S. Africo, Ruffo denuncia la povertà e l’abbandono dei calabresi del dopoguerra… la cinecamera segue il viaggio di un giornalista da Bovalino al paese di Africo e diventa il pretesto per mostrare le difficoltà quotidiane della sua gente… il commento parlato è affidato al giornalista Sandro Paternostro, ancorché lieve, riesce comunque a intrecciarsi con la potenza visiva del regista e insieme al montaggio armonico di Pino Giovani e la musica struggente di Virgilio Chiti, restituisce in maniera vivida la grande saggezza ionica e l’intima voglia di riscatto di questa gente confinata nel pregiudizio, nel dolore e nella tragedia. La fotografia di Aldo Alessandri ha una corposità, una bianchezza, una nerezza radicata nella verità ignudata, senza veli, cantata dal filosofo calabrese Bernardino Telesio, la freschezza impetuosa di un popolo, anche nelle sue tribolazioni, povertà o ribellioni, conserva le fondamenta morali della comunità magnogreca.

Il documentario si apre su una fiumara che va al mare… una spiaggia che scivola nell’infinito, pastori che portano greggi di capre al mercato di Bovalino, gente al bar che beve il caffè, un ragazzo che mangia il gelato su un mulo, una piccola folla che discute nella strada tra biciclette e cavalli, la piazza gremita di gente… si contrattano scarpe, passa il notabile col calesse e senza fermarsi afferra il fagotto che il venditore (servilmente) gli porge e non paga… c’è l’arrotino, un giovane che suona la fisarmonica contornato da ragazzi curiosi, donne e uomini caricano i muli di merci, una ragazza guarda gli orologi e le fedi nunziali in una vetrina, una donna tiene nelle mani e sul corpo un serpente al passaggio di due giovani fidanzati, un’altra legge le mani dei passanti, il treno sfila davanti a un bambino col dito in bocca e un cappello di paglia che ricorda molto certe fotografie di Tina Modotti in Messico… il greto arido del torrente Careri, i contadini che tagliano il grano, zappano terre aride, donne che portano l’acqua, facce ruvide di pastori e la miseria angelica che appare sulle facce dei bambini, mostrano la realtà di una landa senza strade e senza luce che sembra annunciare un naufragio sociale… poi Ruffo si sposta a San Luca e filma le teleferiche, le segherie, uomini che lavorano grossi tronchi di legno e camion carichi di tavole iniziano il viaggio verso il nord… inizia la salita di uomini e muli verso l’Aspromonte… una donna esce dalla capanna in pietra e canne e guarda il cielo che si oscura di nuvole… arrivano ad Africo, la cenerentola della Calabria, un paese di 1800 anime che hanno una sola ricchezza, il sole… ad Africo un paio di scarpe è un lusso, una forma di pane nero è un tesoro, dice il commentatore… sfilano davanti alla cinecamera donne e uomini con sguardi attoniti, anche immusoniti… i bambini sui banchi di una misera scuola all’aperto attendono una tazza di latte come una benedizione… donne che filano all’arcolaio, i vicoli poveri del paese, bambini scalzi che trascinano caprette, un maiale mangia i rifiuti e un bambino piange su un tavolaccio, il vecchio sindaco che dice al nipote — “Il maltempo passerà e verranno giorni migliori” —. Campo totale di Africo. S.O.S. Africo è una sorta di apologo contro una mistica della miseria… Ruffo filma in diretta la realtà, senza troppi sofismi o rifacimenti attoriali… non taglia nemmeno piccole indecisioni o sequenze che contengono incertezze sceniche… l’uomo che guida il maiale in una stradetta, i suggerimenti a bambini, donne e uomini a favore del cineracconto (evidenti anche in altri documentari di Ruffo) e lavora sui corpi come soggetti/interpreti di una cultura umanistica calpestata… la macchina da presa diventa lo strumento visivo della contemporaneità e mostra un’identità che non si esaurisce nel vivo ma chiama in causa valori identitari e di comportamento che portano a riflettere sulle origine di un disagio sociale millenario. La struttura generale del documentario, poco importa se è abbozzata o incerta, costituisce il ritratto di una verità che illumina di amarezza una sistema sociale feroce quanto comunitario. Al fondo di ogni sequenza s’avverte la predazione di un popolo sottomesso all’onnipotenza del corpo politico… una radiologia infernale della povertà che s’indigna per lo sfruttamento e la dominazione violenta e brutale dei padroni. Un’odissea delle coscienze infrante che aleggia sugli imperativi dell’obbedienza e non ci sono definizioni per accettarne la sorte. Ruffo sembra dire che là dove l’intransigenza politica, religiosa, mafiosa devasta tutto al suo passaggio, occorre rispondere con una forza libertaria che infrange il proibito… rigettare l’infeudamento del sapere significa fornire forme d’insubordinazione che aderiscono al dissidio che le abita. Il regista calabrese rifiuta la cultura dell’ostaggio e rivendica interamente la filosofia gioachimita del “pensare per figure” (32), un linguaggio-immagine o un alfabeto sacro dei popoli oppressi che anche gli analfabeti posso comprendere ed esprimere come disaffezione o rivolta contro il fatalismo della miseria… indizi, segnali, figure geometriche nella filosofia gioachimita sono simboli, immagini, tracce che aprono la via a una storia della salvezza… disegni, parole scritte e colori che attribuiscono alle figure posizioni e contrapposizioni attraverso le quali raggiungere un’età della bellezza e della giustizia… conoscere ed amare sono la stessa fame di verità… rifiutare il sorriso su ordinazione o l’inginocchiatoio delle speranze è già rompere l’autorità del terrore e seminare l’intrattabilità della libertà. La gioia di vivere tra uomini liberi non è compatibile con nessuna forma di politica… di tutte le ipocrisie, quella del buon governo è la più maledetta, poiché ha commesso più crimini della Santa Inquisizione. Gli entusiasti della chiesa, dello stato e del malaffare andrebbero uccisi seduta stante, non perché sono dei criminali indefessi, ma perché sono i distruttori dell’innocenza del divenire.

(32) Pensare per figure. Diagrammi e simboli in Gioacchino da Fiore, a cura di Alessandro Ghisalberti, Viella, 2010

Di Il Monte di Pietà .
Con il documentario Il Monte di Pietà che Ruffo gira a Roma, all’interno di un Monte di pietà, appunto… il linguaggio del regista si fa più metaforico, finanche transfigurativo… rifugge dal candore pietistico e dal sentimentalismo miserabilista… semmai s’accosta allo smarrimento, all’inquietudine, all’angoscia dispersi sui volti, sui corpi, negli atteggiamenti delle persone che portano i loro beni in un ventre burocratico della povertà… gente di città predestinate all’emarginazione, arenate in un universo accattone che si avvicina sia alla preghiera, sia alla mancanza di orizzonti sociali… qui anche le puttane del cinema poetico di Pasolini sembrano più fortunate… il prestigio, l’illusione e l’inganno acquisiscono una realtà interiore o la caricatura di anime in vendita o sfrattate della propria realtà interiore… soggetti di una perdizione di sé accatastati nella medesima miseria… tutti esprimono una forma penitenziale da convento o prigione… una disonorata povertà al passo coi tempi… l’accettazione di un’umiliazione alla protervia padronale che la suggerisce e dell’indifferenza sociale che la provoca. La benedizione di tutti i fallimenti elevata al rango d’opera di carità, che è la prima gogna inventata contro il genere umano.

Ruffo butta la camera da presa addosso alle persone che portano i loro oggetti, anche i più miseri, in quel luogo di prostrazione e ricevono in cambio un po’ di soldi e un biglietto per la restituzione… la burocratizzazione della povertà si trascolora in una ritrattistica materica… l’andirivieni dei clienti è intrecciato alla macchina-nastro dell’archiviazione, sottolineata con sapienti movimenti di cinecamera…. il gusto del dettaglio, la compassione di certi volti o la sottile ironia verso i ceti più alti che consegnano i loro gioielli all’impiegato del Banco… i sacchi di oggetti riposti in enormi scaffalature, l’entrata e l’uscita delle persone dal Monte di pietà… vengono contrapposti nel montaggio ritmato di Giuliana Bettoja e insieme alla musica malinconica di Egisto Macchi, danno al documentario una certa solennità espressiva, sostenuta nella fotografia da cinegiornale di Luigi Zanni… la verità prende il posto della finzione e la deposizione di una visione codificata, evoca la degradazione o la disumanizzazione di una educazione al servaggio. La pietà cristiana e di ogni Stato è una favola che si nutre di lacrime, una demenza accettata come la manna su un letamaio. In queste immagini del dolore pianificato de Il monte di pietà, ci sembra riecheggiare la lettera che san Paolo scrisse ai Colossesi: “Schiavi, obbedite ai vostri padroni terreni in tutto, non solo sotto i loro sguardi, perché volete piacere a uomini, ma con cuore semplice, perché temete il Signore. Qualunque cosa facciate, agite con cuore come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che riceverete dal Signore come ricompensa l’eredità. Servite al Signore Cristo! Certo, chi commetterà ingiustizie, riceverà la ricompensa della sua ingiustizia, e non c’è riguardo alla persona” (33). Forse dopo aver picchiato la testa sulla strada di Damasco, san Paolo ha creduto davvero nel Cristo redentore, il fatto è che la religione è una perversione senza eguali, una depravazione dello spirito umano, un’immensa porcheria sul mistero della fede, un’industria della povertà, un perpetuo castigo divino e sin dalla Genesi ha dato inizio alle più grandi sventure dell’umanità. Ne Il Monte di Pietà Ruffo cattura e fissa con grazia un accadere che brucia, divora e annienta una condizione di schiavitù, di servitù, di spossesso, di una sofferenza o di una verità che mina le basi di un paradiso fittizio… una vergogna accettata e sostenuta nell’avvilimento e nelle aberranti cristologie dell’indifferenza. La pietà organizzata è l’immagine più obbrobriosa che vi sia sotto il cielo. L’insulto più infame che l’uomo possa ricevere è la pietà, poiché subito dopo l’annuncio del grande impostore del cielo (Dio) come salvatore dell’umanità, vengono i campi di sterminio.

(33) San Paolo, Lettere ai Colossesi, ai Filippesi, I-II ai Tessalonicesi, ai Galati, agli Efesini, Volume II, Nuovo Testamento, Edizioni San Paolo, 2005

Di Il bosco dei cavalli selvaggi. 

Il bosco dei cavalli selvaggi è tratto da un soggetto di Marcello Serra e s’avvale della fotografia ruvida, essenziale di Marcello Thellung… la cinecamera di Ruffo filma i cavalli allo stato brado in Sardegna (gli ultimi cavalli selvaggi in Europa che tutt’ora vivono nel parco della Giara)…
cavalli di piccola stazza, criniere folte e code lunghissime e hanno una storia, discendono dai cavalli che i fenici importarono nell’isola insieme ai loro dei e ai loro empori, dice il commento asciutto… la musica di Ennio Porrino sottolinea i momenti più intensi ed è un vero e proprio contrappunto o sinfonia visiva in rapporto al montaggio (curato da Ruffo, forse)… l’intero documentario è corso da un’interazione umanista tra natura, animali e uomo.
Il regista calabrese s’accosta ai pastori dell’altipiano con pudore, attento alle antiche costumanze che affascinano nella loro semplicità e bellezza… la cinecamera s’aggira fra le pietre della città nuragiche, boschi, laghi, mucche, asini, capre, pastori che non portano più i costumi tradizionali… si ravvede una certa inquietudine per il livellamento moderno che avanza e cancella il passato con i veterinari e la marchiatura degli animali… tuttavia i pastori conservano maniere e atmosfere archetipiche e nel bivacco per il pranzo arrostiscono un capretto sopra il fuoco di piante aromatiche, lo infilzano negli spiedi di corbezzolo e lo fanno arrotolare sulla fiamma… poi in una frammentazione di volti e mani che impugnano coltelli, mangiano a morsi la carne e bevono il vino dal fiasco… si ha l’impressione d’essere davanti alla scena di un film di cow boy americano, ma senza l’aberrazione del genocidio degli indiani sapientemente organizzato nel technicolor. Poi Ruffo s’avventura alla scoperta di quei cavalli senza padroni che mille anni prima di Cristo i fenici avevano introdotto in Sardegna (alle volte catturati da mercanti clandestini che li destinano ai macelli). Le carrellate sui pastori che cavalcano per mostrare al regista come si catturano i cavalli selvaggi sono coinvolgenti… la lotta tra il pastore con il laccio e i cavalli impauriti è toccante, la presa di un cavalluccio tremante è contrapposta alle carezze dei pastori e al galoppo del branco nel bosco della loro ancestrale libertà.

Forse, ma è solo un’intuizione, e dato che Ruffo negli anni ’60 frequentava i cineclub di Roma, alcuni momenti della cattura dei cavalli sardi, ricordano certe sequenze di Gli spostati (1961) di John Huston, sceneggiato da Arthur Miller e interpretato da Marilyn Monroe, Clark Gable, Eli Wallach e Montgomery Clift… trattava degli ultimi cow boy (ribelli senza padrone) che cacciavano cavalli selvaggi per i rodei o per la macellazione… grande film poco valutato dalla critica velinara, forse la migliore interpretazione della Monroe (insieme a Fermata d’autobus, 1956, di Joshua Logan), affiancata dalle superbe caratterizzazioni dei personaggi di Gable, Wallach e Clift… il regista qui da prova della sua straordinaria forza affabulativa, già espressa in capolavori come Il mistero del falco (1941), Il tesoro della Sierra Madre (1948), Giungla d’asfalto (1950), La regina d’Africa (1951), L’uomo dai sette capestri (1972) o Città amara (1972)… Huston è stato un gigante del cinema trasversale alle leggi del mercato e dall’interno della fabbrica delle illusioni hollywoodiana è riuscito a frantumare le sirene dell’intolleranza e del pregiudizio, che è la prerogativa principale del disertore o del rinnegato di tutte le uniformazioni delle ideologie e idolatrie moderne.
Il bosco dei cavalli selvaggi sembra seguire le strade degli antenati, il fulgore di una vita che navigava senza alberi maestri e gli uomini e gli animali corrispondevano alla presenza immaginaria che viene, vivevano insieme il sonno e risveglio dell’infanzia… conoscevano l’eterno profumo delle rose e i canti degli uccelli migratori, più di ogni cosa annusavano il velo della vita di una durezza senza padroni… il loro sudore era anche la loro libertà… il medesimo che sorge sulla labbra dell’amore amato. Andare lungo i fiumi maremmani con i vagabondi a mangiare il pesce cotto sulle pietre o fare l’amore con te, ragazza che insegue i terremoti, che spacchi le noci coi sassi e guardi la luna aggrappata alle tende bianche gonfie di vento di mare nella nostra stanza gialla… e ci portano via col castello che vola nel profumo di prezzemolo, aglio e peperoncino, e timo, maggiorana, coriandolo spolverati sui libri graffiati dalla gatta nera che guarda un film in bianco e nero di Humphrey Bogart e fa miao, questa è la felicità!

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