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Tommaso Le Pera Della fotografia immaginista scritta sull’acqua del teatro e sulla filosofia gnostica degli occhi chiusi (parte II)

di Pino Bertelli

                                                                                                         Parte seconda

                                                                                                                     II

                                    Della fotografia immaginista scritta sull’acqua del teatro e sulla filosofia gnostica degli occhi chiusi

“Non credo alle immagini fotografiche.
 Ritengo le fotografie bugiarde, maligne, velenose. Qua scavano, là gonfiano.
Tradiscono sempre. Rifanno la faccia umana senza un briciolo d’umana tolleranza.
La peggiore macchina che l’uomo abbia in uso è quella destinata a partorire fotografie”.

Giovanni Arpino

 

Tutte le forme d’arte sono scritte sull’acqua lustrale della creatività o della sua esecuzione sommaria… è l’artista che ne detta la Follia, direbbe Erasmo da Rotterdam, e la bellezza dell’indignazione contro tutto ciò che è convezione, mercimonio, sottomissione… nessuna arte s’insegna, come l’orgoglio o la baldanza, si trova nella strada… s’impara sbagliando e facendo della digressione architetturale la perfettibilità del segno, della parola, del suono, dell’immagine.

Qualunque insegnamento estetico imposto è sempre sbagliato. Il poeta che non conosce il verso, ha diritto ad usare tutti i versi… non si alleva un poeta, un figlio o un amore, l’edificazione di un uomo passa per la poesia della vita che attraversa. La fotografia quando non è prigioniera del suo referente, va al di là di ciò che mostra e supera l’ossatura iperreale della simulazione scenica… innesta un’interazione dialogica tra il fotografato, il contesto e il lettore… l’immagine si pone oltre il livello di verità, ma nel concetto di valore d’uso… infatti… se andiamo a ripercorrere l’intera cartografia fotografica di Tommaso Le Pera, non è difficile scoprire l’autorevolezza di un fare-fotografia della scena teatrale dagli anni ’60 al nostro tempo… che va oltre la comunicazione della realtà e nell’incisività della scelta supera il fotografato e rivela il cammino creativo del fotografo che conferma se stesso nella tenerezza delle sue immagini-tracce… lì ci sono anche le lacrime, i singhiozzi, i silenzi
dispiegati in visioni divoranti della bellezza che non canta patrie ma emozioni. Ciò che è visibile è solo l’abito del pagliaccio o dell’eroe, l’invisibile lo ricusa e ne decifra l’essenza…quando il fotografo ha visto il Tutto o cade nella disperazione o s’imperla nei pianti dall’allegrezza
impiccati a un inguaribile avvilimento per un’umanità migliore che non viene.

Per farsi odissei nell’impresa unica di Le Pera occorre andare a rovistare nell’impronta culturale-politica grecanica lasciata nei corpi violati dei calabresi… in questo popolo (come in tutti i Sud della Terra), sovente deriso, brutalizzato, abusato… c’è ancora il sapere millenario di una terra che nutre, di uno sguardo che allatta, di un pensare che è coscienza e inconscio di universi mai definitivamente uccisi… il perduto torna a vivere quando l’uomo e ciò che fa ha ancora la capacità di stupire, di rivelare l’arcano dell’arte e conciliare la compiutezza con
l’istante creativo. La scrittura fotografica di Le Pera è quasi un’iniziazione al sapere, un dialogo con il teatro in vitro alla propria essenza, dove l’immagine è il corpo e la testimonianza della sua eternità.

La fotografia autentica non ha format, nemmeno nella versione bressoniana di à la sauvette…fotografare di sorpresa non c’entra, anche l’attimo fuggente è sempre una relazione con l’altro, non la sua cattura. La visione prospettica della cosa fotografata nasce da una pratica culturale, epica, politica che permette di elaborare ciò che accade davanti alla fotocamera, fuori dall’estetizzazione delle regole suggerite… e il fotografo identifica il reale nell’impressione che egli ha di se stesso e del mondo. Non è un caso se Le Pera sostiene (in diverse interviste):
“Secondo me, nessuna scuola può veramente insegnarti l’estetica fotografica, in qualsiasi campo, mentre può permetterti di acquisire più rapidamente la tecnica in generale. L’estetica è una sensibilità d’artista, la tecnica è manualità dell’operatore”. La fotografia, senza l’amore
che l’accompagna, si esaurisce nella mitologia-tecnica che la riproduce… l’istante fotografico scippato alla storia non costituisce un fine in sé, ma definisce il primo grado dell’arte di vedere o l’ultimo.

La libertà appartiene alla verità del profondo che disvela il falso, la realtà alla finzione che tradisce il vero o lo seppellisce nei rituali che l’accompagnano al rogo delle filosofie, dottrine o parassitismi finanziari. Le ideologie illiberali accendono i bracieri del ragionevole separato
dall’immaginazione e lì finiscono le teste calde, gli spostati, i dissennati d’ogni ordito. La libertà muore nell’omologazione dei linguaggi, abolizione delle verità, soppressione dei disaccordi, negazione della biodiversità ferita a morte, propagazione dell’odio, dell’indifferenza,
della mediocrità… il totalitarismo dell’imperio neoliberista è fatto! Scuole, giornali, televisioni, internet, cinema, fotografia… raccontano ciò che dev’essere raccontato nella lingua dei dominatori e gli uomini sono uniformati in una pochezza verbale-mentale mai apparsa così impoverita-liquida dalla nascita dell’uomo.

A riguardo della mediocrazia della fotografia e fuori da ogni vezzo verbale o griffe dispensate sull’eccellenza di questa o quella fotocamera come esaltazione collettiva della cultura fotografica…ci è sempre più difficile distinguere un fotografo da un imbecille… eppure ci mettiamo anche dell’impegno per scovarne uno di fotografi all’interno dell’imbecillità della fotografia imperante… per comprendere la mediocrazia della fotografia occorre non leggere poeti, filosofi, manuali del boia… basta appassionarsi ai libri contabili… è la sola competenza che la
civiltà dello spettacolo chiede ai suoi servi. Rassegnazione e servitù hanno lo stesso abito da parata… la ragione imposta è l’ordine di ciò che viene ucciso! Solo l’ignoranza e l’obbedienza hanno diritto di cittadinanza… nel vino, nel pane e nella mela tenuti nel tascapane degli insorti
del desiderio di vivere tra liberi e uguali, c’è anche la dinamite dei corsari che spediva in fondo al mare la Grande y Felicisima Armada di Filippo II di Spagna… poiché di paura muore il pauroso e di rivolta, il ribelle, diceva… non è male scatenare le passioni e disorientare i cesti d’infinite bugie dei potentati, financo a bruciarli… per scaldarsi, almeno un po’, nello spogliarsi dei ciliegi in fiore che pronunciano la parola amore sull’orlo delle palpebre.

Le Pera, da qualche parte dice: « Come si dice nell’ambiente, il teatro è scritto sull’acqua. Infatti, uno spettacolo, bello o meno bello, di successo o con pochi applausi, difficilmente viene ripreso per una seconda stagione, ed ecco che le compagnie si sciolgono e gli attori vanno alla ricerca di nuove scritture, le scene vanno al macero, i costumi ritornano nelle sartorie e di quell’evento, costato fatica, angosce, dubbi, paure, entusiasmi, emozioni, non rimane più niente. Niente, appunto, se non qualche locandina, qualche recensione e, quando ci sono, le fotografie di scena a documentare, comunque, un fatto culturale quale testimonianza visiva per la storia di quanto avvenuto sulle tavole di un palcoscenico in una manciata di minuti ». Ecco… non è la sublimazione estetica che attanaglia la vertigine del fotografo…ma un’estetica dei saperi che superano la rimaterializzazione dell’arte fuori dalle furbizie dello stile… la fotografia dunque vive della storia che la detta e figura il tempo in cui essa si manifesta…e la libertà di scelta ha sempre a che fare con il rispetto, la dignità e la prospettiva diraffinate dolcezze poetiche, poiché “la bocca di un idiota divora se stessa… va’ dove va il tuo cuore. E dove va lo sguardo dei tuoi occhi”, l’Ecclesiaste, diceva. Il male trabocca di troppe parole-immagini che innalzano la violenza là dov’è il diritto.

Coraggio, curiosità, talento non c’entrano… fotografi, critici, storici, vassalli della fotografia insegnata…esprimono una cultura della mediocrazia in bella mano, una sorta di pianificazione del gusto che investe tutti i campi della politica, della finanza, dell’ordine costituito e financo dei rivoluzionari senza rivoluzione, specie di sinistra, che presi da frenesie di consenso, successo o semplice idolatria… si fanno cani di guardia di un sistema che li fagocita quanto li stritola… gente incapace di distinguere una fotografia da una carta da parati… eppure ne cantano le lodi a guisa del proprio riconoscimento pubblico… pensano che la felicità etica di Epicuro sia una marca di cavalletti, una borsa per fotocamere o un corso sulla fotografia digitale che fa di un cretino un fotografo… vero nulla… Gesù parlava aramaico e lo capivano tutti, Pilato parlava latino e lo capivano solo gli sgherri che lo inchiodarono sulla croce per un eccesso di narcisismo, voleva buttare fuori dal Tempio i mercanti a pedate… la ragione di stato si è emancipata sulle forche dei dissidenti e l’umanità che ha partorito è destinata a fare una brutta fine.

Al di là o al di qua, non so… del linguaggio fotografico più praticato o violentato… tuttavia ci sono autori di una certa levatura culturale che amano la fotografia e la fanno eseguendo il loro idioletto… rivendicano il lievito dell’amore prima e il valore d’uso del fotografato dopo… fuori dai fenomeni d’isteria collettiva della fotografia blasonata, evitano le amenità della propagandae le facezie della sperimentazione come assolutismi espressivi… s’avvicinano alla cosa fotografata per narrare una storia, descrivere un manifestazione, denunciare una brutalità… e non importa andare a cercare il clamore sui campi di battaglia, nelle periferie della Terra o sulle zattere dei migranti in attesa di affogare nel Mediterraneo… a volte basta un’allegoria teatrale, la visione dell’attorialità sospesa tra il personaggio e il mondo o raffigurare la bellezza, la giustizia, la dignità che passa dalle quinte di un teatro all’immaginale dello spettatore attivo… per mostrare che la barbarie del volto umano può essere sconfitta dall’amore dell’uomo per il ritorno all’uomo che desta l’indecifrabile o lo scandalo.

Uno tra i pochi grandi fotografi (non solo) italiani che ha fatto della fotografia di teatro anche il teatro di ciò che langue o vive fuori dal palcoscenico, è Tommaso Le Pera. Non si tratta solo di rappresentare un avvenimento teatrale o decapitarlo… tantomeno di fare un discorso messianico della fotografia vergata di facile umanismo… si tratta, come la catenaria immaginale di Le Pera insegna… di mostrare una bella fotoscrittura, un carattere, un temperamento che non mira alla perfezione né al genio incompreso… ma di costruire una tessitura di valori culturali che determinano la sovranità inedita della fotografia come lettera bianca sulla quale imprimere un nome, un desiderio o un sogno. Per fare della fotografia un proprio linguaggio occorre studiare e vivere ciò che si studia o ripudiarlo… conoscere per fotografare o fotografare e fare della propria vita un’opera d’arte. (Continua)

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