“Abbiamo tolto di mezzo
il mondo vero:
quale mondo ci è rimasto?
Forse quello apparente?…
Ma no! Col mondo vero abbiamo
eliminato anche quello apparente”.
Friedrich Nietzsche
Sull’angelo necessario della fotografia sociale
La fotografia sociale o d’impegno civile fissa un aspetto della realtà nella storia. Ogni fotografia, come ogni opera d’arte, riflette la personalità e la visione del mondo del suo autore. Fotografare significa mettere sulla stessa linea di ripresa, “la mente, lo sguardo e il cuore” (Henri Cartier-Bresson). La fotografia è sempre il risultato di una scelta arbitraria e quindi un’affabulazione poetica del vissuto che accade davanti alla fotocamera e finisce in pellicola (o nella trascrizione digitale). La geometria, la prospettiva, la complessità dei volumi, le gradazioni dal bianco al nero, lo spettro dei colori… sono alla base del linguaggio fotografico. Non esiste l’oggettività in fotografia, né la registrazione meccanica sistematizzata poi in “opera d’arte”. Non ci sono leggi né regole (da rispettare) in fotografia, il visibile non è mai altro di ciò che accade nello sguardo del fotografo. Ecco perché ci sono una moltitudine di tecnici/mozzi del mezzo fotografico e pochi poeti/capitani della fotografia.
La fotografia popolare è un’invenzione dell’industria, quella d’arte la pratica prolungata del mercimonio delle immagini. La rappresentazione popolare dell’obiettività e della perfezione estetica sono la gogna di una menzogna: l’arte della fotografia autorizza la trasfigurazione della cosa fotografata e restituita all’immortalità dell’uomo. “Invece di approfittare di tutte le possibilità della fotografia per sconvolgere l’ordine convenzionale del visibile, il quale, per il fatto che domina tutta la tradizione pittorica e quindi tutta la percezione del mondo, ha finito paradossalmente per imporsi con tutte le apparenze del naturale” (Pierre Bourdieu) (69).
(69) Pierre Bordieu (a cura), La fotografia, Usi e funzioni di un’arte media, Guaraldi, 2004
Manifestare la propria rivolta contro l’imperialismo dei saperi, il mercato delle armi, la globalizzazione della miseria… significa passare alla denuncia, allo smascheramento, alla separazione dall’ordine totalitario dell’economia politica e mostrare il mazzo dei crimini portati contro l’umanità da una cosca di serpi che si annida nei centri di potere. I culi dei potenti non conoscono patria.
L’angelo necessario della fotografia sociale è il messaggero, l’aiutante, il passatore… che mette in relazione il corpo e la fotografia. Il destino dell’uomo è nelle sue ali. L’immagine fotografica è sempre più di una traccia, un’ombra o una luce dell’esistere: è il luogo di una scelta, l’incanto di un momento, la caduta o la risurrezione di un sogno che lega il ricordo alla speranza. L’angelo necessario della fotografia sociale è anche l’angelo dell’apocalisse che tiene fra le mani la fine dei giorni e il tempo delle fragole. L’angelo necessario della fotografia sociale è un angelo messaggero, metà genio celeste e metà demone terreno… che recapita le lettere della storia e mostra il tempo profano e il tempo messianico degli assassini. I passatori, i messaggeri, gli aiutanti dei cieli in utopia “sono i nostri desideri inesauditi, quelli che non confessiamo nemmeno a noi stessi, che nel giorno del giudizio ci verranno incontro sorridendo…
Quel giorno ciascuno sconterà i nostri rossori come cambiali per il paradiso.
Regnare non significa esaudire. Significa che l’inesaudito è ciò che rimane.
L’aiutante è la figura di ciò che si perde. O, meglio, la relazione col perduto… Ciò che il perduto esige non è essere ricordato o esaudito, ma di restare in noi in quanto dimenticato, in quanto perduto e, unicamente per questo, indimenticabile… Il posto del canto è vuoto. Affianco e intorno si danno da fare gli aiutanti, che preparano il Regno” (Giorgio Agamben) (70) della fraternità e dell’accoglienza, forse. La creazione di una nuova umanità è stato il primo atto di sabotaggio che ha reso inservibili i Santi e i Profeti. Gli evangelisti si sono smarriti sulla via della Chiesa di Roma e sulla loro cattiveria inappagata hanno eretto la più grande fogna a cielo aperto mai approntata dall’uomo sull’uomo.
(70) Giorgio Agamben, Il giorno del giudizio, Nottetempo 2004
La fotografia dell’angelo ribelle o dell’esistenza possibile (direbbe Karl Jasper), travalica il mondo dei fatti per tracimare nel linguaggio indiretto della libertà. L’universale risiede nella libertà responsabile dello spirito. La “lotta amorosa” dell’uomo per la libertà emerge sulla seminagione della verità, della gioia, della bellezza di ogni forma di comunicazione e si scaglia al di là della paura di non essere compresi né valutati secondo i propri meriti. La fotografia sociale forgia la sua critica della separazione sulla volontà di crescere, di diventare quello che si è, di mordere non per mordere ma per nutrirsi. Ciò che cerca non è il consenso, bensì l’attimo o l’eternità del gesto. La fame di verità della fotografia poggia sull’idea che ogni sapere è interpretazione dell’essere da parte di un soggetto vivente che cerca di conoscere la razza dei padroni e la rivolta degli schiavi (rubata a Friedrich Nietzsche, il dinamitardo di tutte le morali) per mettere fine alla civiltà dei simulacri.
Sotto il cielo di Parigi. Gisèle Freund muore il 30 aprile 2000, a Parigi, all’età di 91 anni (era nata in Germania, a Schöneberg, nel 1908, in una famiglia dell’alta borghesia ebreo-tedesca). Con lei scompare una delle figure più autentiche della fotografia a/conformista, libertaria. Quando ha quindici anni il padre le regala una Voigtländer 6×9, con la quale scatterà le sue prime fotografie. Per la laurea riceve in dono (sempre dal padre) la prima Leica. Nel 1932 – 1933, compie studi di sociologia all’Università di Friburgo e successivamente presso l’Institut for Sozialforschung (Istituto per gli Studi Sociali di Francoforte, scuola in cui si è formata l’intera generazione di intellettuali e filosofi della dissidenza che ha preso il nome di “Scuola di Francoforte”. Partecipa alla lotta contro il nazionalsocialismo e documenta le manifestazioni studentesche e operaie contro la politica del regime nazista.
La Freund diventa fotografa attenta ai mutamenti e alle turbolenze sociali. Tutto comincia nel ’33, quando il delirio di Hilter ascende al potere. A Francoforte fotografa i “corpi tumefatti dei compagni picchiati dai nazisti” (Giséle Freund), poi si rifugia a Parigi portando con sé (nascosto addosso) il rollino delle immagini che testimoniavano la violenza del regime contro i giovani dissidenti. L’umanesimo della Freund è già segnato. La malinconia del vero che scivola nelle sue fotografie denuda volti, disvela gesti, scopre emozioni non contaminate della passione dolorosa che rifiuta il disprezzo degli uomini come devastatori di cieli impoveriti di saggezza. A Parigi la Freund continua gli studi di sociologia (in Germania era stata allieva di Theodor W. Adorno) e conduce una vita di bohême nel Quartiere Latino. La sua tesi di laurea (Photographie et société) (71) è una ricerca pungente sulla storia sociale della fotografia nel diciannovesimo secolo. Le sue annotazioni sulla fotografia d’impegno civile spiegano il mondo a partire dall’uomo, descrivono la fotografia come un’estetica del dolore, con la quale si può esprimere delle verità senza dare ricette. “Siamo tutti nella fogna, ma alcuni di noi guardano le stelle” (Oscar Wilde). L’obbedienza a tutto è una forma d’imbecillità. Nella storia degli antichi s’ignorava il dolore (camuffandolo in eroismo), nella storia della modernità si fa del dolore uno spettacolo da circo (facendo della stupidità delle guerre o della banalità consumerista, il pane quotidiano per immagini).
(71) Gisèle Freund, Photographie et société, di Gisèle Freund, Maison des Amis des Livres, 1936
Un’annotazione. Nel 1940, prima dell’entrata delle truppe tedesche nella città, la Freund lascia Parigi e si rifugia in un paesino della regione del Lot, nel sud della Francia. I collaborazionisti francesi rastrellano gli ebrei per spedirli nei campi di sterminio nazisti e la fotografa, su invito di Victoria Ocampo, si stabilisce in Argentina, dove resterà fino alla fine della guerra. Negli anni dell’esilio e al termine del conflitto fotografa, tra gli altri, Evita e il generale Perón, Diego Rivera e Frida Kahlo, David Alfaro Siqueiros, José Clemente
Orozco. Inizia a viaggiare in America Latina, arriva fino alla Patagonia. Nel 1952 torna a Parigi. Nel 1970 pubblica il libro autobiografico Le Monde et ma Caméra (72) e nel 1977 il secondo libro autobiografico, Mémoires de l’œil, inedito in Italia.
(72) Gisèle Freund, Il mondo e il mio obiettivo, La Tartaruga 1984
Nel 1980 il Ministero della Cultura francese le assegna il Premio Nazionale delle Arti nell’ambito della fotografia, nel 1981 realizza il ritratto ufficiale del presidente François Mitterand e l’anno successivo viene insignita della Legione d’onore (né quello né questa aggiungono niente alla grandezza creativa della Freund, semmai confermano che la politica riconosce il valore della cultura sempre una generazione dopo).
Nel 1991 la grande retrospettiva al Centre Georges Pompidou a Parigi riconosce il suo talento attraverso mezzo secolo di pratica della fotografia sociale. Anche i ciechi e sordomuti si accorgono che dietro un grande fotografo c’è un criminale o un poeta.
La fotografia dell’esistenza della Freund è di una bellezza convulsiva che ha pochi eguali nella storiografia fotografica predominante… al fondo della sua ritrattistica infatti c’è il peso, il sudore e le lacrime dell’umanità emancipata, e una filosofia della verità che denuncia il naufragio della dignità umana, anche. Ancora. Il fare-fotografia della Freund esprime una percezione della realtà ignuda, architetta un carattere di autenticità che sfugge ad ogni fatalismo e nell’abolizione dell’apparenza riporta alla speranza della vera conoscenza come ripudio dell’alienazione del mondo.
La critica radicale della fotografia così fatta si strugge nel desiderio rivendicato di una comunità apocalittica della disobbedienza o dell’indignazione. È lo stesso grido di sdegno di Hannah Arendt, quando riprende le tesi dell’Angelus Novus di Benjamin: “L’angelo della storia… ha la faccia rivolta al passato. Là dove ci appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che incessantemente ammucchia macerie su macerie e gliele scaraventa davanti ai piedi. Egli vorrebbe certo indugiare, destare i morti e ricomporre le cose frantumate. Ma dal paradiso soffia un vento di tempesta, che si impiglia nelle sue ali ed è così impetuoso che l’angelo non può più chiuderle. Questo vento di tempesta lo spinge incessantemente nel futuro, a cui egli gira le spalle, mentre il mucchio di rovine sale davanti a lui fino al cielo. Quel che noi chiamiamo progresso è questo vento di tempesta” (73).
(73) Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, 1967
Soltanto i sogni irriducibili degli utopisti che cantano di una società senza né servi né padroni può destare l’umanità dall’incubo della storia. La fotografia della grazia o delle passioni della Freund contraddice la ragione economica/politica imperante. Mostra che non c’è una via unica e il cammino dell’uomo, come quello dell’arte, è costellato di “mosche cocchiere” e “scimmie sapienti”, e nulla è più difficile del nascondere la propria mediocrità. La poesia, come l’amore, abita dove la si lascia entrare. “C’è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova” (Martin Buber) (74). È la diversità degli uomini (la differenziazione delle loro qualità e delle loro utopie) che costituisce la grande risorsa del genere umano. L’aura melanconica che albeggia in profondità nella fotografia della Freund mostra che la fonte della conoscenza è il bello e si pone al di sopra dell’effimero e del fluttuante che galleggiano nelle vetrine dell’apparenza. È una scrittura visuale che riporta all’Angelus Novus di Walter Benjamin e, più ancora, si riconosce nelle tradizioni hassidiche dove l’angelo ribelle non dona agli uomini la felicità in cambio di doni mercantili, ma s’innalza contro i despoti della ragione unica per meglio comprendere e rigettare un’umanità che si afferma nella distruzione. La filosofia della fotografia delle passioni dei briganti di confine o dei maestri carbonari è un cammino che porta lontano da dove la società dello spettacolo ha mangiato l’immaginario comunitario: “L’insediamento del dominio spettacolare è una trasformazione sociale così profonda da aver cambiato radicalmente l’arte di governare” (Guy Debord) (75). Il mondo apparterrà ad uomini e donne speciali, capaci di tutto, ma soprattutto di amare il diverso da sé, perché in tutti i tempi e sotto ogni cielo, il sogno ad occhi aperti degli uomini e delle donne del no! hanno trasfigurato destini, rotto le catene di Dio, patria, esercito ed hanno posto la bellezza nell’agorà dei giusti. Sotto il libero cielo della storia, gli angeli dell’utopia aprono le ali della propria pazienza e si dissolvono non davanti a Dio (secondo la tradizione talmudica), ma lasciano cadere la loro polvere d’oro e d’innocenza su tutti gli uomini e le donne in rivolta, e annunciano nel principio di uguaglianza e solidarietà tra i popoli, il divenire di una società più giusta e più umana. L’obbedienza non è mai stata una virtù. Il primo atto di libertà è stato anche il primo gesto di disobbedienza. “Forse il Diavolo è Dio in esilio” (Jean-Luc Godard) (76). Il dominio dello spettacolo, al pari di ogni totalitarismo, racchiude in sé i germi della propria caduta.
(74) Martin Buber, Il cammino dell’uomo, Edizioni Qiqajon, Comunità di base, 1990
(75) Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, SugarCo, 1990
(76) Dialogo del film One plus one, 1968, di Jean-Luc Godard
Sulla fotografia delle passioni
Nell’epoca della falsificazione e dell’impostura, le democrazie spettacolari (come i regimi comunisti) contano i propri successi nel genocidio programmato ed hanno fatto di ogni forma d’arte un manuale di polizia. I congiurati della libertà non stanno gioco e al limitare del bosco arrotano i coltelli.
L’imbecillità crede alla tirannide dei mezzi d’informazione di massa e il “buon governo” continua a generare criminali dalla faccia buona. L’inautentico si sostituisce al vero ovunque. L’organizzazione del silenzio è in atto. Il falso brilla d’ignoranza e la speranza è lasciata alla deriva dei teatrini ambulanti della politica. I terrorismi sono di Stato o di Fede. Quindi sono educativi. Dovunque regni lo spettacolo gli uomini assomigliano più alle loro merci che ai loro padri. A guisa di chiusura del bordello senza muri della società consumerista: la rivoluzione della vita quotidiana sarà opera soltanto del romanticismo eversivo degli apolidi o dei corsari dell’Utopia possibile (della democrazia partecipata o diretta) che hanno provocato il disordine senza amarlo, ed hanno messo fine alla barbarie della civiltà dello spettacolo.
A ritroso. I primi lavori della Freund sono fatti nelle strade di Parigi… la stampa delle fotografie in una camera oscura improvvisata nella sua stanza d’albergo. Vende i primi reportage (i testi sono di un giovane scrittore di notevole talento, René Crevel, che finirà suicida) e si specializza in ritratti su commissione. Quelli dei commercianti del Quartiere Latino le danno di che vivere. Mangia in una
latteria, una volta al giorno. Comprende presto il sale dell’ingiustizia e si trova accanto alla “feccia della terra”… [che] “sono quelli radiati dal loro paese” (Arthur Koestler). La tragedia della diversità è fare di ogni ideale del desiderio e di ogni teologia dello spettacolo il pitale delle proprie vergogne.
La Freund scopre nel ritratto la forma di espressione che è più congeniale alla sua sensibilità di donna e di esule. Che fotografi la povera gente di Newcastle (Inghilterra) o elabori una galleria iconologica di personaggi della cultura, dell’arte o della politica… li fissa sulla pellicola alla stessa maniera, con la stessa capacità di non-giudizio e con la forza davvero singolare di uno sguardo malinconico/passionale che brucia alla radice il tempo perduto dell’apparenza. In arte i miracoli annoiano anche i nichilisti per vocazione… la libertà fiorisce meglio tra le erbacce del disordine selvatico che sugli altari/mercati dei nuovi comandamenti globali… gli sciocchi si turbano un poco quando i mass-media dicono loro che tutte le idee sono morte e i miti spediti insieme ai cannoni là dove sorge il sole per sbarazzarsi definitivamente dei popoli più poveri della terra. Gli stupidi mostrano una certa delicatezza nel baciare le mani ai politici e lavare i piedi ai preti. L’imbecillità è il passaporto di “buona condotta” del vecchio e del nuovo secolo. La mano che sfama è la stessa mano che poi uccide l’affamato.
La prima fotografia importante della Freund è quella che fa ad André Malraux, nel 1935, ripreso sul terrazzo della sua casa parigina. Nel fotogramma originale (non quello tagliato e più diffuso) Malraux è preso sulla destra, con la mano che stringe la sigaretta alla bocca, a sinistra un’ombra sfocata lo appuntella alla sua dirompente personalità di umanista agnostico. Malraux, va detto, sarà un “compagno di strada” della Rivoluzione di Spagna del ’36, nel 1968 si schiererà a fianco del generale De Gaulle per la restaurazione dell’ordine… sfilerà sotto l’Arc de Triomphe di Parigi con i conservatori per seppellire il Maggio francese. L’alcolismo, gli oppiacei e la sindrome di Tourette (una malattia del comportamento) lo portano alla morte nel 1976. Il presidente della repubblica Jacques Chirac, amabilmente destrorso, fa trasportare la salma di Malraux al Panthéon di Parigi e gli tributa una cerimonia solenne. Nella storia, le verità cominciano da un conflitto contro la polizia e finiscono col farsi sostenere dagli stessi fucili.
Le proprietarie delle librerie sulla riva sinistra di Parigi, Sylvia Beach (Shakespeare and Co.) e Adrienne Monnier (Maison des Amis des Livres) introducono la Freund tra i loro amici e così conosce (e ferma nella fotocamera) Walter Benjamin, Louis Aragon, Colette, André Malraux, Simone De Beauvoir, Samuel Beckett, André Breton, Jean Cocteau, Ernst Hemingway, François Mauriac… l’attività della fotografa è copiosa… gioca a scacchi con Benjamin, s’intrattiene nei caffè con Gide, Malraux, Paul Valéry, Aldous Huxley, Bertolt
Brecht, Henri Barbusse, Il’ja G. Ėrenburg, Boris Pasternak… un’intera generazione di intellettuali, sovente straordinari, passa davanti al suo obiettivo e resta nella storia (anche) della fotografia.
La vena malinconica che attraversa la fotografia della Freund esprime la realtà della propria epoca. Implica una creatività, un’epica, una genialità che si trascolora in dissidenza sociale… infrange la “bella apparenza” (l’alone sacro) dell’opera d’arte e profana i rituali e le modalità riservati da molti fotografi all’élite o ai protagonisti del mondo borghese (fino a materializzare l’oscenità del vero). L’insegnamento di Benjamin per la costruzione di un’arte (non solo) fotografica della demolizione dell’aura artistica come valore di pochi non è andato perduto: “Nella fotografia, il valore espositivo inizia a spingere indietro, su tutta la linea, il valore culturale… Dalle prime fotografie l’aura si affaccia per l’ultima volta proprio nell’espressione fuggevole di un volto umano. È questo a costituirne la malinconia e incomparabile bellezza. Ma quando l’uomo si ritira dalla fotografia, allora per la prima volta il valore espositivo si oppone al valore culturale mostrandoglisi superiore [e ciò vale anche per il cinema]… lo scopo delle rivoluzioni è accelerare tale adattamento. Le rivoluzioni sono innervazioni del collettivo; più precisamente ancora, sono tentativi di innervare del nuovo collettivo, storicamente inedito” (Walter Benjamin) (77).
(77) Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica e altri saggi sui media, Rizzoli, 2013
Tutto vero. La fotografa tedesca architetta un rizomario di ritratti dove ciascuno è signore del proprio pensiero e si lascia alle spalle ogni amplificazione o scivolamento sacrale dei personaggi trattati. Compito della fotografia è liberare l’uomo dalle proprie apparenze e restituirlo alla giusta strada della realtà.
La bellezza fotografica della Freund si denuda in una specie di diario per immagini dove l’uomo insorge o è senza speranza. Il “maledetto universo della porta accanto” (E.E. Cummings) è registrato, ripreso, ritagliato direttamente dalla realtà ordinaria. La visione del desiderio che emerge dalle immagini della Freund, annuncia la necessità di un cambiamento ma suggerisce anche un’aristocratica solitudine dell’intelligenza dove l’icona non dimostra nulla ma testimonia il valore di un’idea di amore e di libertà. Appartengono alla storia della fotografia trasversale, tutte le immagini (discrepanti) che si possono guardare un paio di volte senza sputarci sopra.
A Parigi, la Freund fotografa la scontrosità di James Joyce, si reca poi in Inghilterra (dove raccoglie frammenti di vita proletaria), allarga il suo raccolto iconografico di scrittori con Virginia Woolf, Vita Sackville-West, G.B. Shaw, T.S. Eliot… mentre è in Inghilterra scoppia la seconda guerra mondiale… la Francia cade presto nelle mani dei nazisti e diviene “collaborazionista”… gli ebrei e i rifugiati tedeschi sono consegnati alla Gestapo… la Freund fugge in Argentina, fotografa l’alta società di Buenos Aires… le immagini di Evita e il generale Perón sono impietose, evidenziano cerimoniali e rituali di bassa levatura nobiliare e del cattivo gusto… comincia a girovagare con la fotocamera nel Paese. Lo attraversa con mezzi di fortuna fino a giungere in Patagonia. Poi è la volta del Cile, Perù, Bolivia, Brasile… invitata a tenere una conferenza in Messico, vi resta due anni. Frequenta Diego Rivera, Frida Khalo ed altri artisti
comunisti… infatti avrà dei problemi quando chiederà il visto d’ingresso per gli Stati Uniti. È nella lista nera del senatore Joseph R. McCarthy, fautore della “caccia alle streghe a Hollywood”, inquisitore di intellettuali sospettati di comunismo (78).
(78) Mario Guidorizzi, Caccia alle streghe a Hollywood, Cierre Edizioni, 2001
Finirà in galera per corruzione. Nel 1947, introdotta da Robert Capa, la Freund comincia a lavorare per l’Agenzia Magnum, ma non è troppo socievole verso la centralità intellettuale, un po’ mondana, di alcuni membri dell’Agenzia ed è espulsa. Nel 1950, rientra a Parigi, diventa amica di Jean-Paul Sartre e Albert Camus. Continua a fotografare la quotidianità ancora con stupore e a partire dal rispetto dell’altro fissa sulla pellicola la meraviglia delle piccole cose. La creaturalità del suo sguardo mira al cuore del sistematico e dell’esaustivo, e ciò che fotografa è ancora la volontà di amare o di odiare tutto ciò che gli si pone di fronte, come intimità della coscienza.
La Freund è tra i primi fotografi a sperimentare il colore. I ritratti di Gide, Henri Michaux, Michel Butor, Nathalie Sarraute, Maria Elena Vieira da Silva, Virginia Woolf, Man Ray… sono straordinari… ciascuno è venato di quella discrezione coraggiosa che attraversa molta della sua scrittura fotografica… mostrano anche che l’obiettività dell’immagine è soltanto un’illusione o una menzogna. Le immagini della Woolf, Benjamin, Joyce, Cocteau, Breton, Colette, Sartre, De Beauvoir, Yourcenar, Kahlo, Matisse, Duchamp… esprimono una lettura del corpo deputata a dire, ridire, affinare, precisare, correggere, aggiungere ciò che il corpo esige… la fotografa fissa nella fotocamera l’intuizione, per non dimenticarla. Le sue immagini, architettate in un manto di colore quasi monocromatico (marrone/rosso)… non sono elegiache ma confessioni del corpo, lasciano trasparire il rapporto paritario/culturale tra fotografa e ritrattati. Il ritratto ufficiale di Mitterrand è immerso tra l’oscuro (il corpo) e la luce (il viso e le mani che tengono un libro)… il presidente assume un’aria bonaria, quasi “tonta”, tipica dell’uomo che si è fatto da sé ed ha raggiunto il tetto dell’impero, a conferma del detto: tutti i baristi di club finiscono in politica.
La Freund alterna il lavoro di fotografa con quello di saggista. I suoi libri — I ritratti di James Joyce a Parigi: gli ultimi anni (79), Il Mondo e il mio obiettivo (80), Fotografia e società (81) (un testo fondamentale per lo studio della fotografia sociale) rispecchiano la misura del vero, del buono, del bene, unicamente in funzione dell’uomo, della donna liberi e creatori dei propri valori. “Per me — scrive la Freund — la fotografia è prima di tutto un documento: di un avvenimento, di una situazione, di un’epoca.
Le caratteristiche di questo documento, la sua qualità, dipendono dalla persona che sta dietro l’apparecchio… Più di ogni altro mezzo, la fotografia è atta a esprimere i desideri e i bisogni degli strati sociali dominanti, a interpretare a loro modo gli avvenimenti della vita sociale” (82).
(79) Gisèle Freund, James Joyce in Paris. His final years, Harcourt, Brace & World, 1965
(80) Gisèle Freund, Il mondo e il mio obiettivo, La Tartaruga, 1984
(81) Gisèle Freund, Fotografia e società. Riflessione teorica ed esperienza pratica di una allieva di Adorno, Einaudi, 1976
(82) Gisèle Freund, Fotografia e società. Riflessione teorica ed esperienza pratica di una allieva di Adorno, Einaudi, 1976
La fotografia d’impegno civile da libero corso alle passioni, anche le più pericolose, delegittima la ricchezza, la potenza, l’onore, la virtù, la morale come aspirazioni e ingresso nella società istituita e rifiuta ogni autorità in maniera di arte. La fotografia del vero è il corpo che si fa pensiero e implica il presente come sola verità da cogliere ai bordi dell’esistenza umiliata e offesa. La fotografia delle passioni della Freund è una contro-morale emozionale che rivela la realtà etica… esiste solo ciò che la passione rende reale o possibile e il disagio che provoca restituisce il senso del bene e del male, della giustizia e dell’ingiustizia, della gioia o della collera come viatico della ragione umana.
Nel 1994, un magistrale catalogo su Gisèle Freund (83), a cura di Hubertus von Amelunxen, conferma che lo sguardo aurorale della fotografa è un raffinato incrocio di situazioni, dove i significati profondi del sublime estetico (e del loro contrario) dicono che al culmine della disperazione c’è sempre la volgarità del potere. Le ultime immagini sono degli anni ‘80. Poi si chiude nella sua casa tappezzata di libri e ci resta fino alla morte. Che è solo un dettaglio.
Perché Gisèle Freund non è mai scomparsa… restano le sue opere passionali, malinconiche e indimenticabili a scaldare i cuori della bellezza, della felicità, dell’alterità o del dissidio come filosofia materica dell’avvenire.
(83) Gisèle Freund. Zwei Reportagen, a cura di Hubertus von Amelunxen, Museum für Photographie, Braunschweig, 1994
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