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Leni Riefenstahl (“Era carina come una svastica”, diceva…) – Parte VI

di Pino Bertelli

2. Sull’apologia del corpo sedotto nell’Africa nera

“Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”.

Bertolt Brecht

 

La fotografia, sin dal principio si è formata alla scuola dei velleitari, dei falliti e dei mercanti di mitologie… nella vacuità della fotografia c’è qualcosa di profondo che meglio lavorato, potrebbe moltiplicare l’immaginario sovversivo dei cacciatori di sogni… per il momento l’industria culturale (non solo) della fotografia può dormire sonni tranquilli, poiché i fotografi (o gli intellettuali di cordata) scelgono bene la qualità degli avverbi e la proprietà degli aggettivi… le loro opere di secondo piano lo dicono… ecco perché si abbandonano all’agio dell’improvvisazione calcolata… rendono il vero amabile e anche quando si sparano un colpo in bocca, lo fanno con un telegramma digitale per la posterità… è difficile pensare a un sovversivo di tutte le arti, che si è abbeverato alla fonte di Nietzsche, Baudelaire, Rimbaud o Bonnot… con un conto in banca che non fa ridere… semmai lo troveremo a disimparare ciò che ha appreso dalla nevralgia della cultura insegnata… sotto il macigno delle dossologie che tirano le conclusioni, giace l’impostore.

Nella storia della fotografia Leni Riefenstahl ha un suo percorso e gli estimatori di questa teorica della bellezza eterea o dell’apologia del corpo nazista o quello uncinato d’eclettismo fatalista dei guerrieri Nuba, non sono pochi. I suoi lavori hanno trovato posto nelle gallerie, nei musei o tra gli operatori del settore. C’è chi non dimentica il suo sostegno al nazismo, come noi, e ne fa oggetto di derisione o avversione proprio perché ha visto nella Riefenstahl elementi artistici non comuni, e chi le perdona tutto, anche una scrittura fotografica fortemente segnata dall’esaltazione della “purezza” come mimesi di un’espressione e di una sensibilità insincera o comunque che non tocca le zone profonde della materia trattata. Le sue fotografie sono la celebrazione del kitsch, tableau vivant di una struttura narrativa che emula il pittorialismo del salice piangente, più che il carattere della quercia che resiste alle tempeste della storia e piega il vero nell’ambiguità della lusinga.

Nel primo dopoguerra e fino agli anni ’50 la Riefenstahl aveva cercato di tornare al cinema. Il suo passato al servizio di Hitler la connota senza scampo tra i complici più paludati e le è difficile chiudere i suoi progetti. Anche il film sugli schiavi, Carico nero, che voleva girare in Kenia, non va a buon fine. Nel 1962, fulminata sulla via della fotografia da un’immagine di George Rodger — due statuari lottatori Nuba —, si trasferisce nel Sudan meridionale e realizza degli splendidi reportage “etnologici” (documentari e fotografie) sui Nuba. 

La sua scrittura fotografica però non contiene l’universo che attraversa l’abisso colonialista subìto da un popolo, è una fotografia incapace di sollecitare giudizi critici da parte del lettore, ma ne contorna o ne suscita una lettura dottrinale che rimanda a una modalità costruttiva fantasmata sulle ceneri della verità antropologica!

La bellezza delle sue fotografie è coinvolgente e l’elegia dei corpi di un popolo che vede come conservatore di antiche gesta guerresche, anche. La Riefenstahl frequenta i Nuba e l’Africa in diversi periodi e dopo molte controversie editoriali dà alle stampe Die Nuba von Kau (1973), Die Nuba (1976) e Men Afrika (1982)… già l’assonanza di questo titolo con il Mein Kampf di Hitler ci disturba non poco… del resto le sue fotografie lo dicono… l’orgoglio della negritudine è tutto nella forma, mai nella sostanza… nemmeno l’ipocrisia dei santi è così consumata nella perfidia del miracolo fotografico che li preserva in salvazioni di second’ordine… quando il fotografo s’incastona nella fisiognomica dei caratteri, lì vicino ci sono sempre le catene del negriero che ne raccoglie le spoglie. I ritrattati cambiano disperazione come i padroni di bastone! I volti tristemente allegri o ritirati nella paura, sanguinano di singhiozzi, ma la fotografa li nasconde nella tecnica dell’emulazione pittorica e nemmeno bene… i gesti, i balli, le acconciature… non affondano nella preistoria come è stato detto, ma nel folclore un po’ raffinato che ne moltiplica il disagio a vivere. La fotografia non è mai innocente, tantomeno il fotografo! La trappola è la soglia e non c’è conciliazione col dolore degli altri se non c’è l’inizio di un fare-fotografia che ne annuncia la lacerazione o la rivolta.

La Riefenstahl si è ben accomodata nell’istrionismo fotografico leccato… in una mistica dell’apparenza tutta giocata sulle forme/tentazioni dell’utilità… l’espressione prevista di probità ortodosse che ignorano il terribile della schiavitù… così danza, danza tra il coronamento di un’impresa editoriale e il paradosso di incensare popoli e razze che qualche tempo addietro avrebbe felicemente soppresso nel letame. Comunque sia gli arrivano premi e onorificenze. Incontra personaggi di interesse pubblico, almeno per i consumatori di idoli, come Mick Jagger o Andy Warhol, e ovunque nel mondo gli rinnovano i tributi del passato. Poiché nelle sue fotografie l’eterno ritorno dell’identico s’impone (Nietzsche non c’entra), l’insufficiente diventa evento e la mediocrità l’arte di ritrattare storie che puzzano di assassinio.

Nel 2000 la Riefenstahl torna dai Nuba ed è quasi un commiato. Li trova decimati dalla guerra civile, dalla miseria, dalle malattie, convertiti o costretti ad abbracciare la religione fondamentalista islamica (ma il cattolicesimo e l’ebraismo non sono stati da meno in quanto a truci inquisizioni) e rischiano l’estinzione. L’avanzare del progresso a colpi di fucile porta ovunque la richiesta di cannibalismo mercantile e neocolonialista dell’economia globale. C’è da dire che nelle fotografie della Riefenstahl, la visione estetica o pittorialista — come sostiene Susan Sontag —, non sembra perdere quell’esibizione del bello esteriore caro alla cultura vigliacca delle dittature. Sull’iconologia del corpo sedotto della Riefenstahl. Lo sappiamo… nelle religioni la seduzione ha sempre rappresentato la stregoneria del demonio… una strategia dei corpi violati dagli artifici dei potenti… una maledizione che si è mantenuta inalterata attraverso la morale e la filosofia, attualizzate dalla sociologia, psicoanalisi, piani finanziari, politiche d’appropriazione della domesticazione sociale, e lavora sulle dinamiche di condizionamento delle folle… è la seduzione che costruisce destini, produce bisogni, condiziona desideri e mostra il mutare degli atteggiamenti nei cori della comunicazione massmediale, per meglio servirla di consensi… è la filosofia della ricompensa, del fac-simile, dell’economia espansionista che riproduce se stessa attraverso le merci e i clienti… come si conviene ai deboli di spirito, tutti gli argomenti trattati dall’economia-politica vanno bene, poiché se sono i medesimi che passano in rassegna tutte le abdicazioni del pensiero identitario e producono l’inflazione progressiva del cervello.

C’è anche la seduzione come sovversione dell’immaginario sociale e ci piace non poco: “La seduzione è sempre all’erta, pronta a distruggere ogni ordine divino, foss’anche quello della produzione o del desiderio. Per tutte le ortodossie la seduzione continua a rappresentare il maleficio e l’artificio, una magia nera che perverte tutte le verità, una congiura di segni, un’esaltazione dei segni nella loro utilizzazione malefica. Ogni discorso è minacciato da questa improvvisa reversibilità o assorbimento nei propri segni, senza traccia di senso. È per questo che tutte le discipline, il cui assioma sia costituito dalla coerenza e dalla finalità del proprio discorso, non possono che esorcizzarla. Ed è qui che seduzione e femminilità si confondono, si sono sempre confuse. L’incubo del maschile è sempre stata la possibilità improvvisa di reversione nel femminile. Seduzione e femminilità sono ineluttabili come il rovescio stesso del sesso, del senso, del potere. Oggi l’esorcismo si fa più violento, più sistematico. Entriamo nell’era delle soluzioni finali, ad esempio quella della rivoluzione sessuale, della produzione e della gestione di tutti i godimenti liminali e subliminali, micro-processione del desiderio di cui la donna, produttrice di se stessa come donna e come sesso, è l’ultima incarnazione. Fine della seduzione. Oppure trionfo della seduzione ‘molle’, femminilizzazione ed erotizzazione bianca e diffusa di tutti i rapporti in un universo sociale ormai esaurito. Oppure, ancora, niente di tutto questo. Perché niente potrebbe essere più grande della seduzione stessa, neppure l’ordine che la distrugge”[1]. La seduzione è un crocevia di differenze non un’omologazione visiva del desiderio ereticale maschile e femminile… è il miele lustrale che sgorga nella donna che nasce tra le cosce degli dèi gnostici e dove l’uomo selvatico si abbevera nell’ebbrezza dell’amore, diceva… la seduzione non è un’offerta dell’erotismo pornografico mercificato e nemmeno una strategia salvifica dell’identità individuale, l’erotismo della seduzione ludica è un’accezione radicale (duale, rituale, interpretativa) di uno spazio-tempo conquistato in un’intimità (senza distinzione di età e sesso) che porta alla liberazione sessuale dalle forme di costrizione e delle regole distruttive della società seriale… svincolare le pulsioni inconsce in ogni ambito del sapere e despecializzare la seduzione dall’idea di una catalogazione spirituale o istituzionalizzata che ne detiene la sussistenza, è un atto di sovversione contro il ciclo sacrificale dell’obbedienza.

A partire dai riti panici/pagani e passando per Dioniso, Baubò (o dea dell’oscenità, priva di testa che parlava dalla fica), Saffo fino a Kierkegaard, e poi ovunque la seduzione ha sradicato il corpo incantato dai nichilismi di una cultura secolare che odia la vita… si è potuto vivere gli eccessi del proibito o la decadenza di situazioni individuali e collettive che internavano la seduzione sotto le urine degli impiccati… non abbiamo mai letto una pagina di Buddha, Schopenhauer o Nietzsche senza pensare che il Reale è una convenzione… e la menzogna è la forma più alta dell’irrealtà di ogni sistema… come la metafisica di una cimice che rende tutto sopportabile, specie quando è schiacciata.

[1] Jean Baudrillard, Della seduzione, SE, 2017

A proposito… l’oscenità di Baubò non è mai volgare… Baubò non ha testa, ha gli occhi al posto dei capezzoli e la bocca al posto dei genitali. Si muove dimenando i fianchi e mimando un rapporto sessuale. Parla attraverso la sua vagina, racconta storie scurrili e divertenti… una sporcacciona che mescola la musica, il movimento, il cibo, le bevande, la pace, la quiete, la bellezza… un fuoco sotterraneo della sessualità liberata… una selvaggia della seduzione della sacralità sessuale che fertilizzava la psiche femminile e, perché no, maschile… una cantadora del sesso libero… che rideva delle banalità del mondo e se ne fregava della virilità maschile… nel dissacrato, nell’osceno e nel sessuale senza confini c’è sempre una risata selvatica in attesa che tutto precipiti nell’amore più estremo… è una sessualità della gioia che per un istante appena o per sempre, vive e vola libera dove la porta il piacere. L’amore liberato “è sacro perché è così salutare. È sensuale perché risveglia il corpo e le emozioni. È sessuale perché è eccitante e provoca ondate di piacere. Non è unidimensionale, perché il riso si spartisce con se stessi e con tanti altri. È la sessualità più selvaggia nella donna” (Clarissa Pinkola Estés)[1]. Gli uomini, va detto, vivono una sessualità preordinata, sono molto più adatti per la pesca, il tiro al piccione e la guerra… anche per gli stupri s’arrangiano come possono… poiché deambulano alla periferia dell’amore in attesa di un’erezione che li consacri santi armati di pugnale. In mancanza di meglio, incolpano le loro angosce alla mancata impresa sessuale o alla sterilità di un sorriso della donna/femmina a loro sconosciuta.

Nessuno ti ha amato né ti amerà mai come me, sorella mia e mia sposa, disse il re nel Cantico dei cantici — “Mi abbeveri di baci la tua bocca/Perché il tuo amore inebria più del vino”(…) “Come sei bella amica mia come sei bella/Hai per occhi colombe/ Come sei bello e caro amico mio” (…) “E il nostro letto è di fiori”. La canzone delle canzoni che Salomone dedica a Sulamita,  è un inno alla seduzione convulsa che si avviluppa in una magia spudorata e inconsacrata, dove il corpo ingoia il desiderio e in una rapsodia scritturale erotica ignuda ogni morale da bordello… l’impudore si rovescia anche contro Dio, poiché l’anima amata rinuncia all’orgoglio dei miserabili: “L’Anima amante di Dio si masturba in solitudine, sognando che l’Amato è vicino: Si alza e va ad aprire, l’Amato è sparito, la strada è deserta, alle finestre turate non c’è nessuno. Dal mistero notturno esce solo il bargello che piglia e frusta chi va in giro nel coprifuoco, in cerca di un Dio fuggitivo che si nasconde, dell’amante di un sogno”… l’amante senza Dio, “anche sulle bandiere nere e rosse dell’anarchismo ha fluttuato, simbolo di sfida sessuale libertaria” (Guido Ceronetti)[2]. Ed è qui che la Torah, la Bibbia e il Corano non forniscono nessuna risposta alla seduzione che si abbandona ai propri istinti, alle proprie passioni e alle proprie pulsioni… perché il Vero, il Giusto e il Bene sono visioni da condannare, soggetti disincarnati dalla volontà dei preti, dei re e dei tiranni di controllare i corpi facendo leva sulla devastazione delle anime.

Il corpo occidentale contemporaneo nasce dal cristianesimo e porta nella carne tutti segni delle determinazioni inflitte da questa religione regressiva, nevrotica che si è sversata nelle ideologie, nelle dottrine e nei dettami della civiltà dello spettacolo. “Da un cadavere coronato di spine, con il fianco trapassato, ricoperto di ecchimosi e morto per asfissia su una croce, viene estrapolata una carne che assurge a norma: si tratta allora di desiderare questo stato e di voler soffrire nel quotidiano la Passione” (Michel Onfray)[3]. Per gli eretici d’ogni eresia, la seduzione si manifesta come puro desiderio, come declinazione dell’amore e del piacere senza residui sacrificali… ce ne freghiamo anche del mito di Don Giovanni, certo… vogliamo godere senza freni (né differenze sessuali) di un’immaginazione libertina e libertaria impertinente… una seduzione obliqua che si configura sulla distruzione delle apparenze. Non c’è una teoria della seduzione… ci sono corpi che transitano nel sovra-sensibile del piacere e corpi sedotti da un sistema che li ri/riproduce a propria immagine… c’è una sana seduzione dell’inconosciuto e una regressione o finzione mentale che ne suggerisce le vesti.

I corpi sedotti dell’Africa nera della Riefenstahl, figurano un’appropriazione della forma/bellezza, non il sano edonismo licenzioso che corrisponde ai riti pagani fissati nelle orme dei padri… quando la pratica gnostica discolpava gli umani d’ogni peccato e li lasciava liberi di vivere e agire sotto il segno della grazia, non della legge.

[1] Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi, Frassinelli, 1993

[2] Il cantico dei cantici, a cura di Guido Ceronetti, Adelphi, 1975

[3] Michel Onfray, Il corpo incantato. Una genealogia faustiana, Ponte alle grazie, 2012

Quando il giusto e l’ingiusto non erano tali per convenzione, e nessuno aveva bisogno di una morale repressiva che immiseriva la sregolatezza libidica sparsa nei potlatc (o doni suntuari) di passioni e desideri, di pulsioni e dei piaceri della carne, il soddisfacimento di un’innocenza primitiva. Ma una cosa la sapevano bene. L’amore risiede nei piaceri della naturalezza e non nell’autorità che lo regola o lo reprime.

I corpi nudi dei Nuba sono affascinanti. La Riefenstahl li fotografa in modo imperioso, sovente in controluce, esalta gesti e tratti, congela momenti e costruisce siparietti, esibisce trattamenti elementari dell’immagine e finisce con allontanarsi dallo stupore della fotografia disingannata. Si accosta alle abitudini dei Nuba ma non è lo sguardo della ricerca antropologica che la guida, semmai è un’abrasione delle forme, dei colori, degli atteggiamenti che fissa nella fotocamera. A leggere con attenzione le sue fotografie si vede che i ritratti ravvicinati, ritagliati, colti fuori del proprio accadere, mantengono una certa vitalità espressiva, quando si accosta agli usi e ai costumi dei villaggi (danze, vestizioni, lavori, rituali), ciò che resta dell’attimo catturato è soltanto l’estetizzazione del fatto, niente più. In materia di sessualità liberata, ogni licenza è benvenuta e ciascuno impara ad amare il proprio destino, quali siano le forme, i modi, i sentimenti o le abiure che non impediscono di mordere il frutto dell’albero della conoscenza. Obbedire ai propri desideri svincolati da tutte tavole camandamentali, ecco il solo comportamento che disvela il peccato come “puro”, senza incorrere nella salvezza o dannazione del divino.

L’estetica nazista della Riefenstahl fuoriesce nell’iconologia del corpo divinizzato dei guerrieri Nuba… la danza, la forza, la potenza di uomini e donne nudi esprimono una figurazione di cerimonie adamitiche e non un panteismo radicale, naturalista, materialista o edonista che le suggerisce… qui lo sguardo caritatevole della fotografa equivale al crimine della bellezza libertina infarinata di “bellezza virile” messa in risalto e contro la soppressione di tutte le sofferenze… una catenaria di corpi e gesti sublimati in una realtà consustanziale a un immaginario da merletto… la fotografa deterge il dionisiaco a favore dell’apollineo… l’artifizio è tutto in una visione simbolica della vita semplice che ricama a propria immagine, ma dalla ritrattistica che ne esce non c’è rapporto di casualità o conoscenza di sé (e quindi degli altri) con la vita quotidiana dei  Nuba.

I volti dei Nuba sono stretti (inquadrati) in una fissità grossolana, checché ne dicano gli esperti dell’industria culturale fotografica… sempre proni a sostenere la nevrastenia del successo come salsa di tutte le morie dell’intelligenza vivida che ne sconsacra la sorte… a vedere in profondità e senza ulcerazioni di giubilo, i loro sguardi, gli atteggiamenti, le condiscendenze che ne intensificano la pretesa finitudine creativa, i Nuba non esprimono se stessi ma una ragnatela di paure, angosce, miserie colorate che invitano a riflettere sull’istante e lo riempiono di verità finzionali dove la fotografia si prende gioco della fotografia e impedisce di considerare la verità come misura di tutte le cose… la bellezza dei corpi dipinti, cosparsi di unguenti, amplificati nell’esposizione dei sessi, fissati nella loro energia… sono modellati in una destrezza e ardore agonistico che riportano a un’eredità tribale che riconcilia i fasti di una cultura pervertita alla supremazia della razza tesa ad olezzare i vezzi e i rimpianti del nazionalsocialismo.

I fotoritratti statuari di Olympia (pubblicati nel 1937 in un libro così “bello” e adatto ad emulazioni accademiche, studiato con attenzione nei corsi di grafica pubblicitaria), sono riproposti con la medesima enfasi, con eguale mancanza di profondità etica, nelle fotografie dei Nuba. Qui, come là, la Riefenstahl si abbandona ad immagini—simulacro e mostra che l’ultimo asilo dell’arte è l’imbalsamazione della propria intelligenza nei magazzini dello spettacolo.

L’esposizione dei corpi di Olympia ci lascia sgomenti… da un lato si resta avvampati dalla bellezza statuaria degli atleti, dall’altro la Riefenstahl ci racconta in maniera del tutto simbolica anche i giochi olimpici, ma soprattuto l’esaltazione dei corpi come accesso al sacro e più ancora come unione e adorazione al Dio-Hitler sugli spalti dello stadio… il rito del gesto, anche quello costruito, esegue una gestazione del bagnare, stringere, togliere, unire, respingere, inseminare… non secondo una cura dei piaceri o l’avvento dell’unità tra l’io e il mondo, ma nel senso di una teologia dell’orrore e dell’impunità che sottende l’implorazione al carnefice… lo stile, la sintassi e la grammatica di tutta l’opera della Riefenstahl ha fatto scorrere fiumi di inchiostro… ha bendato il popolo tedesco nel pregiudizio e nel protettorato della menzogna e della forza… sodomizzato fotografi, storici, critici e fatto della fotografia uncinata della Riefenstahl la disinfezione ideologia di tutti i dissensi. “E così come i cani non generano gatti, gli universitari non generano pensatori sovversivi (Michel Onfray)[1]. Il fascismo, il nazismo, il comunismo, il mercantilismo… hanno insanguinato un’epoca della sottomissione e attraverso il monopolio dell’educazione e della repressione, si sono impossessati anche del nichilismo della carne, e attraverso la finzione del corpo mutuata dal grande impostore (Gesù Cristo), hanno universalizzato nella rappresentazione iconica di un mito, un profeta o un dittatore… l’ascesi di tutte le mistiche del terrore.

I commentari di un’opera d’arte sono la critica radicale alla seduzione che si porta dentro. Il fascino di un’espressione artistica coincide con il contenuto di verità che rivela e come deborda o insorge dalla decostruzione dell’impero dei segni. Non c’è nulla che leghi il successo di un artista ai paradisi artificiali del mercato, quanto un’opera d’arte svuotata di contenuti e avvolta magnificamente nella forma. “L’amore dell’ordine del mondo, della bellezza del mondo, è il completamento dell’amore del prossimo” (Simone Weil)[1]. Di là dall’amore di Dio o del Diavolo… tutte le volte che l’uomo si eleva a uno stato di dominio sugli altri uomini, manifesta un’intenzionalità macabra… gli schiavi diventano simili ai loro padroni, obbedendo o eseguendo i loro misfatti… e le loro voci, corpi, comportamenti sono il prolungamento di un ordinamento che non contempla l’amore ma la morte della bellezza… il fanatismo copre una mancanza di coraggio e oltraggia la dignità personale e di un intero popolo… Occorre cercare di comprendere, imparare, valutare gli uomini per quello che soffrono o per quello che fanno e non fanno di fronte all’ingiustizia… la saggezza non è mai apparsa sulla punta dei fucili e fuori da sforzarsi di capire che cosa effettivamente pensi il “popolo”, non resta che la la resa o la resistenza.

Per il bene la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità: “Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza; il male porta  sempre con sé il germe dell’autodissoluzione, perché dietro di sé nell’uomo lascia almeno un senso di malessere. Ma contro la stupidità non si può ottenere nulla” (Dietrich Bonhoeffer)[2]. Tutto vero. Solo attraverso un’autentica liberazione interiore possiamo aspirare a una liberazione allargata… la scelta dell’azione sovversiva premia o punisce responsabilità e delitti… coloro che detengono il potere lo sanno… essi ripongono il loro dominio sulla stupidità ed è consolante sapere che ogni tanto nella storia i dominatori finiscono impiccati alle aste delle bandiere nazionali o si sparano un colpo in testa! Per noi che siamo stati allevati nella pubblica via e spudoratamente amiamo Don Chisciotte, eretici indefessi di ogni eresia, ciò che conta è sapere che la fiducia dell’uomo nell’uomo, primo o poi produrrà una rivoluzione umana.

[1] Simone Weil, L’amore di Dio, San Paolo, 2013

[2] Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa, San Paolo, 2015

 

Il culto della bellezza eterea della fotografa tedesca lascia fuori dalla sua opera tutta, il dolore dei popoli. L’apparenza seduttiva della Riefenstahl è inseparabile dall’inconscio sociale al quale mira e sembra non comprendere che abitare il corpo significa lasciare impronte. Di più. Le sue immagini sono feticci che trasferiscono il carattere della propaganda o dell’esaltazione della razza “pura” nella merce. E quanto di peggiore possa capitare ad un artista è che la sua “arte” possa essere marchiata come espressione compiuta dei valori e delle idee incrostate nelle simbologie evangeliche, nevrotiche e funeste del proprio tempo. Del resto, la fotografia è sempre stata dalla parte dei potenti sin dalla sua nascita. I mercanti hanno fatto il resto. I critici e gli storici poi, specie quelli che sembravano mordere più degli altri, sono subito entrati nei libri paga degli “affaristi” e trafficanti d’arte, e sono diventati i più fedeli cani da guardia dei saperi imbavagliati nei centri di potere. Amen! e così sia.

È un fatto che la fotografia ha contribuito potentemente ad estendere nell’ambito dell’economia consumistica, l’ecletticissimo del banale e l’inconcepibile dell’impostura, “offrendo sul mercato in quantità illimitata personaggi, scene, avvenimenti, che non sarebbero mai stati utilizzati o potevano esserlo solo come immagini di un cliente” (Walter Benjamin). Il talento è il mezzo più sicuro e, al contempo, la competenza più assassina per passare dall’imitazione all’inventario dei glossatori… gli artisti incompresi non sono mai esistiti, la fraseologia del sarcasmo lo dice… solo i plagiari hanno qualcosa da dire, poiché un’opera d’arte degna di questo nome non trova nessuna categoria in cui nascondere le proprie insolenze! Cosa c’è di più disonesto della fotografia impiumata di chiacchere da portinai? Il cinismo delle chiese, della politica, della finanza e delle guerre… la fotografia che vale è un antidoto alla tristezza di essere capiti! Il valore di cronaca è il medesimo del valore di merce… il torto della fotografia è di essere troppo stupida per essere vera. Gli abulici, gli isterici, i volgari provano quello che affermano, cioè l’insincerità della propria condizione… e fanno della fotografia il riscatto dei propri fallimenti. La fede, la politica e la bestialità dei mercati distornano lo snobismo da codice penale e presto o tardi qualunque fotografia incontra la propria decadenza o la verità lebbrosa che l’annega in un’agonia senza epilogo.

La fotografia della Reifenstahl, da qualunque punto di vista possa essere letta, è un abbellimento e un’aberrazione insaziabile di vitalità ossessionata da pulsioni di morte… un’esibizione plastica di ciò che dice di occuparsi… una dialettica del rigore e della lusinga che mendica supplementi d’avvenire… peccato che in ogni immagine si cela il pregiudizio dell’onore, della gloria e della fama… come circonvenzioni di incapaci che hanno portato a termine la loro missione di distruzione della bellezza come giustizia. Le immagini della Reifenstahl sono proiezioni del desiderio in cui la comunità è cancellata nell’ordinamento o nella costruzione dell’effimero come forma normale di delirio. Il corpo ideologizzato che mette in scena prende valore tanto nelle propagande di regime, quanto nelle riviste di moda e nei rotocalchi. Il corpo bello, sano e stagliato contro la miseria quotidiana incita all’ottimismo e all’accettazione del potere in carica. Anche la guerra è bella. Anche la fame. Anche il genocidio, dicono i telegiornali internazionali, facendo finta di non sapere chi sono i carnefici e chi le vittime. La fotografia più consumata dissemina, senza un filo di dignità, la libertà e la bellezza, tutta falsificata, della civiltà dello spettacolo.

A sfogliare il libro di fotografie subacquee della Riefenstahl, Coral Gardens (1978) o a rivedere le immagini più algide della competizione olimpica (1937), passando per i corpi celebrati dei Nuba, non è difficile scorgere l’epifania del gioco al rialzo dove i corpi, come i colori dei fiori marini, esprimono non tanto una filosofia della vivenza cruda, ma la trascolorazione dello stupore in metafore figurative che fratturano il rapporto tra bellezza e verità.

L’estetismo è l’abisso della tragedia e gli dèi sono i soli in grado di comprendere che le idee della fotografia stanno alla realtà come il cappio del boia sta alla giustizia.

Le fotoscritture simboliche o lo stile “abbronzante” della Riefenstahl rimanda a una metafisica del corpo che nulla a che fare con le citazioni della classicità greca sparse come modelli, e le corrispondenze geometriche non riportano alla preistoria dell’umanità, come lei stessa ha sostenuto e in molti hanno scritto, ma rappresentano le rovine di un pensiero elitario, dove la sublimazione dei corpi risponde alla politicizzazione mercantile dell’arte. Le dittature fasciste, naziste o comuniste, al pari delle gogne mediatiche delle democrazie dell’opulenza, hanno usato l’ideologizzazione e l’esibizione dei corpi come autoaffermazione liberatoria e vestito di supremazia razziale la ricerca del consenso. Il genio comincia sempre col dolore, ecco perché i fotografi, anche i più blasonati, raccordano la fotografia con la merce! “Se desideriamo conoscere la forza del genio umano dobbiamo leggere Shakespeare. Se vogliamo constatare quanto sia insignificante l’istruzione umana possiamo studiare i suoi commentatori” (William Hazlitt)[1]. L’ignoranza dei fotografi, storici, critici, galleristi, collezionisti colti è abissale… discettano sull’adulazione come un cane rabbioso con le zecche… si direbbe che hanno l’impertinenza di barattare i propri ghigni raffinati con la megalomania degli aureolati… e fanno della sostituzione di carogne certificate con la loro assoluzione, un inventariato di schifezze sempre al passo con ciò che vuole il mercato!

La fotoritrattistica più alta mostra la realtà dell‘uomo colta sul fatto. Poi l’attimo scompare, muore nell’evento fotografico. Situarsi in rapporto con quello che il nostro sguardo percepisce, significa non tradire il contenuto dalla forma. Per “significare” il mondo, “occorre essere coinvolti nella scelta di quanto lasciamo fuori dall’inquadratura” (Henri Cartier-Bresson, il maestro). La fotografia è la “terra di nessuno” dove l’istante scippato alla storia è nel contempo la domanda e la risposta. Una sola immagine di Robert Capa, leggermente fuori fuoco, contiene più poesia che l’intera opera della Riefenstahl. Ma Capa aveva un “grande cuore ebreo pieno d’amore” per gli sfruttati e gli oppressi, la Riefenstahl non aveva mai compreso che possedere la verità ed avere ragione sono due cose diverse.

Nella fotografia della Riefenstahl emerge una “teologia mondana” della decadenza che non contempla né il sangue dei ribelli né la sclerosi dei regimi, semmai ne decreta l’impossibilità storica o la ignora. I corpi fotografati dalla Riefenstahl esprimono un’arte media che, come insegna Pierre Bourdieu, è un’estetica che sta a metà strada tra l’arte nobile e l’arte popolare.  Un solo sputo indirizzato contro la fotografia, abolisce un avvenire di sussistenza… lo slittamento fuori dallo spettacolare mercatale fa di un analfabeta il tirocinante di nuove conoscenze e verità… per quelli che credono in tutto, anche che il Papa sia Dio in terra, hanno costruito appositi bordelli dell’immaginario, dove ci si può trattenere tra il dilettantismo e lo smarrimento… senza sapere mai che si distrugge il vocabolario dei cortigiani, quando si distruggono gli dèi che l’hanno codificato. La fotografia non è un’impressione della realtà, è la realtà impressa nella storia dell’immagine e dell’umanità che mette sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore, diceva, o non è niente. Che la Fotografia sia con noi.

[1] William Hazlitt, Sull’ignoranza delle persone colte e altri saggi, Fazi Editore,  1996

L’indegnità del nazismo è un lutto prolungato… l’infeudamento religioso con il quale ha convertito le folle all’esecuzione sommaria degli ebrei… con l’indifferenza o la compromissione  diplomatica dell’Occidente e l’avallo silenzioso, antisemita, di gran parte della Santa Romana Chiesa… ha permesso lo sterminio organizzato per la “supremazia della razza superiore”, a protezione del popolo e dello Stato[1]. Gli editti nazisti erano la ricompensa a chi avesse innalzato fino a Hitler la ragionevolezza del sopruso, frequentato i tribunali delle SS, figurato l’ardore del Reich (come Leni Riefenstahl) e fatto dell’allucinazione nazista una barbarie da neofiti. I gemiti dei suppliziati, degli umiliati, dei sacrificati al risveglio di una mistica nazionale, non riguardavano l’inumanità bestiale di un intero popolo… ciascuno era parte di una paura più grande o supportava la demonologia dell’ebreo instaurata da Hitler… un odio parossistico che legittimava  l’eliminazione dell’“igiene razziale”, il “fetore giudaico” e gli “esseri biologicamente inferiori” nei campi di sterminio. Lo spirito del cameratismo, dell’antisemitismo e dell’esaltazione patriottica rigeneravano il singolo nella nazione e gli assassini con la faccia dipinta da eroi, facevano della brutalizzazione delle coscienze, il lasciapassare per l’assassinio di massa.

[1] Anne Grynberg, Shoah. Gli ebrei e la catastrofe, L’Unità. Universale Electa/Gallimard,  1995

La fotografia abbraccia l’onda creativa fino al termine dei mercati o fiancheggia l’apologia del crimine costituito… siccome il mondo ubbidiente della fotografia e la schiavitù hanno lo stesso alito… e basta il profumo di un fiore di mirto per dimenticare secoli di angherie… vogliamo chiudere, o forse aprire, il nostro discorso amoroso o collerico sulle scritture fotografiche, col saccheggio della rubrica di Michele Smargiassi, Fotocrazia… e di là o di qua dalla linea della perfezione fotografica e dal miserabilismo che la evoca, ci affranchiamo alle invettive citate da Smargiassi — fotocrate e prosatore d’indubbio talento, nonché raccoglitore di anime sovversive al margine del bosco fatato della fotografia consumerista —, e non ci interessa sapere nemmeno chi le ha scritte (se un fotografo, uno critico o un matto): “Bastano due mesi di fotografie per mutare un’oca in un usignolo e un  gorilla in un principe azzurro (…) Stalin è un prodotto della macchina fotografica più che del Capitale di Marx (…) Gente intossicata da una droga, che nello stesso momento in cui sollecita la nausea, fortifica la sua tirannia (…) Un uomo fotografato è sempre un poco fantoccio, e una donna un manichino: c’è nella fotografia qualcosa di supremamente ridicolo”[1]. C’è del vero qui. La fotografia conosce la propria impotenza e il proprio smarrimento, anche il richiamo alla sovversione non sospetta dell’immaginario… le distinzioni bene/male, vero/falso, bello/brutto sono categorie dell’inconscio che abitano il possibile o il necessario, ma solo la conoscenza di sé in rapporto all’amore dell’altro è la chiave di comprensione della regalità libertaria.

[1] https://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/

Il viaggio à rebours della fotografia è una fuoriuscita del pensiero pensato, dell’immagine riciclata o ereticale, della realtà pronunciata o recisa… il richiamo alla gnosi dell’insopportabile presenza dell’illusione… interrogazione o cesura che fa nascere il senso di una faglia inattesa  dove crepa la forma in contenuti inesistenti o traspone l’immagine nella pietra che il respiro libertario del fotografo scandisce! dove il poderoso irrompe nel reale e fotografa sempre Dio, ma contro Dio!  Poiché il fotografato non sorge nel dimenticato o nel divenire, ma nell’immediato che ne dispiega il confine superato! La fotografia nella quale un universo non avesse posto non sarebbe tale, perché sarebbe una fotografia priva delle sue immagini più belle: quelle che da un granello di sabbia riescono a trasmutarsi in una stella.

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