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Marialba Russo – Sulla fotografia mediterranea

di Pino Bertelli

“Il pensiero meridiano è quel pensiero che si inizia a sentir dentro laddove inizia il mare, quando la riva interrompe gli integrismi della terra (in primis quello dell’economia e dello sviluppo), quando si scopre che il confine non è un luogo dove il mondo finisce, ma quello dove i diversi si toccano e là la partita del rapporto con l’altro diventa difficile e vera… 
Il pensiero meridiano è radicato qui, nella resistenza delle molteplicità delle voci, delle vie, delle dignità, nella capacità di rovesciare in risorse quelli che nell’ottica primitiva dello sviluppo sembrano vincoli, limiti e vizi”.
                                                                                                                                                                                                      Franco Cassano

Sulla dolce anarchia della fotografia

La fotografia mediterranea è una filosofia dell’accoglienza, della convivenza, della condivisione e figura percorsi della contraddizione, della bellezza, della grazia nel “mare in mezzo alle terre” (il Mediterraneo) e nel mondo…. è una geografia di corpi in amore o in rivolta che non si limita a descrivere le strutture economiche/politiche che condizionano la verità, più di ogni cosa è un grimaldello della conoscenza che apre le porte della vivenza reale tra gli esseri umani. Per cambiare il mondo gli uomini e le donne devono cessare di interpretarlo (Karl Marx), ma vivere la propria esistenza come rivolta in permanenza contro l’ordine costituito. Una filosofia in rivolta (Hannah Arendt) che emerge dalle rovine dell’armonia prestabilita è il viatico da intraprendere contro i possessori dell’immaginario sociale.
La fotografia mediterranea fuoriesce da un’etica del comportamento, da un’estetica antropologica dei sentimenti selvatici e (fuori da ideologie, dottrine, mercati dei saperi) restituisce dignità e bellezza ai “ritrattati” che rifiutano l’eternità della miseria (della storia) vissuta come destino. Il pensiero meridiano (che è la brace mai spenta della bellezza liberata) è una filosofia dell’esistenza dove l’essere e il pensiero sono identici, esprimono un’identità, producono uno spaesamento e nell’attraversamento misterico, magico, alchemico della vita di fronte alla realtà si tagliano via dalle dottrine della totalità.
Per comprendere il pensiero meridiano e raggiungere un’esistenza autentica occorre sfuggire al fatalismo e alla mondanità della società consumerista, annullare la velocità di spostamento, mettere una decisiva distanza tra gli uomini e le cose che li imprigionano nell’apparenza e nella sottomissione.
Mai come nel mondo attuale la vita umana è stata più offesa e degradata o conformata a un modello, realtà e verità si confondono e riducono gli uomini in schiavitù dei bisogni. Solo un’utopia libertaria può innervarsi nell’intimità della coscienza e vivere l’immaginazione e la bellezza popolare come forma e passione creativa del comune sentire. L’influenza liberatoria del magico contiene l’antica tenerezza per ultimi, gli esclusi, chi non ha voce né volto… il solo dovere che l’uomo ha verso se stesso è il raggiungimento della felicità.
Il pensiero meridiano è confessione o anatema di una cosmogonia dell’umiltà che sopravvive ancora alle mitologie del disastro della società istituita: “Bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro, e invece correre è guardarne solo la copertina.
Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le membra, invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada. Bisogna imparare a star da sé e aspettare in silenzio, ogni tanto essere felici di avere in tasca soltanto le mani” (Franco Cassano) (67), per non morire canzonati della propria bellezza calpestata o incasellata nei prontuari di morali e valori (peraltro falsi) codificati. La “nobiltà” delle istituzioni, dei partiti e delle fedi è una gogna e va abbattuta. È inconcepibile aderire alla vergogna che ti strangola, occorre renderla ancora più vergognosa… là dove ciascuno è signore del proprio pensiero (Hannah Arendt) l’esistenza liberata delle persone diventa storia. L’abbiamo scritto altrove (68). 

(67) Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, 1996 

(68) Pino Bertelli, Volti del Mediterraneo, Arte’m, 2009. Abbiamo approfondito il tema del pensiero meridiano nelle esposizioni: Volti del Mediterraneo, Museo Pan, Napoli, 2010; “Mare Nostrum” – Ritratti dal Mediterraneo, Con-vivere Carrara Festival, 2012; Donne del Mediterraneo, Volterra 2013. Il cantiere è aperto

Maestri del pensiero meridiano come Nietzsche, Camus o Pasolini ci hanno insegnato la cartografia umana della prossimità, il senso di accoglienza, di ospitalità e convivenza dovuto allo straniero che viene in cerca di un’esistenza meno feroce, più giusta, più umana… ci hanno insegnato che lo stupore del diverso da sé che diviene storia comune, è un messaggio di pace e di scambio, aiuta a valicare la soglia, la frontiera, il limite e l’ospitalità si trascolora in casa della meraviglia… ci hanno insegnato che da sempre l’erranza (migranti, profughi, sopravvissuti a guerre e miserie millenarie) culmina nei principi valoriali di fraternità e uguaglianza. L’uomo meridiano è l’uomo che vive per la giustizia, il bene e la verità… le cicogne, come il sorriso dei bambini, non conoscono frontiere, confini, divieti… la sola patria che ha valore universale è quella dell’umanità intera… schierarsi a fianco della civiltà e contro la barbarie vuol dire rompere le catene della soggezione, tagliare i guinzagli della domesticazione sociale, rimandare liberi gli oppressi e spezzare i dettati di ogni giogo politico. Dove c’è ospitalità, c’è amore, e lì c’è anche l’uomo in cammino per conquistare la gioia e la bellezza di una vita autentica. La fotografia mediterranea o magica di Marialba Russo è un rizomario di “dolce anarchia” o una ricerca di antropologia sociale di notevole pregnanza sul reale… noi siamo quello verso cui tendiamo la mano e un uomo ha diritto di guardare un altro uomo dall’alto soltanto per aiutarlo ad alzarsi, mio padre, diceva (con le parole del padre suo e lui del suo ancora)… chi cerca vana gloria (e non il sale della vita) rovista in un letamaio e ha come altare una casellario di schifezze celebrate… in questo senso i fotografi del mercimonio non sono degni nemmeno di una corona di sputi. L’abitudine a mangiare non significa prostituzione dell’arte.

Scrivono di lei: — Marialba Russo (1947), napoletana, vive a Roma dal 1987. Studia pittura all’Accademia di Belle Arti di Napoli, si avvicina alla fotografia alla fine degli anni Sessanta e rivolge la sua attenzione principalmente alle rappresentazioni religiose e alle feste popolari dell’Italia centro-meridionale. Tra il 1972 e il 1976 collabora con il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma. Negli anni 1976 e 1977 pubblica Al ristorante il 29 settembre 1974 e Giornale Spray nella collana “I Quaderni dello sguardo”, da lei ideata.
Accanto alla ricerca personale e all’attività esplorativa collabora con “Vogue Italia” e altre testate italiane e straniere. Con la sequenza fotografica Il parto, rappresenta l’Italia in “Venezia ‘79 la fotografia”, nella sezione “Fotografia Europea Contemporanea” curata da Daniela Palazzoli, Sue Davis e Jean-Claude Lemagny. Prosegue poi le sue sperimentazioni sul linguaggio fotografico con i lavori Della serie delle centotrenta figure di spalle (1981) e 1929 Ritratto di mio padre e mia madre (1982). Nel 1989 la Galleria d’Arte Moderna Giorgio Morandi di Bologna propone una sua retrospettiva e la monografia Marialba Russo – Fotografie 1980-1987, accompagnata da una lettera di Alberto Moravia. Negli anni Novanta muove la sua ricerca in una riflessione più intima e analitica, dove il paesaggio è metafora di un tempo interiore; è del 1993 Roma, Fasti Moderni – il disordine del tempo, del 1997 Epifanie, del 1998 Famosa, del 1999 Ritratto di me. Le due esposizioni “Incantesimo”, proposta dal Museo della Fotografia di Salonicco nel 2001, e “Passi”, al JinTai Art Museum di Pechino nel 2003, sono brevi sequenze date in anteprima e tratte dall’Incanto, lavoro a cui l’autrice si è dedicata per dieci anni, dal 1990 al 2000 —. Le sue esposizioni continuano, intessute di interviste e scritti non sempre appropriati. A noi tuttavia interessa entrare nelle pieghe del suo discorso fotografico che più riguarda le immagini del Sud napoletano. Il fare-fotografia della Russo ci sembra restituisca al Sud l’antica dignità di un popolo mai visto, fotografato, filmato, descritto all’altezza della sua grandezza storica. Il Sud è sempre, o quasi, stato raccontato come periferia marcia del potere dominante e non come coacervo di identità ricche e molteplici, culla dell’autenticità mediterranea. Specchio e riflesso di politiche della demenza (compreso quelle criminali) che hanno agito e prosperato sulle schiene piegate degli esclusi, ma quando questi si sono liberati dalle predazioni secolari e hanno chiuso i pugni contro i loro affamatori, il disprezzo della ragione è stato forte. La verità, come la bellezza, si nutrono di esagerazioni e quando i popoli si alzano in piedi e — con tutti i mezzi necessari — si contrappongono ai loro disprezzatori, c’è meno dolore nel mondo.

 

Sulla fotografia mediterranea

La vera fotografia è fuori dalla realtà imposta che obnubila e domina l’immaginario collettivo. La scrittura fotografica della Russo, specie quando tratta dei riti religiosi e feste popolari dell’Italia meridionale, elabora una visione intima, profonda, metaforica dei soggetti ai quali si accosta con pudore e disincanto… la figurazione è austera, per nulla sacrale, entra invece in contatto con l’evento, lo raccoglie e lo incornicia in momenti emozionali lasciati alla deriva del loro accadere… non c’è idolatria nelle sue immagini, semmai c’è stupore, meraviglia, condivisione… né sonni di morte, né destini traditi… quello che si coglie al fondo delle fotografie della Russo è la limpidezza dei rituali popolari che si trascolora in pezzi di vita cruda, violata, riscattata… non importa essere o non essere in accordo con la situazione mistica che racconta, ciò che vale è il modo in cui la ferma nella fotocamera. Qui nessuno rilascia certificati di appartenenza, ciascuno percorre la gamma degli atti che interpreta soltanto perché ne percepisce il mistero, la tradizione, la cultura millenaria come creazione e distruzione del mondo. Il coraggio e la paura s’intrecciano. La “perduta gente” diventa protagonista di un passato che mantiene l’effigie del delitto, della resurrezione e dell’iniziazione… l’amore assopisce la soggettività e la conoscenza ridestata uccide tutte le incredulità.
Va detto. L’iconografia del dolore o della festa lascia spazi ad imposture o millanterie religiose (anche camorriste), sempre addossate alla credulità popolare e usate dalle gerarchie del potere come acquasantiere della costrizione, tuttavia al fondo di queste feste-comunità sopravvivono coaguli di istanze e bisogni pagani mai sopiti… non s’invoca l’aiuto divino né la purificazione delle vergini soltanto… anche la pietà o la compassione non sono rievocati secondo le funzioni istituite dalla Chiesa contro superstizioni ancestrali… le processioni, i rituali, le epifanie meridionali sono vere e proprie rappresentazioni pagane dove i corpi si mescolano ai simulacri e rimandano a leggende greche, latine che fissano le radici storiche di un popolo tra i più belli e colti della terra. Per non dimenticare: La storia delle religioni somma più delitti di quanti ne abbiano commessi le tirannie più sanguinarie e coloro che l’umanità ha divinizzato è responsabile di tutti gli assassini più efferati mai commessi in nome di un Dio o di uno Stato.
La fotografia epifanica della Russo si staglia in un bianco e nero intenso, profondo, a/spettacolare… i volti poveri delle donne in nero (una sorta di madonne della miseria che fuoriescono nello splendore della loro autenticità) sono severe icone della speranza, si portano addosso la bellezza antica di madri dolenti e mai arrese, forse, al mutamento dei tempi. I corpi degli uomini “ignudi” o da Pulcinella vestiti, danzano discinti tra il canto e la gioia, quasi a figurare lontani accoppiamenti carnali. Le morti, le attese, i bambini scalzi nel sole, le speranze dei poveri, i riti d’iniziazione sessuale… sono presi in una fertilità figurativa dove le convinzioni avvizziscono precetti, allentano regole, ammorbidiscono ingenuità… tutto è fotografato fuori dalla fatalità e dall’arroganza della preghiera… è un fare-fotografia che porta allo sconosciuto e permette qualsiasi cosa. Una vera credenza si distingue a malapena dalla follia, scevra da ogni fede, non conduce alla disperazione ma alla vittoria sulla paura.
C’è più dolcezza in ogni vizio pagano che nella depravazione di ogni virtù istituzionalizzata.
La visione antropologica della fotografa napoletana emerge nell’atemporalità dei volti, corpi, gesti, segni di qualcosa che è stato e del misterico che lo continua… la complessità dell’immaginario meridionale che riporta a margine dell’esistente è una messa a nudo di rabbie, rassegnazioni, favole… che si scagliano contro gli assoluti della storia e ogni immagine sembra scaturire dalla commedia dell’arte. Qui la fotografia diserta la speculazione e alle verità che sconcertano non oppone quelle che consolano, ma quelle di una religiosità senza interrogativi, solo interpretazioni… una civiltà che si perde nelle tracce dell’uomo non viene a patti col suo pianto, né si dichiara sconfitta in eterno… non c’è rimpianto né gioia nei protagonisti di tanta significativa bellezza, solo impudenza, volubilità, voluttà… e i giusti, gli ingiusti, gli ingenui sono depositati nelle maschere che riflettono le persone… per credere nella realtà della salvezza eterna o della sua espiazione, bisogna innanzitutto credere o sognare i vezzi panici della sua caduta.
I tagli fotografici, le inquadrature, le improvvisazioni estetiche/etiche della Russo esprimono una poetica sapienziale di notevole rilievo… decodificano simboli, simulacri, fenomeni dell’eterno e li riportano all’uguale… i significati delle immagini sono magici, mediazioni fra l’uomo e il mondo. Anche le allucinazioni o l’immaginazione dell’impalpabile diventano vere e decifrano la storia che esse significano. Le fotografie così fatte tracciano un percorso, riesumano un’impronta e alla maniera delle immagini delle caverne o dei graffiti paleolitici (incisioni rupestri) riportano alla coscienza rituale preistorica.
Reintroducono il magico nella tradizione e ne prendono il posto.
La fotografia mediterranea o magica della Russo è al tempo stesso il risultato culturale di un evento “miracoloso” e la lotta ancestrale che lo sottende… ogni passaggio fotografico rovescia le forme/significati dalle quali parte e la simbiosi tra fotografa e ritrattati si specchia nella potenza visionaria, mistica, passionale che si rovescia in vita quotidiana. Poiché le immagini ci legano alle tracce della nostra esistenza, non ci si può staccare dalle immagini senza aver in precedenza disvelato ignoranze, servitù o indecenze dei potenti che ne impediscono la liberazione. Si avvicina alla liberazione chiunque si levi contro le stigmate del dolore e aderisce o attenta alla fine di ogni crudeltà… il magico è imprendibile e fa tremare chi non lo conosce o né fa un atto di coraggio e mette fine allo spavento che lo attanaglia alla genuflessione sul filo dei secoli.
A un certo grado di qualità, la “dolce anarchia” della fotografia è una poetica eversiva in grado di scardinare e di riscattare tutte le altre. I soli a sedurci sono i fotografi che si sono chiamati fuori da ogni perdizione mercantile e hanno dato un senso alla storia della fotografia e a loro stessi. La fotografia che vale si afferma soltanto grazie ad atti di provocazione, a sconsacrazioni del ridicolo, a fioriture dell’incurabile… quando partecipa alla distruzione degli idoli, porta con sé anche quella dei pregiudizi… fotografare è una cosa, sapere come (e cosa fotografare), un’altra. Nella raffinatezza plebea della fotografia di strada c’è la ruggine di tutti i passati e il sangue innocente versato dall’infamia di ogni tirannia… l’avvenire appartiene alle periferie della terra e là dove tutto è perduto restano i canti dei “barbari”, le piste dei sogni o i popoli in rivolta incapaci di accordarsi alla ferocia della civiltà dello spettacolo. La libertà (non solo) in fotografia non ci concede, ci si prende.

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