a Sergio Manes,
amico e compagno di strada, che ha combattuto il dispregio del potere
e si è fatto maestro in percorsi politici, radicali, utopistici,
che — a viso scoperto — e con la bellezza nel cuore dei giusti,
portavano alla conquista di una società più giusta e più umana
A mio padre,
che tirava le bombe ai pesci per sfamare la famiglia (era il 1945), ha lasciato al mare le mani e un occhio… prima di morire si è fumato un sigaro toscano, ha bevuto un bicchiere di vino rosso che ungeva la bottiglia e senza parole mi guardava piangere sul suo basco nero… ma lui rideva e mordeva un pezzo di tovagliolo di lino bianco, e se ne fregava della pioggia e del vento che sciupavano le rose di mia madre… poi, ridendo con la dolcezza innocente degli esseri di un’altra terra, se n’è andato a giocare nel cielo bambino di Alzheimer insieme agli angeli con le ali di carta velina blu… mi ha lasciato in sorte queste parole: «Un uomo ha diritto di guardare un altro uomo dall’alto, soltanto per aiutarlo ad alzarsi!».
Ai ragazzi di strada con i piedi scalzi nel sole e la pioggia sulla faccia che ho ben conosciuto… ai ragazzi di ogni credo, razza e colore della pelle che come me sono stati allevati nella pubblica via e hanno frequentato i riformatori, le galere, i manicomi o sono stati ammazzati dalla stupi- dità della guerra… ai ragazzi che nel Maggio 1968 fecero tremare il potere e decretarono la fine della ricreazione… molti di questi ragazzi hanno soggiornato nei luoghi di detenzione di diversi Paesi… certi per ragioni politiche, altri per reati e crimini di diritto comune… ho quindi conosciuto soprattutto ribelli, poveri e poeti… un certo numero di loro sono stati ammazzati sui marciapiedi della storia, un’intera generazione è sfiorita nelle carceri speciali… tuttavia proprio in loro compagnia e con quelle utopie in amore tra liberi e uguali che incendiavano la notte dei desideri, abbiamo passato i migliori anni della nostra vita.
Sulla fotografia dell’indignazione.
I volti dell’indignazione che emergono dalle rivolte popolari nelle attuali insurrezioni del mondo arabo e ovunque le discrepanze generazionali sono affogate nella miseria e nella fame… hanno già attraversato la storiografia muta della fotografia dominante e basta “leggere” le immagini impietose degli scugnizzi / caracciolini napoletani riprese da anonimi autori a Napoli, tra la fine dell‘800 e il primo conflitto mondiale, per comprendere la bellezza violata di centinaia di ragazzi orfani o abbandonati per le strade della città campana e fatti oggetto di ogni sorta di sopraffazione, mai entrati nel giusto modo all’interno della cultura (non solo fotografica) del proprio tempo (e nemmeno del nostro).
La fotografia randagia degli scugnizzi / caracciolini esprime una psicologia del valore che rimanda non tanto a qualcosa che è, quanto a un gesto che si compie… fare la fotografia prima di avere imparato qualcosa da dire, significa mani- polare il reale e trascurare la dignità e il rispetto dell’altro… fuggire dall’abbraccio delle istituzioni e dal linguaggio con il quale il potere nutre i propri servi, vuol dire conoscere l’innocenza eversiva dell’infanzia (alla maniera di Bachelard, Leopardi, Jung, Blake, Twain, Collodi, Carroll…) e capire, denudandola, la stupidità dell’educazione imposta là dove si trova. Educare alla libertà è un’interruzione del sopruso e per definizione conduce sempre contro ciò che castra la fantasia nell’immaginazione… riappropriarsi dell’infanzia consiste riuscire a esprimere la propria “ciascunità” e realizzare i propri desideri… non esistono bambini difficili, ma solo educazioni imbecilli.
Le storie della fotografia vedono nella profonda miseria napoletana di fine ‘800 e negli anni a seguire… solo la cartolina illustrata, la sceneggiata, il folclore della povertà svenduta nella carta stampata, nel teatro o al cinematografo… si parla della profonda cultura napoletana, della forza eversiva di un popolo saccheggiato per secoli, della convivenza con la camorra… ma si evita di mostrare veramente come stanno le cose… così Napoli viene raccontata (sovente anche con forza e amore) nelle canzoni, nei libri, nei film o in modo diretto e coraggioso anche con la fotografia. Certo è che la storiografia fotografica napoletana spesso è accomunata al cartolinesco turistico, alla forzatura del miserabilismo o l’incastonatura della sozzura camorrista… l’immaginale iconografico di Napoli è anche altro… e quando la fotografia autentica scende in strada declina ogni sorta di complicità con l’origine del dolore… l’educazione alla sensibilità fotografica (a Napoli e in ogni luogo della terra) comincia là dove l’arte dell’ostaggio o del- la firma sugli assegni muore.
La fotografia dell’indignazione non è solo i cumuli di spazzatura, le connivenze della politica con il crimine organizzato o il popolo napoletano che insorge contro la banalità del male… la fotografia dell’indignazione emerge sui volti, sui corpi, i gesti degli scugnizzi di ogni epoca che hanno infranto l’oleografia del buonismo interessato, riservato loro dalla cultura, dalla politica, dalla religione… gli uomini di potere dimenticano facilmente di essere maledetti, forse perché lo sono da sempre… ma ogni volta che uno scugnizzo è fotografato nella sua bellezza e dignità, abbiamo l’impressione di essere visitati dalla grazia.
A memoria di ubriaco… non ricordo nella storia della fotografia italiana tanto dolore e, al contempo, tanta gioia di vivere come vediamo nelle fotografie degli scugnizzi napoletani lasciate nei magazzini della sociologia o nei retrobottega della politica… l’indignazione che scorre negli occhi di questi ragazzini di strada ci porta sull’orlo di destini spezzati e quegli sguardi fieri o impauriti dicono che chi non muore giovane presto o tardi se ne pentirà… la discriminazione distrugge o fortifica la persona… il diritto alla felicità rende la sofferenza intollerabile e i mezzi per sconfiggere ogni forma di oppressione e uscire da uno stato di intolleranza impunita, sono tutti buoni.
Un’annotazione a margine.
Il cinema neorealista nasce a Napoli. Una ragazza salernitana, Elvira Giuseppa Coda Notari, a poco meno di trent’anni produce insieme al marito, il fotografo Nicola Notari, una serie di film popolari, “documentari” o “canzoni filmate” (mai comunque citata con benevolenza dagli storici)… che sono alla base del cinema neorealista italiano. La sua opera si compone di una sessantina (altre fonti dicono 160) di pellicole realizzate tra 1906-1908 (Gli arrivederci e Grazie) e il 1929 (Napoli, sirena delle canzoni), che accompagnano la malinconia degli emigranti o la nostalgia per una Napoli la- sciata in povertà e alla quale ritornare un giorno… i suoi film ebbero un certo successo tra gli italiani emigrati in Sudamerica (Argentina, Brasile, Uruguay, Patagonia)… il fascismo le impose il silenzio, tuttavia pezzi del suo cinema continuano a esercitare nel cuore dei poeti, la bellezza di un’epoca certamente più povera ma forse più umana del nostro tempo.
La casa di produzione della Notari (Film Dora, poi Dora Films, e nel 1924 verrà fondata la Gennariello Film) non si occupò solo di documentari e cortometraggi, ma anche lungometraggi, sovente tratti da romanzi d’appendice (o Feuil- leton) della realtà napoletana o da canzoni di successo (sceneggiati e diretti dal- la Notari). I film erano costruiti con una tecnica pionieristica: “Spesso i foto- grammi venivano colorati a mano, singolarmente, altre volte a macchina, con tinte uniformi, variabili da scena a scena in funzione dei sentimenti espressi, blu per la melanconia, rosso per la rabbia, ecc.; le immagini erano sincronizzate con musica e canto, interpretati dal vivo (dai cantanti appresso), e in qualche modo si può parlare di una forma di spettacolo multimediale”. A differenza delle produzioni cinematografiche torinesi, il figlio della Notari, Edoardo, osserva:
«Un’altra caratteristica era la musica che accompagnava il film. Noi fummo i primi a mettere un cantante sotto lo schermo, che si sincronizzava con le immagini. Nei primi tempi il proiettore, ancora a manovella, facilitava il compito del cantante, poiché era possibile rallentare o accelerare leggermente la proiezione. L’operatore di cabina, in pratica, era come se suonasse insieme all’orchestra. Non abbiamo mai fatto ricorso all’espediente di sovrapporre i versi della canzone alle scene, come altri facevano, per dare l’attacco al cantante. I nostri film erano letteralmente misurati sul tempo della canzone». L’energia della Napoli povera e stracciona, è qui una profanazione delle ipotesi divine o statuali che la negano.
Ricordiamolo. La Dora Film ebbe anche una sede a New York (Manhattan), diretta da Gennaro Capuano, e i film della Notari contribuirono non poco a nutrire l’immaginario collettivo degli emigranti d’oltre oceano. Le opere della Notari afferrarono l’attenzione delle comunità italiane emigrate in America più dei “grandi” rifacimenti storici come Quo vadis? (1913) di Enrico Guazzoni o Gli ultimi giorni di Pompei (1913) di Eleuterio Rodolfi… la ritrattistica napoletana, nei più di sessanta film da lei diretti, era quella dei bassi della città partenopea, dei pescatori, dei guappi, degli scugnizzi… il figlio Edoardo, infatti, che interpretava lo scugnizzo Gennariello (che appare in quasi tutti i film della madre), è stato uno dei primi attori-bambini del cinema italiano.
“Il successo commerciale dei suoi film fu enorme, anche oltreoceano. Ad esempio, il film ‘Nfama, proiettato al cinema Vittoria di Napoli, in via Toledo, ebbe una tenitura di ben 32 giorni con circa 6.000 presenze. Il film ‘A legge, del 1921, tratto da A San Francisco, atto teatrale unico di Salvatore di Giacomo, rimase in programmazione per 36 giorni: la folla di gente che si accalcò al cinema Vittoria costrinse gli organizzatori ad anticipare le proiezioni alle 10 del mattino. I film della Notari erano costruito intorno a sentimenti forti, passioni esplosive, emozioni improvvise in maniera tanto convincente che è divenuto “proverbiale l’episodio di uno spettatore che in un cinema napoletano sparò alcuni colpi di pistola sullo schermo, per uccidere il cattivo di turno” (Giuliana Bruno). Il regime fascista non poteva certo accettare le figure femminili (forti, violente, insofferenti alle regole sociali) della Notari… nemmeno le ambientazioni nei bassifondi di Napoli… la povera gente di una città che emigrava in gran numero verso un’altra terra, un’altra vita… la narrazione della realtà della Notari era così disturbante che incappò nelle maglie della censura fascista e ad alcuni suoi film furono negati i visti per l’esportazione negli Stati Uniti in quanto ritenuti (giustamente!) antinazionalisti… tuttavia sembra che alcuni film riuscirono ad circolare clandestinamente nella comunità degli immigrati di Little Italy.
Nonostante che le sale cinematografiche partenopee registrano il pieno ogni volta che viene proiettato un film della Notari, nel 1928 la Commissione Censura invia ai Notari una circolare che impone di fatto la chiusura dell’attività: «Considerato che siffatti film a base di posteggiatori, pezzenti, scugnizzi, di vicoli sporchi, di stracci e di gente dedita al dolce far niente, sono una calunnia per una popolazione che pur lavora e cerca di elevarsi nel tono di vita sociale e materiale che il regime imprime al paese; considerato per altro che siffatti film sono eseguiti con criteri privi di qualsivoglia senso artistico, indegni della bellezza che la natura ha prodigato alla terra di Napoli, è stato deciso di negarle in via di massima, l’approvazione dei film che persistono su circostanze che offendono la dignità di Napoli e l’intera regione». Gli ultimi film della Notari sono Napoli terra d’amore (1928 ) e Napoli, sirena delle canzoni (1929)… nell’impossibilità di sostenere i costi finanziari con l’avvento del cinema sonoro, la Dora Films chiuse tutte le sue attività nel 1930. Elvira Notari era nata a Napoli il 10 febbraio 1875, muore a Cava de’ Tirreni il 17 dicembre 1946.
Il cinema della Notari comunque registra una cultura d’abbordaggio dove ciò che si trasporta sullo schermo è sempre contenuto in situazioni che finiscono per essere rassicuranti e consolatorie, qualche volta le trame sono a tinte fosche: “Soltanto tre degli oltre 160 titoli firmati dalla regista sono arrivati a noi: ’A Santanotte (1922), ‘E piccerella (1922), Fantasia ’e surdate (1927), esempi eccellenti del film-sceneggiata. La trama di ‘A Santanotte ha al centro Nanninella, ostinata nel frequentare l’amante Tore, contro il parere e le minacce del padre; in ‘E piccerella, un omonimo Tore ruba alla madre malata i gioielli, e con il denaro ricavato compra regali di lusso per l’avida amante Maragretella; denaro al posto dei gioielli è il bottino del furto di Gennariello, sempre ai danni della madre, sana ma anziana assai. The end comune la vendetta finale. Tremenda, ovviamente”. Tuttavia ogni chiusa è l’apoteosi del “miracolo napoletano”. Le Madonne dei marinai conservano la propria illibatezza per i giovani pescatori, le mamme piangono austere il figlio che torna dalla guerra, l’amore trionfa sulla fame quotidiana. Guappi e scugnizzi sono sovente una nota di colore. Sotto il sole di Napoli (ieri e sempre), l’ingiustizia sociale viene sapientemente celata nell’omertà o/e nelle pieghe dell’insignificanza mercantile. Il “lieto fine” non è stato inventato a Hollywood, ma a Napoli.
Continua….
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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