Critica radicale della fotografia e sovversione non sospetta dell’immaginario
(IV° PARTE)

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Motto di spirito. Nella storia della fotografia dispensata o solo esposta in gallerie specializzate in forniture d’armi o altre merci per alzare gli indici dei profitti… la fotografia di frontiera ha avuto i suoi lustri, e ancora a qualche arredatore (o palafreniere di qualche fazione politica) interessa esporre le sue gesta (in dimensioni ciclopiche) nel corso di fiere elettorali, fondazioni bancarie, primarie politiche (con un notevole ritorno economico rubato alle casse dei partiti)… tutta gente che andrebbe processata all’istante per complicità con rapine e crimini commessi contro l’umanità. Invece sono ancora lì, sul ballatoio della connivenza mafiosa e del tradimento popolare… in attesa che venga data loro la sorte che meritano. La luce degli dèi si spegne sotto i cadaveri dei loro miti.
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La fotografia della sovversione non sospetta è qualcosa di più che una copia, è lo specchio di un accadere. I randagi della fotografia di strada sono architetti senza regole, poeti senza metrica o tiratori scelti della bellezza formale. La fotocamera è il prolungamento dello sguardo. La sola fotografia conta è quella che possiede ricchezza di forme e contenuto rilucenti. Il reportage (o una catenaria di immagini intrecciate fra loro su tematiche differenti ma tenute insieme da un’etica affabulativa di fondo…) è “un’operazione progressiva della testa, dell’occhio e del cuore per esprimere un problema, fissare un avvenimento o delle impressioni” (Henri Cartier-Bresson). La grande fotografia ha una qualche affinità con la spada dei giusti… mira al centro del cuore dei persecutori della libertà.
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Per arrivare alla coscienza di quello che si fa, occorre sapere la parte contro la quale stare. Situarsi in rapporto con l’oggetto della nostra attenzione. Per andare oltre il “raccoglitore” di immagini o il “fabbricatore” di sensi… occorre lavorare non solo a passi di lupo ma danzare alla maniera dei gatti in amore, farsi candidi come colombe e astuti come serpenti, e quando occorre, avvelenare i pozzi dell’ordine (non solo fotografico) costituito. Il fotografo che non danza o non si fa sciamano dell’immaginario strappato al vero, non sarà mai colpire al fondo l’origine del male né mai conoscerà l’epifania amorosa della fotografia della deriva o della temerarietà libertaria che dissemina ai quattro venti della Terra.
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Storia della fotografia significa storia (non solo della raffigurazione) dell’umanità ma anche della disobbedienza civile e della rivolta dei bracconieri di sogni (anche della fotografia). Malfattori libertari che non si lasciano afferrare su tappeti di ceneri né ragioni imposte. Niente
seduce tanto della società dello spettacolo, come la meravigliosa insolenza delle sue dottrine. Per gli stupidi non ci sono catene, basta un una merce o un oracolo per possedere la loro affiliazione.
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Il divenire della fotografia è studiato con cura, tuttavia non sono molti che colgono la caduta della soggettività in rapporto alla riproduttività della tecnologia. La folla è sempre più solitaria, sempre più si autofotografa ed è sempre più fotografata. Al posto dell’esistenza reale c’è la cronaca, in sostituzione del vissuto quotidiano c’è il documento d’archivio o privato. Sono molti i manuali, volumi o saggi che “parlano” di fotografia, pochi vanno a fondo del “sistema fotografia”, della dittatura dell’immagine (non solo fotografica) che sta alla base di ogni “sistema di potere” e fa del diritto di avere diritti di ogni uomo della terra, non solo carta straccia, ma violenta, affama, stermina una grande parte di umanità con le armi dalle politiche economiche delle democrazie dello spettacolo.

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Il divenire della fotografia è nelle mani dell’industria da sempre e non ci sono lacrime né santi che possono mostrare i padroni dal volto buono (i commedianti della fotografia insegnata), come novelli levatori di “democrazia dell’immagine”. La fotografia è una baldracca che non sorride. I possessori dell’immaginario fotografico lo sanno bene ed è per questo che lavorano sull’entusiasmo degli imbecilli. Folle prive di talento si limitano a tradurre l’anomia metropolitana o la povertà più povera nei premi internazionali… sono i maggiori depositari della società del futuro e coloro che delegano la loro esistenza all’ultimo boia santificato in terra vaticana o agli untori con le mani sporche di sangue di guerre ingiuste che siedono in Parlamento. La violenza non è sufficiente a distruggere una civiltà, occorre la fotografia (la carta stampata, la televisione, il cinema, la telefonia, i giocattoli, i supermercati…) a sacralizzare il saccheggio e la rapina nei Sud della terra per opera dell’ordine istituito.
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La distruzione situazionista dell’iconologia imperante, deborda nella costruzione delle situazioni di confine e fa della struccatura della menzogna, la discarica di tutte le colonizzazioni del sapere. La fotografia è un mezzo efficace e importante per la manipolazione delle idee e dei comportamenti, in questo senso la manualistica d’occasione, le teorie e le tecniche dei nuovi media, l’informazione giornalistica, l’apologia del corpo e figura umana nella fotografia o la fotografia digitale alla portata di tutti i cretini che si autoincensano “artisti”, confermano il linguaggio dell’adulazione e contribuiscono all’elogio del potere e dei suoi prodotti. “Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere altri modelli culturali” (Pier Paolo Pasolini). Occorre minacciare quel che ci minaccia, annotava, poiché il servo di corte e il cliente delle banche hanno il medesimo statuto di schiavi.
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La sacralità della fotografia mercatale si situa prima e dopo la genuflessione… inchioda l’istante che abolisce l’interrogazione ma solo il disvelamento della bellezza, della verità, della giustizia risplende e fiammeggia sul cammino del viandante che ha reciso le proprie catene… ogni arte abbassata a spettacolo può che saziarsi da tutto ciò che inghiotte. La macchina fotografica non solo vede più dell’occhio ma può sovvertire le finalità tradizionali dell’arte fotografica fine a se stessa. La fotografia non addomesticata segna l’insubordinazione degli sguardi e mostra che la critica del mondo del dominio è inseparabile da una pratica farisea che lo distrugge. Ciò che non uccide la fotografia della bellezza, la fotografia mercantile lo uccide. Non c’è superamento di nessuna impostura se non c’è verità… nella Genesi c’è già tutto il maleficio dell’uomo e anche gli scemi del villaggio hanno compreso che la devastazione di una terra promessa su cumuli di cadaveri è una catastrofe esemplare.

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La pazzia per la “bella fotografia” nasce da una cattiva educazione all’immagine che il cinema, la televisione e l’insieme dell’industria culturale (deificata dai “cani da guardia” dei massmedia) hanno disperso nell’immaginario collettivo. L’ignoranza dei fotografi (specie i più foraggiati dalle marche di fotocamere) è abissale. Credono di sapere tutto sul valore degli attrezzi di lavoro, sulle sensibilità delle pellicole, sull’avanzare del digitale nella presa del potere della fotografia da parte del popolo… e insieme a una marea montante di squinternati che si attaccano al collo, come un giogo, la macchina fotografica e imperversano a ogni angolo delle metropoli, delle campagne (o viaggi specializzati nel turismo sessuale sui bambini…), non si accorgono che la loro cecità creativa è una sorta di schiavitù e di genuflessione ai riti e ai dogmi della società dell’apparenza. La storia della fotografia non mostra l’inefficacia delle fotografie per la conquista di un’umanità migliore, ma è soltanto la somma delle vanità mercantili smerciate come “avvenimento” artistico. La fotografia è una confessione senza segreti o la sua demenza senile.
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La caccia alla fotografia d’arte o d’impegno civile (fa lo stesso) è aperta. Quelli che fanno le fotografie d’arte per l’arte sono mezzi fotografi, quelli che fanno fotografie come dice l’industria culturale, sono degli stupidi che credono davvero che la fotografia possa essere il mezzo con il quale raggiungere la celebrità (visibilità) televisiva, che è il massimo dello squallore. Fino a venti anni tutti scrivono poesie o fanno fotografie, poi restano i cretini e i poeti. Credo che una fotografia che lascia il lettore uguale a com’era prima d’averla sviscerata è una fotografia sbagliata… poiché il sacro violato che contiene apre una ferita e ci salva dal suicidio… ecco perché stiamo bene solo in compagnia di illetterati, analfabeti, folli e poeti… loro sanno che c’è qualcosa di marcio nel destino dell’umanità e si chiamano fuori dalla creazione e dal peccato del progresso ghigliottinato sul sagrato della ragione unica.
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La fotografia predominante è una puttana in cerca di clienti… qualsiasi fotografo ha a che fare col marciapiede e sovente l’immagine che cerca contiene qualcosa di indecente da esibire… ogni immagine è una confessione… una lavandaia africana conosce più cose di qualsiasi fotografo… tutto ciò che è spettacolarizzato è insignificante… l’isteria della fotografia è la fine dell’immaginale fotografico… i fotografi si avvoltolano, si crogiolano nella tecnologia perché non hanno il coraggio di spararsi un colpo in bocca… si tratta di non fotografare né per la rispettabilità né per il successo… di non insegnare nulla… di fotografare ciò che vogliamo… di contraddirsi e respingere la coerenza col sorriso della contraddizione… si tira una fotografia come si tira un pugno o si fa una carezza o la voglia di sgozzare i protettori di felicità solo il giorno delle elezioni… avevo un amico straccivendolo che voleva fare il fotografo… non era un filosofo ma aveva letto tutto… in perenne stato di ubriachezza diceva cose solenni… come quando mi disse: “Non ho mai voluto fare una sola fotografia perché è priva di un autentico senso della morte! E pone limiti alla coscienza! Quelli che non hanno capito, sono il maggior numero, quelli che hanno capito, sono solo una manciata di disillusi che ridono sulle sorti dell’umanità”. La fotografia è l’infinito messo alla portata di una pulce. Gli entusiasti sono pericolosi, poiché la troppa lucidità rende la fotografia insopportabile. Mi è capitato di essere profondamente colpito da fotografia che non hanno mai letto un libro né visto un film… illetterati della bellezza. (continua…)

Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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