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Tommaso Le Pera Della fotografia immaginista scritta sull’acqua del teatro e sulla filosofia gnostica degli occhi chiusi (parte IV))

di Pino Bertelli

Se andiamo a ripercorre l’immaginario fotografato (bianco e nero/colore) di Le Pera (preso agatto selvaggio) in: — Le miserie ’d monsù Travet (1987/88), Re Ubù (1988/89), Gli ultimi giorni dell’umanità (1990/91), La Pazza di Chaillot (1990/91), Il giardino dei ciliegi (1995/96) , Un anno nella vita di Giovanni Pascoli (1995/96), Riccardo II (1995/96), Morte di Galeazzo Ciano (1997/98), Giovanna D’Arco. Donna armata, passione e morte in nove stazioni (1997/98), Scene da un matrimonio (1997/98), Il misantropo (1999/00), Edipo re (1999/00) , Woyzeck (2004/05), Marat-Sade (2004/05, Antigone (2006/07), Macbeth (2006/07), The Changeling (Gli incostanti) (2007/08), La scuola delle mogli (2009/10) , Signorina Giulia (2011/12), Edipo re (2011/12), I pilastri della società (2013/14), Vita di Galileo (2015/16) , Se questo è un uomo (2018/19), I giganti della montagna (2019/20) —… s’avverte la medesima autorialità lirica sparsa nell’intero viatico del fotografo…

Le Pera si evolve insieme al suo fare-fotografia e dentro una intersoggettività della delicatezza, del rispetto, della cortesia, distese nella raffinatezza, anche gioiosa, della costruzione estetica… designa eventi, movimenti e azioni in un abbecedario iconografico che non ha bisogno tanto di un’individuazione storica, quanto di comprensione filosofica… Le Pera esprime modi diversi di fotografare la scena teatrale e altre maniere d’intendere e di vedere. Ogni immagine è un anello o frammento o sintagma di una struttura più ampia, non spettacolare, ma inseparabile dall’accadimento che racconta se stesso e anche la verità della propria carne.

La filosofia della fotografia di teatro di Le Pera fiorisce su foglie-corpi d’infinito amore dove il legame immagine-evento diventa magia di un divenire mondo vero attraverso la raffigurazione, la dissimulazione, l’incisione verbale-gestuale… e “i divenire — ci ricorda Gilles Deleuze — sono la cosa più impercettibile, sono degli atti che possono essere contenuti soltanto in una vita ed espressi in uno stile”. Nella costruzione fotografica di Le Pera, tutto ciò che viene fotografato è pura immagine e rappresenta tutto e alcunché, poiché l’immaginale che ruba alla cosa fotografata si crea uno spazio-tempo proprio e si sviluppa in intensità espressive che avverano un altro reale, un altro linguaggio, un’altra vita.

Sul filo di una certa pregevolezza ben riconoscibile e personificata, la scrittura fotografica di Le Pera affina qualcosa che appartiene al reale nascosto sotto il testo teatrale ed è anche un invito a tessere, sognare, attraversare i confini dell’oggettività artistica… la fotografia non manca di nulla quando il desiderio scaccia, supera e annulla tutte le macchine desideranti o produttrici di congiunzioni, suddivisioni e soglie che lo imprigionano nel sensazionalismo o nell’emozione precostruita… i corpi, i volti, i comportamenti sono prodotti della comunità che — in ogni ambito della vita sociale, culturale, politica — riflettono le sue linee di condotta e solo quando la soggettività ignudata di tutti i significanti estetizzanti e desecretata di tutti i contenuti obbligatori, la fotografia cessa di essere merce e si trasforma in segno che valica, anche in clandestinità, la notte dell’immagine e della parola.

Fotografare è portare alla luce il concatenamento dell’inconscio, i sussurri e le grida che non si richiamano a una parola d’ordine ma alle passioni smisurate che s’avvolgono al discorso indiretto che trasforma il fotografato in altri componimenti di veridicità… come nel film di Ingmar Bergman, Sussurri e grida (Viskningar och rop, 1972)… il linguaggio fotografico di Le Pera non è la realtà, la ricompone alla vita, poiché sul palcoscenico la vita parla, ascolta e attende il debordare dalla macchina teatrale e profanare i tormenti della subordinazione, anche…i personaggi fotografati da Le Pera designano altre possibilità, sbalordimenti, altre soffiature culturali che raggiungono l’intensità costruttiva di una linea-immagine stregata, un cominciamento cospirativo che evidenzia l’impossibilità di sottostare ad altre versioni dell’accadere… il compito, forse il solo, della fotografia è la necessità di sostenere una filosofia della dignità, che è piena di forza critica, politica e di libertà.

Meno si prende sul serio la filosofia dell’immagine come storia del mondo, più si pensa in conformità a quello che vuole l’industria culturale e lo Stato… si tratta di fotografare o scrivere o pensare come un flusso emozionale, non come un codice postale… il rizoma della fotografia sociale non prevede congetture, diagrammi, astrazioni concettuali… nella fotografia, come nel cinema, pittura, musica, scrittura… si danza sulle barricate del presagio o nei salotti dell’apparenza… ogni segno-immagine si spiega, si dispiega, si piega, diceva Deleuze… nell’unità concreta del concetto, una costruzione che rimanda a piani di agitazione o di sonno…così ogni inquadratura, composizione o simultaneità empatica, contiene il centro dell’attenzione del fotografo che dice o tradisce tutto ciò che l’immagine non di-mostra. Il libro-immagine di Pasolini, Petrolio (1992), infatti… è uno scartafaccio di appunti, annotazioni, invettive che “fotografano” le convulsioni e le preghiere volte alla demonizzazione del vero. Non importa essere fotografi o possedere un apparecchio fotografico per fare la fotografia… occorre avere l’immaginazione della fotografia come utensile che incide sul culto delle immagini e degli dèi che la promuovono a merce, un’altra storia, un’altra verità. Il vero compito della fotografia, forse, consiste nel negare o cogliere ciò che non è dato o sottratto alla verità delle rovine.

La filosofia della fotografia scritta sull’acqua del teatro di Le Pera è un atto fondativo che mostra un’altra ragione dello spazio-tempo dal quale parte… il punctum dell’immagine non c’entra, nemmeno l’aura, e neppure lo sguardo che avvisa l’eccentricità del momento… nell’iconologia di Le Pera c’è anche uno stravolgimento dell’indicalità vista come ripetizione scenica…la fotograficità di qualsiasi cosa si traduce in osservazione o filosofia della materia che raccorda il fotografo con ciò che lo circonda… poiché la fotografia è un’affabulazione otticacompositiva che si sostituisce alla realtà che vede e sente al di là del vero o del falso. La fotografia è una provocazione del caso o il caso di una provocazione… la fotografia, come l’amore, non è mai innocente. Sappi che nel bagliore di uno sparo, c’è già il suo pallore, diceva…ecco perché la fotografia si dischiude sulla soglia di uno sguardo impertinente o muore nell’annerimento delle idee. Quando la fotografia trapassa il vero, non appartiene a nessuno, torna al grado zero dell’immagine autentica o insorta.

“La Fotografia — per dirla con una frase di Ando Gilardi, del tutto affascinante e addirittura blasfema — è la palingenetica obliterazione dell’io cosciente che s’infuria nell’antropomorfismo universale”. Non ho capito bene, ma mi sembra qualcosa d’intelligente. Forse ho inteso che la Fotografia ha la capacità di modificare sensi e comportamenti e di conseguenza di mutare i condizionamenti della realtà? Forse che la Fotografia disvela tanto l’ingenuità della realtà così come si presenta e rimanda alla scuola elementare dell’eresia? Forse che la Fotografia travalica barriere, confini, muri, reticolati, fosse comuni e “l’analfabeta del futuro non sarà chi non sa scrivere, ma chi non conosce la fotografia”?, Moholy-Nagy, diceva… certo è che la Fotografia non ha niente a che vedere con l’analogico o il digitale… poiché è nella riconfigurazione della realtà che nasce o muore all’incrocio d’infinite pulsioni del visibile, l’oblio o il dissidio della fotografia non aspira ad essere compreso ma essere amato.

La fotografia di strada, moda, pubblicità, viaggio, cronaca, guerra, astronomica, microscopica…non esiste… esiste la bella fotografia e quella brutta… ciò che è importante è perché si fa una fotografia… per raccontare la vita, sostenere discorsi politici o prontuari commerciali, fare della significazione fotografica la modificazione della percezione delle folle o fare della poesia che comunica le difficoltà dell’uomo e dell’ambiente che lo circoncide… l’intenzionalità della fotografia è ciò che incorpora o rigetta… il messaggio non è solo lo strumento ma l’uso che se ne fa, caro McLuhan (quando facevi il consulente per lo Stato del Vaticano, forse il Papa ti aveva raccomandato che gestire la comunicazione è come gestire l’impalpabilità di Dio e che comunque la mercificazione delle preghiere era feconda per istruire il consenso del confessionale). Qualsiasi tipo d’informazione-immagine (internet, telefonia, cinema, pittura, televisione, carta stampata…) è codificata all’addottrinamento della coscienza pronta a interagire e a trasformarsi in emissario dell’organigramma semiotico dell’esistenza… finanza, politica, cultura, terrorismi di Stato o deviati sono parte di organismi internazionali nelle mani di pochi predoni dell’immaginario… il benessere, la sicurezza, il dispotismo estesi ovunque, dipendono dalla gestione efficiente, pratica, riproduttiva dei modelli d’informazione.

Nessuno può nulla contro la libertà dell’uomo che rigetta il piacevole per il bello… non c’è consolazione nelle lacrime degli oppressi, solo il castigo vendicatore degli oppressori. La prolificità dell’immagine confluisce, si mescola, interferisce con la civiltà dello spettacolo
e determina la riverenza delle soggettività o il loro dissidio in quella iconosfera mercatale dove la fatalità ha preso il posto della critica… l’imperio dell’immagine rimanda a una serie di casellari che fanno dell’apparenza i capoversi della realtà… lo spazio inquadrato, l’ambiente, gli oggetti, gli atteggiamenti riproducono massivamente lo stile della comunicazione che crea la realtà, invece di disvelarla… il fotografo e il fotografato sono parte di una scena che riguarda lo slancio in cui gli uomini aderiscono alle immagini e contemporaneamente alle relazioni tra loro… il desiderio indotto di fama e notorietà è una condizione necessaria per la costruzione dell’identità — sempre volatile — con la quale la moltitudine osanna la visibilità del mito e ne ripete l’emulazione… la fotografia come arte alla portata di tutti non esiste o è solo un trofeo issato sul sangue dei dissennati senza miti… esistono i fotografi o i poeti, cioè quelli che si dedicano alla fotografia che permea il vasto pubblico e quelli che spassionatamente non forniscono direzioni né indicazioni se non all’utilizzo delle immagini invise o del tutto trascurate dalle strutture colonizzatrici della comunicazione.

L’immagine persuasiva, non solo della fotografia, crea mercati e alimenta consenso o dissenso, ricchezza o emarginazione… i sistemi informatizzati generano gli scenari dell’uniformazione della quotidianità, mutano abitudini, percezioni e coniano un nuovo alfabetismo che mischia immagine e parola, e non richiede troppi sforzi intellettuali per adattarsi al linguaggio che viene… l’ostenzione del maneggio tecnologico come fine e principio di tutte le cose permette di simulare un’identità ed emulare la sintassi di un ordine stabilito su scala globale…è vero anche che l’uso di una filosofia dell’azione creativa all’interno della Rete ne può incrinare le regole e i condizionamenti… denunciare gli influenzatori come novelli delinquenti di una realtà succedanea, interfacciati, protetti e fagocitati dall’impalcatura mercatale che conforma o asserve l’immaginario collettivo ai propri fini. Quando la verità, la bellezza e la giustizia si staccano dai nostri sogni e desideri più insensati, già non siamo più e cadiamo nel fondo dei millenni.

Un eccesso di sofferenza è sempre un eccesso di crimine impunito… e la macchina sociale è la voce dei popoli che riecheggia nella persuasione e nella rettorica dei distruttori e degli inerti, Carlo Michelstaedter, diceva. Il dominio del sociale sull’individuale prospera nella disfatta della storia umana. 

La dimensione sociale del vedere si origina nella cecità di riprodurre una normalità preconfezionata che è espressione diretta di una scolastica elementare destinata a sotterrare l’identità personale e vivere la realtà nell’ingannevole ambiguità cosmopolita dove “nel mondo realmente rovesciato,   il vero è un momento del falso” (Guy Debord). La veridicità del segno, del gesto, del corpo non sta solo nell’immagine fabbricata ma in quella pensata o anche sognata…la realtà raffigurata non è solo apparenza ma anche il bagaglio culturale personale che la deterge o l’incensa… a ragione, Charles Baudelaire, Thomas Bernhard, Giovanni Arpino, Ando Gilardi o Roland Barthes, ci avevano avvertito che la fotografia non è certo una straziante reminiscenza di ciò che è stato e le immagini rendono schiavi di un’incomprensione, quella di credere che la fotografia sia al fondo di ogni verità… e mentire davanti a una fotocamera non è solo una salvezza ma un ripararsi da qualcosa che dà al fotografato sempre torto.

A Ferdinando Scianna si deve forse una delle più illuminanti invettive contro la fotografia: “Nel momento in cui ci illude di immortalare un istante contemporaneamente lo uccide e ci fa capire che l’istante solo esiste se è istante di vita, se è vivo in se stesso, se noi siamo vivi con lui”. Tutto Vero. L’essenza della fotografia è quella di mostrare e custodire l’inconosciuto della bellezza, della giustizia, della verità, del rispetto, della dignità… e fermare o liberare nel tempo il superamento della messa in campo o dell’immediatezza anche della fotografia di strada, che è una semplificazione del grande poema fotografico di Walker Evans, Diane Arbus o William E. Smith… la finitezza dell’immagine fotografica si evolve nel poetico che trasmette… è una metamorfosi visiva della realtà che geme o disincrosta il reale dei propri infingimenti.

La fotografia immaginista di Gian Paolo Barbieri, Oliviero Toscani o Richard Avedon, per ricordare… travalica la destinazione dell’immediata sensazione, si traduce in conoscenza e coscienza dei mutamenti del costume e mette a nudo l’uomo nelle sue debolezze e insorgenze. L’attualità illusoria e sincronica con le forme di comunicazione attuali è un’emanazione del lessico pervadente sussunto o respinto… l’immagine-codice è specchio della realtà e anche il suo verosimile… il realismo della realtà è da un’altra parte e poi chi se ne frega della realtà e del realismo… il discorso politico permea tutto e la cultura è il valletto delle sue affermazioni e promesse mai esperite. Le categorie, gli indici, i simboli sono in ogni connessione tra soggetto e quotidianità, e il fotografico è la traccia, il ponte o l’arpione tra il fotografato e la scrittura fotografica: “L’unica cosa politicamente corretta è la tua coscienza” (OlivieroToscani).

La capacità tecnica-stilistica del fotografo o è una soluzione narcisistica o è un utensile che la sopprime a favore di qualcosa che anche al massimo dell’imperfezione esprime un punto di vista documentato… la fotografia non può essere mai prigioniera del suo referente, semmai ne ribalta l’improntitudine… è sempre il valore di verità o menzogna che determina l’immagine in qualcosa che esiste o che tradisce. La fotografia sostituisce la realtà o ne rivela l’impostura. Due o tre cose che so della fotografia immaginista… l’immaginale dei piaceri, dei desideri e delle passioni dei surrealisti, lettristi, situazionisti che annientano, ostacolano o sfigurano, anche con soluzioni radicalmente immorali, la direzione sporca della condizione umana…   è un coacervo di situazioni che non prevedono razze, popoli, nazioni, stati, ideologie, dottrine, saperi… che sono la riproduzione sociale di un’oligarchia consumerista che soggioga corpo e anima al potere in carica e, come sappiamo, ogni potere si regge sull’assenso di coloro sui quali si esercita, Étienne de La Boétie, diceva… l’immagine immaginista dunque è una liberazione del desiderio in ogni campo del sapere… parte dall’immagine codificata e la détourna in altro da ciò che rappresenta nell’immediato ma non la sconsacra… poiché l’autore sa che l’arte vuole eternità. Nel reame della fotografia ufficiale trionfano una primavera di carogne…e siccome la formazione dominante alla fotografia passa da una successione di finzioni ideologiche e mercatali, la verità della fotografia non esiste perché conta solo l’immagine che reclama solo ciò che non rinnega!

La fotografia immaginista o cinesica di Le Pera è un battesimo di visioni eviscerate dal contesto…i corpi, i gesti, i volti… sono presi da una realtà teatrale e trasfigurati in altre sapienze, in altre sostanze… detto meglio… le fotografie immaginiste di Le Pera effigiano dei veri e propri sillogismi iconografici, forme scritturali d’esistenza che confluiscono nel profondo di un’altra storia, quella dell’autobiografia sospesa tra la recitazione e la materia… arrotolati insieme e disgiunti nelle cosmogonie immaginiste che rimandano alla leggiadria dell’artista in stato di gocce d’acqua degli antichi… cioè… l’arte o è ascetica o è falsa… insomma dietro l’immagine immaginista c’è la fiamma, la brace e l’inclinazione per l’assurdo aureo di Giobbe, poiché “il cammino ascetico può essere ripercorso ai margini della visione: qui, sedersi, sedersi sui margini in attesa di capire” (Guido Ceronetti). L’immagine immaginista appartiene
solo all’immagine della sua resurezzione… scivola nel vuoto e non si concede ad alcuna confidenza che non sia l’estasi di sé. Il vuoto di una fine e il vuoto di un inizio.

La vena sapienziale di Le Pera non conosce ortodossie, semmai eresie dell’oracolo-fotografia…è territorio d’incontri, di presenze, di coltelli arrugginiti o sciabolate di luce sul sangue dei giorni… di amori scoscesi e piogge d’orchidee che fanno della scatola psichica interiore ciò che Henry Corbin, James Hillman o Gaston Bachelard intendevano come “mondo immaginale”…e proprio Corbin sosteneva: “Non avrai altri dèi di fronte al mio volto”. 

Si tratta di vedere in tralice ciò che è dato come percezione dell’apparenza… l’immagine dell’uomo non appartiene all’uomo ma alla sua anima, James Hillman, diceva… l’immagine dell’anima dunque è immagine del mondo.

La fotografia immaginista di Le Pera è una sorta di gnosi dell’immaginale, non ha la necessità di riprodurre fatti e ragioni, nemmeno il simile che ripropone il simile… è il riconoscimento di una presenza che diviene narrazione-conoscenza d’altro, anche… e attraverso il linguaggio del corpo riporta al respingimento della spontaneità o allo stupore dell’arte come fac-simile della vita comune. Non importa andare in guerra, in uno studio pubblicitario o a girovagare nelle periferie urbane per fare la Fotografia… il taglio, l’inquadratura, la composizione, la selezione del reale o del falso, vogliamo ribadirlo… sono il lessico mai scritto, del tutto empirico o personale, che fa di un fotografo un poeta o uno scemo. La fotografia è nata bastarda o del tutto imbrigliata nell’industria mercatale… più fotografia si vende meno si fa Fotografia!

Poiché è stato disseminato nelle teste dei fotografi-clienti che l’immagine fotografica è quella che tracima dalla tecnologia della fotocamera. 

Fotografare sull’acqua del teatro, sul niente, dunque, è come fare dell’amore la nuda anarchia che rovescia il mondo. Il momento decisivo bressoniano è quello dell’acquisto della fotocamera… più di ogni cosa è cercare un maestro, un imbonitore o un cretino che suggerisce regole-zone aure, senza sapere mai che per imparare l’uso di una fotocamera basta leggere il foglietto delle istruzioni tra il sabato e la domenica con la Confraternita della bottiglia… per conoscere il mistero della luce non basta una vita, dicevano Nadar, Luis Buñuel, Jean-Luc Godard, Orson Welles o Pier Paolo Pasolini e anche Lazarillo de Tormes, il picaro, mentre appiccava il fuoco alla casa del padrone…ciascuno s’inventa il proprio linguaggio e per contrastare l’estetizzazione del diletto o l’imbarbarimento del successo piegato su tutti i sagrati della mercificazione… occorre disimparare ciò che è stato appreso, costruire situazioni differenti, rompere le regole del compiacimento visuale… che è l’illustrazione di una iperrealtà trasmessa e ingoiata come verità.

Chi dice la “mia fotografia”, la “mia arte fotografica”, la “bellezza della mia fotografia” è un cretino preso sul serio… la persuasione occulta della fotografia (e dei mezzi di comunicazione di massa), Roland Barthes, John Berger o Pierre Bourdieu, dicevano… è nel fotografo che aderisce alla copia dell’informazione regnante… che è l’ordine inossidato al quale è difficile sottrarsi e favorisce i brevetti di ambasciatore, insegnante o maestro a quanti considerano il mondo un’immensa successione di spettacoli… in ogni forma d’arte chi non ha nulla da dire grida, quelli che si chiamano fuori dall’esibizionismo massificato ridono o tirano sassi agli specchi dell’imbecillità. La fotografia è anche luce rigeneratrice di immagini esplosive.

Che bello… da qualche parte (in Rete) abbiamo trovato la più profonda osservazione sugli scarafaggi — i serventi adoratori della Regina d’Inghilterra —     i Beatles: “I Beatles ebbero la funzione storica di paladini della reazione. I loro sorrisi e i loro ritornelli tennero nascosti i fatti rivoluzionari di quell’epoca per la borghesia che non voleva sapere nulla dell’insofferenza dei giovani e dell’underground emergente. Non avevano nulla da dire, e infatti non lo dissero”…sembra che l’autore dello scritto sia stato passato per le armi per lesa maestà a quattro coglioni idolatrati dalle folle ed emulati anche al cesso… è la stessa cosa che accade agli imitatori balordi di Helmut Newton, Steve McCurry, Annie Leibovitz o Nobuyoshi Araki… il corpus d’immagini di questi esegeti della creatività spettacolare, esprimono una personificazione atta ad entrare nella coscienza di massa… a differenza della “conoscenza gnostica, che è la conoscenza dell’anima, e il suo scopo non è provare o spiegare l’anima — ma trasformarla”, Robert Avens, annotava… le strategie di vendita delle immagini fotografiche implicano una prospettiva sacrale che porta a concepire, immaginare, proiettare, desiderare fortemente la relazione tra utilitarismo e credenza… ma, come ci hanno lasciato in sorte gli antichi… il piacere senza coscienza non è che rovina dell’anima. 

Le immagini messaggere-immaginiste sono quelle uroboriche, angeliche, circolari che implicano orizzonti inesplorati dell’ospitalità, della finezza, dell’amore in una risonanza che riorienta la creazione dinamica di qualsiasi cosa nell’infinitudine archetipica-poetica della conoscenza… ti amo come tu mi ami, poiché il reale è nel ripiego di un’ala ferita, diceva… e la parola precipita nell’amore rivendicato che naufraga in mari inospitali, poi Ismael afferra la coda della luna e s’invola là dove l’amore ha per amica l’infanzia, la rosa e la fionda… poiché l’altrove è la terra che nessuna sa: la nostra terra. 

In questo senso il volto, il corpo, lo sguardo sono i filamenti del fantastico e una successione di passaggi, di scale, di soglie che conoscono la lingua dei cani e il vociare delle stelle… è lì che la parola-immagine ha un nome e si chiama amore per l’umano nell’uomo.

La fotografia immaginista è una fotografia germinale/gnostica… poiché la gnosi è “una ricerca di conoscenza condotta con un’intensità così totalizzante che questa ricerca stessa diventa ontologicamente una forza di trasformazione”, Henry Corbin, scriveva. Rifuggire dagli dèi abbattuti e dal dio che viene significa cercare di rivelare il profondo dell’uomo, scoprire l’angelo necessario, il maestro invisibile, l’archetipo d’ogni essere individuale… per vivere l’istate magnificato della resistenza culturale… e solo quando l’istante è crocevia d’amore di sé verso l’altro, l’esempio-cliché predominante crolla nella sua stessa radura di sangue… solo i poeti che non chiedono niente hanno diritto a tutto.

Ci vuole molta innocenza, sconsideratezza e arditezza per cercare di edificare un pensieroanima…poiché sappiamo che qualsiasi cosa che riguarda l’educazione è sempre sbagliata…la raffinatezza di una semantica ludica-edonista è forse la sola libertà di scelta che implica il riscatto e il diniego, e l’incendio di qualsiasi codice-contratto civile… il padrone prende, abusa, consuma, distrugge, uccide secondo i suoi desideri, Michel Onfray, diceva… finché non accade l’inedito… l’angelo tremendo di Rilke che porta un nuovo ordine amoroso nel disordine che obbliga a rifiutare le passioni dell’utopia, 

le sole pulsioni personali di una filosofia libertaria, libertina e gnostica che nel mutuo appoggio si trasfondono in forme/soggetti che prendono la parola, l’immagine, il suono e il sogno nel tempo in cui si manifestano.

 La fotografia immaginista contiene la gnosi — una forma di conoscenza superiore, illuminazione non necessariamente religiosa o più semplicemente un grido d’amore per salvare o non uccidere l’anima —… non si occupa del reale incorniciato in concetti e ideologie, anzi ne disfa gli impulsi. 

In qualche modo questo fare-fotografia eredita lo sguardo sgualcito della cultura millenaria che accompagnava le genti di là dalla terra… un amore verso i sacrificati sorrisi degli ultimi, l’esacerbazione del male che evidenzia le armi che si porta dietro e talvolta condanna lo sciame d’imposizioni con l’inchiostro che le sporca o le disvela per affermare i diritti dell’uomo. La visione immaginista reca con sé il rumore delle biglie, del pane fresco, dei corpi nudi dei ragazzi distesi come bisce al sole sulle spiagge sudate di vento africano… l’innocenza del cercare, del ricordare, del condividere che respinge dappertutto l’infelicità… sfoderare le armi dell’adolescenza per intravedere e avvicinare la verità inventata dei sognatori che l’alfabeto non ha ancora guastato.
La fotografia gnostica o immaginista s’accosta all’avvenire con il passato che viene e poiché la solitudine non è una Patria né una bandiera… chi la pratica è un dissotterratore di primordi sepolti o perduti e chiede alla fotografia la polvere di stelle nascosta nel firmamento delle sillabe, e come l’amore senza limiti che ha il medesimo afflato della libertà e senza riguardo alcuno prefigura il dono di sé nell’altro: “Il rimprovero è in ogni vocabolo che ho rivelato alla sua voce e che credeva alla mia sincerità.

Se la bestia, per grazia del poeta, si trasforma in angelo, l’angelo tradito ridiventa subito bestia. Poco a poco, il libro mi darà il colpo di grazia” (Edmond, Jabès, il maestro). La fotografia è nel soffio, come la verità e la bellezza sono nel vento… l’apparenza è soltanto il riflesso di pieghe-specchi già confessati e ci rinvia a una perdita dell’ignoranza dove ciascuno trova l’immagine di sé o la rifiuta… poiché il corpo è il luogo dell’anima, solo il corpo liberato può infrangere il respiro dello specchio.

La fotografia immaginista emerge o s’innalza da una filosofia gnostica o degli occhi chiusi, cioè dell’immaginale che sprigiona la coscienza del silenzio o l’impazienza della collera… una visione che si scontra con la brutalità dei potenti e oppone verità e bellezza al vuoto delle idee e al disprezzo delle fedi o dei discorsi da coppieri della politica… l’amore per la vita è sempre in ritardo sul suo debutto, poiché l’apparenza è la sostanza d’ogni rovina. La poetica immaginista ha una funzione morale e civile propria al fanciullino di Giovanni Pascoli… contiene l’instancabile desiderio e la frenesia anche, di una comunione tra le miserie, le disuguaglianze e le sopraffazioni che rigetta a favore della luce che risplenderà nella vita autentica… essere al margine è una presenza di un altro luogo, di un altro abitare, di un altro essere… una briciola di universo che conserva i suoi colori e il sale degli sguardi che uniscono ciò che è disunito… il bordo non è il limite e un cammino senza inizio né fine che si trasforma e trasforma chi ne accoglie l’oltraggio e deposita l’esilio nelle mani e nei canti dei trovatori… poiché l’amore s’innalza dove afferra l’eterno che è la cenere di tutte le eco incoronate alla ninnananna del mai dimenticato. La storia dell’uomo è storia degli occhi abbassati, non chiusi…poiché amare, vedere, sognare, sono la parola-immagine incendiaria che ha sete di bellezza e di giustizia.

La poetica del fanciullino di Pascoli è all’inizio o alla fine di tutte le innocenze ritrovate o offese…il poeta sa che l’ingenuità è affine al riso del fanciullo e giunge al cuore delle cose e delle lacrime senza aprire gli occhi, solo il cuore… le palpebre abbassate di Dio, quando per la prima volta apparve il male insieme alle stelle, non c’entrano… gli occhi chiusi del fanciullino (qui considerati come fondamento primigenio del pensiero dell’uomo), rappresentano il disarmo e la condanna dell’immaginario collettivo che si srotola tra sogno e realtà… la coscienza che conduce al bene non è forse la sola poetica della regalità? Tutto ciò che è stato finora insegnato è falso! Chi ha fame si ribella o muore per contrastare il tozzo di pane e l’arsura d’amore negati! La menzogna, come la politica, cambia pelle a seconda delle convenienze, recite e indottrinamenti… mai tanta imbecillità è stata bene accordata con la storia che l’ha promossa a inno di devastazione… solo l’amore si congiunge con il seme che getta nel vento e dice: tu esisti!

Il linguaggio-filosofia immaginista dell’acqua e degli occhi chiusi allora è un traghettatore di rive, di ponti, di naufragi e ammutinamenti… è il ritorno all’infanzia mai perduta che non conosce persecutori né suppliziati… i maestri aureolati non coincidono con la gaiezza né con la passione… poiché la luce dell’amore si nutre del desiderio che l’accende! Il Piccolo principe innaffiava la propria rosa per proteggerla dal mondo che voleva reciderla… l’acqua-immagine è la memoria della Terra e anche del cielo, delle pietre… l’acqua-immagine è sempre un risorgimento o un pazzo tramonto che non conosce confini, poiché l’acqua-immagine è coscienza e incoscienza dell’impossibile reso possibile… l’immagine dell’acqua è in tutta la vita dell’uomo, è in ogni parola, in ogni lacrima o in ogni stupore che interroga non domanda, che include non esclude, che protegge non uccide… l’acqua-immagine è il tutto e anche il nulla del pensiero gnostico che vive eternamente nella sua nascita… si nasce sempre domani, perché anche l’ultimo ubriaco sa che alla notte della tirannia succede l’aurora della libertà.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 25 giugno, finito 6 volte ottobre 2022


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Come quando si va da un eccellente sarto a scegliere con cura un vestito, adattandolo perfettamente al corpo, vogliamo fornirvi il corso che meglio si adatta alle vostre, singole e personali esigenze.
Niente nasce dal caso e per poter essere all’altezza di questo compito e potervi fornire un’offerta diversificata e soddisfacente, abbiamo pensato di sottoporvi un questionario tra il serio e lo scherzoso a cui vi preghiamo di rispondere.
Aiutateci a capire le vostre reali esigenze e chi abbiamo difronte, non ve ne pentirete.
Massimo Mastrorillo

Dimmi chi sei e ti dirò che workshop fa per te

Approfondiamo ! per i più intrepidi
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