“Se i popoli si accorgessero del loro bisogno di bellezza, scoppierebbe la rivoluzione”.
James Hillman
Sulla fotografia del dolore.
Manifesto per l’abolizione della stupidità in fotografia e dappertutto.
I cattivi fotografi copiano, i grandi fotografi rubano, diceva… tutto qui. Ecco perché ci sono frotte di stupidi che fanno fotografie e una minoranza di randagi dell’immagine del dolore che fanno della fotografia una forma di comunicazione (o d’arte) di compiuta bellezza estetica ed etica. Sono i “quasi adatti”della fotografia di strada, di guerra o degli ultimi che ai quattro angoli della terra (o sul tetto della propria casa) mostrano i reticolati di un disagio sociale diffuso. La sofferenza profonda, morale, disumana nella quale versano i popoli impoveriti dalle menzogne del mercato neoliberista e dalle bombe che l’industria della guerra (dei paesi occidentali e dei comunismi al potere) continua a riversare contro gli esclusi dal banchetto delle politiche di colonizzazione dei governi “democratici” al servizio della teocrazia finanziaria delle banche…è sempre più una struttura consortile della demagogia.
Gli autocrati del nuovo fascismo determinano l’aumento della ricchezza peri pochi e l’impoverimento progressivo dei molti. Quando gli uomini com-prenderanno che mettere fine (con tutti i mezzi necessari) all’impero dell’odio è una necessità per il raggiungimento della felicità del maggior numero… allora e solo allora si potrà vedere la partecipazione dai cittadini alla “cosa pubblica”, alla nascita di una democrazia diretta, consiliare, libertaria che metta fine alla fenomenologia del male e alla farsa elettorale, anche. I parlamenti sono covi di serpi e per non essere uccisi dal loro veleno millantatore, mafioso o poliziesco, alle serpi va schiacciata la testa.
Ouverture. Discorso sulla stupidità e un modo per porvi rimedio.
La stupidità è una condizione sociale generalizzata… è deplorevole che un grande numero di stupidi abbiano nelle mani le redini del potere… sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione… stupidità e potere si confondono… uno stupido incontra sempre uno stupido che l’ammira o lo serve… gli stupidi influiscono sulle altre persone con intensità molto varia. Alcuni stupidi causano normalmente solo perdite limitate, mentre altri riescono a causare danni spaventosi non solo a uno o due individui, ma ad intere comunità o società… secondo una delle leggi fondamentali della stupidità umana coniate dal prof. Cipolla, ed è tutto vero, la stupidità dipende anche dai fattori genetici… “alcuni individui ereditano notevoli dosi del gene della stupidità e grazia a tale eredità appartengono, sin dalla nascita, all’élite del loro gruppo… altro fattore che determina il potenziale di una persona stupida deriva dalla posizione di potere e di autorità che occupa nella società. Tra burocrati, generali, politici, capi di Stato e uomini di Chiesa, si ritrova l’aurea percentuale Ó [la misurazione della stupidità si basi scientifiche…] di individui fondamentalmente stupidi la cui capacità di danneggiare il prossimo fu (e lo è) pericolosamente accresciuta dalla posizione di potere che occuparono (o occupano). Il potere della stupidità è enorme… si avvale della stupidità dei politici, dei burocrati, degli ecclesiasti, degli operai sindacalizzati, dei migranti legiferati, dei terroristi fagocitati dai “grandi interessi” finanziari internazionali e perfino il cane del papa è stupido… ubriaco di ostie e di pre-ghiere continua ad abbaiare sulla misericordia di Gesù Cristo, un altro stupido che si è fatto inchiodare sulla croce con una corona di spine, solo per passare alla storia del narcisismo come il più grande e imitato impostore dell’umanità.Lo avevano già detto William Shakespeare, Jonathan Swift, Friedrich Nietzsche, Oscar Wilde, Nicolás Gómez Dávila, Elias Canetti, Albert Einstein, Robert Musil, Ernst Jünger, Louis-Ferdinand Céline (il maestro-Argot), André Glucksmann, Raoul Vaneigem, Guy Debord, Orson Welles, Pier Paolo Pasolini e anche mia nonna partigiana… di fronte alla stupidità non c’è vittoria…gli stupidi sono pericolosi e funesti perché le persone dotate di ragione trovano difficile immaginare e capire i comportamenti di uno stupido. Una persona intelligente può comprendere le intenzioni di un bandito o di un ribelle…entrambi attentano alle logiche dell’ordine costituito, il bandito ne prosegue la ferocia, il ribelle l’abbatte con tutti i mezzi necessari… ne consegue che lo stupido è più pericoloso del bandito e solo il ribelle o l’Anarca può rovesciare l’ordine della stupidità e costruire la situazione di dissidio che rovina la stupidità nelle cloache della storia.
Manifesto per sopprimere la fotografia della stupidità.
Tutta. (In tre scene da commedia dell’arte, per la sovversione non sospetta dell’immaginario liberato). Perché la fotografia mercatale, specialmente, in quanto mercimonio del dolore e simulacro dell’arte prostituita, è repressiva o complice della stupidità predominante per definizione.Scena prima.— Il fatto che la fotografia della stupidità esista non solo tra le banalità edulcorate del fotoamatorismo, ma più ancora ai piani “alti” del professionismo celebrato (dai mercanti, storici, critici della convenienza, s’in-tende), non è un buon motivo per conservarla. Come i partiti politici del resto.Aderire all’ideologia di un partito o di una religione monoteista significa rinunciare a pensare… i partiti e le religioni (come i mercati globali della rapina, dell’imbroglio, della messa a morte della biosfera) sono un male allo stato puro. E vanno fermati.
“La democrazia, il potere della maggioranza non sono un bene… Un po-polo [dovrebbe essere] chiamato ad esprimere il proprio volere riguardo ai problemi della vita pubblica, e non solamente ad operare una scelta di persone” (Simone Weil) sovente colluse con il crimine organizzato. Non è facile concepire delle soluzioni efficaci contro la partitocrazia e la servitù dell’arte che ne consegue… ma è evidente, dopo un attento esame, che qualunque soluzione implicherebbe innanzitutto la soppressione dei partiti e l’abolizione del mercimonio dell’arte. Solamente il bene comune è un fine. A che giova infatti al fotografo conoscere il mondo intero se poi perde la propria anima nella merce? —. “Il mondo non ci appartiene, lo abbiamo ricevuto in prestito dalle future generazioni”55, diceva un capo pellerossa passato per le armi. È la malvagità di una minoranza di arricchiti che ha generato la disumanità che investe l’intero pianeta, e va combattuta.
Scena seconda. — Chi tocca i fili spinati dei partiti muore, chi attenta con disprezzo alla cultura dell’apparenza è confinato nel silenzio o emarginato nella follia… ciascuno difende i propri spazi di potere, le proprie briciole di successo… l’inumanità generalizzata nasce dallo snaturamento degli uomini, causato dall’appropriazione mercantile e alla luce delle discariche dell’arte servile, i mercenari marciano compatti verso il deserto del nulla, che è il cimitero delle buone intenzioni! Siccome è del linguaggio della fotografia che ci occupiamo, ci fa sorridere e non poco, il fatto che la fotografia dominante continua ad esercitare sul-la stupidità degli utenti dell’immaginale spettacolarizzato una sorta di malefica felicità ingannatrice… l’identità di servi gabbati e padroni famelici è il suicidio di tutte le forme di democrazia dell’immagine liberata, autentica, vera, e un invito alla dissipazione della bellezza e della giustizia. I fotografi della bruttura sdoga-nata come arte passano, le loro devastazioni culturali restano. Punto e a capo.
“Oggi il mondo è pieno di miserabili, e la loro angoscia non ha più alcun senso. La nostra epoca, del resto, è un’epoca di miseria senz’arte; una cosa penosa. L’uomo è nudo, spogliato di tutto, anche nella fede in se stesso” (Louis-Ferdinand Céline, diceva). Viaggio al termine della fotografia. La fotografia che vale è una tranche de vie o non è nulla! I fotografi del nulla incensato ci disgustano e solo chi si occupa del male di vivere o dell’uomo in rivolta ci pare degno di attenzione! La moderazione degli stolti — in ogni forma d’arte — è il risultato di un’ipocrisia! I fotografi dello spettacolare cresimato sono pericolosi e le loro stupidità imbalsamate nella schiuma del consenso, immense.
Cogliere il momento propizio — non solo nell’atto fotografico — è la chiave che ci apre la vita, ecco la cosa difficile (per non morire nel buffonesco, nel giullare o nell’incomprensione della lingua Argot di Villon, che ha parlato delle periferie del mondo come effettivamente sono).
Scena terza.— Abolire i filamenti della fotografia del disvalore sociale vuol dire lottare per riconquistare la bellezza e la ragione. “La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei” (Albert Camus). Se i fotografi si accorgessero della loro fame di bellezza, scoppierebbe la rivoluzione nelle strade della terra. Il bello, il dignitoso, il giusto vanno di pari passo al dilagare incontrastato del brutto, dell’osceno, dell’ingiusto… mettere a fuoco il cuore del sistema della società consumerista (il marketing internazionale della politica e della congerie delle leggi, dei costumi, delle fedi) vuol dire denunciare gli abusi e i soprusi del rizomario olezzante (cattivo) del pensiero istituzionale. Céline, il medico dei poveri, ci avvertiva: “Tocchiamo la meta di venti secoli di grande civiltà, eppure nessun regime resisterebbe a due mesi di verità.Parlo del sistema marxista così come dei nostri sistemi, borghesi e fascisti”
Ed ancora è così. Peccato che nessuno o pochi si accorgono che anche un cane al potere potrebbe essere migliore di quanti governano in questo modo e a questo prezzo! È lo splendore dell’autentico che annuncia il valore del bello e della giustizia che lo segue. Il pane della libertà, della fraternità o della bellezza non si taglia, si spezza —.
A ritroso. Non vogliamo qui ricordare la messe di fotografi che hanno persola vita nel corso di guerre insensate (come tutte le guerre) ed hanno cercato diportare alla luce della storia la disumanità della civiltà spettacolare… alla luce de-gli indici di gradimento dei media e all’innalzamento dei dividendi delle banche internazionali (a carico di una crescente miseria delle genti), il consenso genera-lizzato diventa l’oppio elettorale e i falsi bisogni di consumo (e il servilismo dei partiti politici verso la tirannide finanziaria) si sostituiscono alla gioia di vivere.
Il coraggio della fotografia
La fotografia consumerista, va detto, è parte di un mondo dove tutto ha un prezzo, ma niente più un valore. Il divenire davvero umano della fotografia è nel superamento del mercimonio dal quale si dissocia e inizia a cercare, creare, fantasticare il proprio destino. È il coraggio della fotografia sganciata da ogni sottomissione all’autoritarismo della “grande” informazione a seminare dissidi e diversità (anche attraverso la Rete) ed insegna a vivere una vita quotidiana fuori dalla predazione e da un umanesimo d’accatto che, specie nella sinistra, educa a chinare il capo e leccare il culo ai padroni dei mercati o ai padrini della politica. Gli ovili dell’ordine economico e sociale non possono fare a meno della fotografia banalizzata e ne fanno buon uso — non solo nella lavanderia della pubblicità — ma anche e soprattutto all’interno della partitocrazia per continuare ad allevare i nuovi schiavi all’obbedienza e identificarli con il gregge. Per raggiungere la giustizia e la virtù della persona, che non è separata dalla giustizia come etica di una società di liberi e uguali, occorre riprendere la sana abitudine di rendere la vergogna istituzionale ancora più vergognosa, ribaltare la prospettiva dominante e rovesciare un mondo rovesciato, anche con la fotografia.
Il coraggio della fotografia di Alexandra Boulat (Parigi, 2 maggio 1962 – Parigi, 5 ottobre 2007) si accorda con l’indignazione montante delle giovani generazioni insorte contro tutte le caste della soggezione finanziaria, politica o religiosa… è un insegnamento a scoprire o smascherare la dissimulazione del profitto, se ne facciamo buon uso. Nel suo fare-fotografia la Boulat ha espresso una sorta di compassione laica verso ciò che fotografava, specie sulle rovine delle periferie colpite dalla guerra e l’indigenza delle popolazioni civili… ha mostrato senza infingimenti che nessuna vita umana ha più importanza se la cattività e l’ingiustizia diventano la ragione di Stato.
Ci sembra carino ricordare che “lo Stato è una relazione sociale, una specifica modalità con cui le persone si relazionano tra di loro. Lo Stato può essere abolito solo creando nuove e diverse modalità di relazione sociale… perché lo Stato siamo noi!” (Gustav Landauer). Tutto vero. Come si può tollerare che gli oppressori accusino di violenza gli oppressi che si oppongono ai loro disastri o carneficine? Dove regnano la costrizione e il sopruso il desiderio di vivere si sostituisce alla messa in scena dell’impostura predominante e chiede(con tutti i dispositivi utili) l’eliminazione della barbarie.
Nella ritrattistica di guerra (ma non solo), lo sguardo radicale della fotoreporter francese coglie il senso profondo dell’indignazione e lo intreccia al risentimento contro la brutalità dei potenti, dei demagoghi, dei demiurghi che sostengono gli affari sporchi dei vigliacchi e affondano i popoli impoveriti nella disperazione. La Boulat (figlia di un fotografo della redazione di Life,Pierre) aveva frequentato l’accademia delle belle arti di Parigi, studiato storia dell’arte e grafica. Inizia come pittrice poi impugna la fotocamera, lavora per Sipa Press e l’agenzia della madre, Cosmos. Nel 2001, insieme ad altri fotografi, fonda l’Agenzia VII, una agenzia fotografica indipendente. Le sue fotografie entrano (a buon diritto) nelle pagine di giornali e settimanali come Time, Newsweek, Paris Match, National Geographic. L’interesse creativo della Boulat si orienta sulle questioni sociali e i suoi reportage raccontano l’indipendenza degli stati sul Baltico, il traffico di bambini in Romania, il razzismo in Germania, i problemi del popolo Iracheno durante l’embargo, il conflitto in Bosnia, le tensioni etniche in Kosovo, la guerra contro il terrorismo in Pakistan e Afghanistan. Si accosta (con grazia) anche alla fotografia paesaggistica a Taiwan e in Indonesia.La fotografia della Boulat è carica di una dolente umanità e riceve molti premi internazionali (Eisenstat Award 1999, Columbia University and Lifemagazine; Infinity Award, International Center of Photography 1999 NewYork, USA; Visa d’Or 1998, Perpignan, France; Paris-Match magazine award1998; Anger Festival 1996, France; Harry Chapin Media Awards prize 1994,USA). Nel 2006 inizia ad occuparsi della guerra tra Israele e Palestina, in particolare della striscia di Gaza. Nel giugno del 2007 la Boulat è colta da un aneurisma cerebrale a Ramallah (Palestina), entra in coma farmacologico e passa tre settimane in un ospedale di Gerusalemme. Viene trasferita in Francia dove rimane in coma per tre mesi. Muore nel sonno a Parigi il 5 ottobre, aveva solo 45 anni. Scompare una donna singolare e un testimone straordinario della fotografia d’impegno civile, resta tuttavia la poesia della sua opera a farci comprendere che la condivisione, l’accoglienza e la bellezza sono aspetti importanti della giustizia e quando sono calpestati diventano crimini contro l’umanità e vanno denunciati.
La Boulat era una persona dolce e, a ragione, il ritratto commovente e austero che Lello Piazza le dedica su Fotographia n. 178, febbraio 2012, le restituisce il sublime del suo valore di donna e di “fotografo” dell’autentico. Qui riporta le sue parole: “Non desideravo diventare un fotografo di guerra. Non mi sentivo fatta per quello. Ma ci sono finita perché in guerra succedono cose alle quali sono interessata, che voglio vedere da vicino e voglio raccontare agli altri. Non mi piace la guerra, ma sento il dovere di essere lì e di vedere… Mi ci è voluto un po’ prima di cominciare a scandalizzarmi. Mi sono scandalizzata quando ho capito che la mia presenza, nella maggior parte dei casi, non aveva influenza sui fatti. Quando ho capito che la mia presenza non era particolarmente utile, né tanto meno necessaria, quando ho capito di non essere un taumaturgo della Storia, ho cominciato a guardare quello che accadeva con maggiore compassione, a rimanere più intimamente coinvolta, Mi è sembrato di essere io stessa uno dei protagonisti della tragedia, io stessa una delle vittime di guerra”. E tutto questo le sue fotografie sul dolore sconsiderato delle guerre lo dicono forte.Ad entrare in punta di sguardo nella scrittura fotografica della Boulat possiamo vedere l’attenzione del “fotografo” verso la gente ignuda, ferita, sconvolta di fronte alle situazioni di guerra, specie delle donne… l’attenzione formale, il taglio delle inquadrature, la centralità dei corpi chiamati fuori dal delirio dei fucili e dei cannoni depositano le sue immagini sul sacrario della vita offesa e mostrano alla radice della comunicazione liberata, una ricerca antropologica della libertà posta fra la giustizia e la bellezza come alterità della conoscenza.
Di più. La visione civile che fuoriesce dalle fotografie della Boulat s’addossa ai disvalori della società ingiusta e attraverso la figurazione della verità senza condizioni, ha la capacità di trasformare esistenze martoriate e indifese (dovei colpevoli sono sempre assolti o mai incriminati) in una progettualità onesta della realtà e, in qualche modo, cercare di impedire che il massacro si ripeta.
Le mani dignitose di donne velate afghane che chiedono aiuto, i soldati coni fucili alzati contro il cielo grigio del Kosovo, gli occhi impauriti di vecchie pakistane che gettano il loro sguardo obliquo contro la ferocità della soldataglia… sono attimi di terrore presi con la dolcezza dei forti… si vede, e bene, l’intimità del “fotografo” con l’umanità ferita a morte che ha davanti… qui il bene della comunità è più importante del bene individuale e la vita degli esseri umani è superiore di quella dei governi che fanno della guerra un affare economico. La fotografia della comprensione della Boulat — nella sua solare tenerezza verso gli indifesi — è un grido di sdegno gettato contro il silenzio universale dell’infamia.
Il coraggio della fotografia della Boulat è un canto visuale/architetturale del disagio… le bare semiaperte delle vittime palestinesi protette dalle ombre dei loro cari, la deposizione di un bambino afghano in un lenzuolo bianco tra i familiari sconcertati, il cielo coperto dal nero delle bombe in Iraq, i panni colorati stesi ad asciugare in un villaggio del Marocco, il pianto disperato di una ragazzina di Gaza sopravvissuta a un bombardamento che ha distrutto la casa e ucciso i genitori… bastano a condannare i teatrini quotidiani della politica e la truffalderia servizievole dei media… le immagini dell’autentico della Boulat si attestano sui valori della bellezza anche quando la tragedia diventa rabbia, dismisura, provocazione… nel linguaggio fotografico di questa signora della fotografia di strada si percepisce che la giustizia è l’esatta misura del dovuto ad ogni persona sulla terra. È una fotografia del rispetto dunque, dove il respiro degli ultimi si trascolora in amore e diventa storia.
Nella ritrattistica di guerra della Boulat — ma la fotoreporter va oltre, la supera, la rinnova — c’è tutta la pietà laica che si richiama alla memoria dei padri antichi, alla loro eredità di armonia tra le genti, forse… dove la bellezza è la forma compiuta della giustizia. L’utopia (sogno, cammino a cui tendere) è di quelle grandi… una sorta di atlante figurato sul principio del bene comune…un florilegio passionale, squisitamente amorevole, dove eguaglianza, reciprocità, equità sono opposti alla cattività, alla bruttura, allo scandalo della politica internazionale, responsabile di genocidi e vessazioni contro chi non ha voce né volto e impedisce agli esclusi dell’impero della merce il raggiungimento di una vita felice o una vita buona.
Era bella Alexandra Boulat, e il piacere della bellezza disseminata nelle sue fotografie graffiano la disarmonia della condizione umana. “Il piacere di chi capisce, infatti, non è altro che la percezione della bellezza, dell’ordine, della perfezione” (Gottfried W. von Leibnitz). Detto Meglio: “L’uomo… può vivere senza la scienza e senza il pane, soltanto senza la bellezza non può vivere”(Fëdor M. Dostoevskij). Tutto vero. La fotografia della bellezza della Boulat (dalla cui “lettura” non si esce mai come prima) ha la capacità di illuminare la vita concreta, perché contiene in sé i valori di verità, giustizia e bene comune, i soli che possono orientare la libertà verso i territori sconosciuti dell’amore tra gli uomini. Alle anime delicate non è permessa nessuna giustificazione dell’ingiusto… nel loro intimo c’è la consapevolezza che se la giustizia e la bellezza scompaiono e l’indifferenza e l’arroganza prendono il loro posto, non ha alcun valore che l’umanità sopravviva a se stessa.L’epoca dell’uguaglianza non può che nascere dall’eclissi dello Stato… c’è un tempo per sognare e un tempo per capovolgere, lo stesso tempo! Le rivolte non saranno mai lodate abbastanza per aver denunciato l’orrore della proprietà privata delle idee, le violenze che rappresenta, i terrori dei quali è causa… quando lo sconvolgimento dell’ordine costituito sarà un fatto, l’Utopia diventerà storia dell’intera umanità. Anche la fotografia è da distruggere!, senza perdere mai la tenerezza.
Tratto dal libro di Pino Bertelli “La Fotografia ribelle”
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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