IV. Il cinema della disperanza di Elio Ruffo
Il cinema della disperanza di Elio Ruffo è elaborato su una poetica del risarcimento o più ancora della disobbedienza e della solidarietà… un cinema della sofferenza dunque, che non teme di trasfigurare le soggezioni e le ricette mafiose della propria terra… e attraverso la defascinazione del potere, travolgere lo scetticismo popolare in rovesciamento di prospettiva della realtà… un sentimento dell’irreparabile o dell’impossibile che diventa possibile con la fine dell’asservimento e la presa di coscienza dell’immaginario individuale e sociale. All’artista di genio non importa d’essere schiavo del consenso, poiché non è servo di nessuno e fa della propria opera un coacervo di emozioni che incrinano tutti i campionari dei sistemi di speranza. Non ha niente da dire a nessuno o forse a tutti coloro che hanno compreso che l’inefficienza degli angeli s’identifica con il linguaggio della coppola… si possono amare soltanto quelli che hanno spaccato l’universo morale di mafie, stato, chiesa, saperi e il linguaggio di polizia, deriso i fautori dell’intolleranza e sotterrato il cadavere olezzante della società
della sottomissione.
La filmografia sulla Calabria è densa di lavori contraddittori, sovente ambigui, quando non deprimenti… d’infilata… Patto col diavolo (1949) di Luigi Chiarini, Il lupo della Sila (1949) di Duilio Coletti, Il tenente Giorgio (1952) di Raffaello Matarazzo, Il brigante Musolino (1950) di Renato Castellani, Il brigante di Tacca del Lupo (1952) di Pietro Germi… figurano l’aspetto calligrafo, oleografico o quantomai ipocrita della realtà calabrese… in parte Germi riesce a figurare la “saggezza infelice” della povera gente ma non si sottrae a dare ai soldati piemontesi un’aura di dignità che non avevano (come l’onore delle armi ai briganti uccisi). C’è qualcosa di meglio del meridionalismo raccontato dalla cultura del restauro ed è la fine della messa in scena e delle sue cerimonie, un’estetica del rifiuto d’accettare una piaga storica che si oppone al negativo che la giustifica o la cela.
La ritrattistica un po’ naturalista di Un ragazzo di Calabria (1987) di Luigi Comencini, Il ladro di bambini (1992) di Gianni Amelio, Il male oscuro (1990) di Mario Monicelli… contiene un certo spessore figurativo, inciso in una certa curiosità provinciale… nell’infioramento della disaffiliazione calabrese o altre mitologia familistiche, s’avvertono scene di caccia annunciata… quando si ha la scortesia di essere in attiguità con i patimenti sociali, non si deve dimenticare nessuna umiliazione. I delitti d’illusione del cinema italiano sono più gravi di quelli dei Vangeli… poiché non si richiamano alla libertà, ma all’illusione della libertà. Non c’è nulla di meglio di un film, anche sgrammaticato, per aiutare a capire che oltre le formule definitive ci sono schegge di disobbedienza che abbreviano l’afflizione delle genti e innestano riserve di detestazione dell’ordine istituito.
C’è anche una filmografia calabrese percorsa sovente da un realismo crudo, intarsiato di manicheismi storici o cronachistici… Anime nere (2014) di Francesco Murzi, A Ciambra (2017) di Jonas Carpignano, Il Conte di Melissa (2000) di Maurizio Anania, Noi credevamo (2010) di Mario Martone, Aspromonte – La terra degli ultimi (2019) e Romanzo radicale (2022) di Mimmo Colapresti, Una femmina (2022) di Francesco Costabile… cercano di decifrare la fatalità di predazioni culturali, mafiose, familiari che puzzano di fede… ma non ci può essere grandezza se non laddove gli artisti bruciano il culto dell’inutile… sovversivo è solo quello spirito libertario che si oppone all’obbligo di obbedire… tutti gli altri scendono a patti con l’autorità costituita. I bassi sentimentalismi senza amarezza di Domani (1974) di Mimmo Raffaele, Pazzo d’amore (1999) di Mariano Laurenti, I fetentoni (1999) di Alessandro Di Robilant, Aspromonte (2012) di Hedy Krissane, Padrenostro (2020) di Claudio Noce, L’afide e la formica (2021) di Mario Vitale, Io e mio fratello (2023) di Luca Lucini, Vederti ballare (2012) di Nicola Deorsola… non vanno oltre la ricerca della comune approvazione, sono del tutto sganciati dalla verità e abbandonati all’acquiescenza televisiva… la creatività dell’uomo di talento sta nella configurazione dei perseguitati e dei rabboccati, liberati dalla tristezza e dall’unidimensionalità… lavorare al superamento di uno stile senza contenuti che evita la verità come la peste. Non si fa cultura come si respira né come si mangia… l’aver compreso d’essere emarginati, ignorati o vilipesi, sta nell’aver capito che alle radici delle passioni improprie c’è l’impazienza di squinternare la compiacenza e la progenie d’ogni fanatismo.
La sequela d’imbecillità di Qualunquemente (2011), Tutto tutto niente niente (2012), Cetto c’è, senzadubbiamente (2019) di Guido Manfredonia, adombra o rifiuta l’origine delle sofferenze del Sud… un popolo di schiavi, umiliati, bastonati dal potere della politica, della chiesa, della baronia, delle mafie, tenuti da sempre sotto il tallone dello Stato. Antonio Albanese fa il mattatore… e quel gioco al rialzo del meridionale cafone, ridicolo, approfittatore, comunque sempre un po’ mafioso, credo rechi più dispregio al meridione e sommerga le ferite perenni nelle risate del pubblico nordista al quale mira. Si cade nella maniera come nel cappio del suicida che si stringe al collo o l’inchiodato sulla croce, per avere un momento di celebrità, che è una forma d’idiozia conclamata. Il bisogno di gloria s’insinua in ogni artista che dice — “la mia arte vuol dire questo o quello”! —… la verità dell’arte che non distrugge il sistema di simulacri che la incensa, non è verità, è solo il suo surrogato. Alla stupidità non c’è mai fine e Quo vado? (2016) di Gennaro Nunziante, tocca istanti di ebetismo o irrisorietà che fanno sobbalzare anche l’ultimo degli asini entrati per caso in un cinema, una chiesa o un parlamento… la crocifissione di Cristo mi fa più ridere dell’impiccagione di un dittatore issato per i piedi a un distribuzione di benzina… poiché sono icone che non sono riuscite a sottrarsi alla fama né alla pretesa attualità delle loro imposture… tutti gli scimuniti hanno ragione… considerano eretico chiunque non abbia convinzioni religiose o guerrafondaie che armano i sublimatori dei carnai.
Fare il comico non sembra la professione di Checco Zalone… semmai potrebbe essere un buon cameriere o un portinaio senza elevate pretese di comunicazione, se non quella della delazione (sotto il fascismo i portinai era i primi inservienti della polizia segreta)… poiché Zalone non sa che i guitti della commedia dell’arte facevano dell’imperfezione la prossimità di epoche sincere e come i buffoni di Shakespeare ballavano sulla testa dei re, quando non cospiravano alla sua soppressione… Zalone si rivolge allo stupidario dell’uomo dei corte che concilia il becero con l’ineleganza del mercato… costruire una comicità carognesca, significa esprimere giudizi morali ed ergersi a censore o puttana che vaga sui marciapiedi del consenso, niente più! Parassiti, amministratori, artisti mancati sono della medesima razza dei saprofiti politici e contribuiscono all’espansione del servaggio in un popolo al quale è stato proibito di avere opinioni.
Di contro… Scarpetta, Totò, Vittorio De Sica, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi, Paolo Villaggio, Aldo Fabrizi, Alberto Sordi, i fratelli De Filippo, Paolo Rossi, Dario Fo… hanno mostrato che la comicità è finita quando smette di generare eresie. Il Sud di Zalone è intriso d’una bontà corrotta in una provvidenza decapitata, destinata al botteghino soltanto… ed è la medesima ossessione del parvenu che è rimasto a metà strada tra l’elaborazione segreta della risata e il manuale della santa insipienza. Petrolini, Rascel, Dapporto, Macario, Benigni, Troisi, Proietti, Verdone, Bisio, Abatantuono, Banfi, Grillo, Pieraccioni, Ceccherini, Ciccio e Franco… hanno castrato la comicità lungo un secolo senza comprendere che a ogni comico occorre un minimo di nichilismo, pena l’imbecillità. Darei tutti i comici della Terra per Buster Keaton, Charlot o Stanlio e Ollio, poiché come Puccini, Bach o Händel hanno fatto della propria vita un’opera d’arte.
Non c’è cinema di genio senza una forte dose di eresia… il cinema della disperanza ha toccato anche in profondità le anime atrabiliari (malinconiche) della Calabria tutta… e basta vedere (alla rinfusa) e nelle loro differenze strutturali, poetiche, architetturali — Tempo d’amarsi (1955) e Una rete piena di sabbia (1966) di Elio Ruffo, I dimenticati (1959) e In Calabria (1993) di Vittorio De Seta, Donne di Bagnare (1959) e La Madonna del Pollino (1971) di Luigi Di Gianni, La corsa dell’innocente (1992) di Carlo Calei, Andata e ritorno (1995) di Daniele Segre, Tommaso Campanella, la forza dell’utopia (1994), Corrado Alvaro, la poetica del segreto e del mito (1994), Saverio Strati – Parole come pietre (1994) e I colori del cielo (2017) di Francesco Mazza, Un paese di Calabria (2016) di Catherine Catella, Terrarossa (2001) di Giorgio Molteni, Il buco (2021) di Michelangelo Frammartino —… per conoscere, toccare, riflettere sulla disperanza del popolo calabrese (che è poi la medesima di tutti i Sud della Terra). Alcuni di questi film hanno fatto capire che non si può accettare di buon grado la schiavitù, l’indigenza, la sottomissione e mostrato che ovunque l’ingegno ha bisogno di passioni, di desideri, di utopie che portano al ribaltamento di ogni forma di dominio.
La disperanza qui è tuttavia buttata fuori dal concetto enciclopedico — “stato di chi è privo di speranza” —, ma si riflette nell’accezione di speranza che muove da una condizione di disperazione e attraverso il contrasto, il rancore o la volontà di mutare la realtà delle cose, infonde l’anelito incurabile di un nuovo inizio. Una sorta di fierezza arcaica che non aderisce a nessun fervore religioso, ideologico o feudale e fa della sprezzanza soggettiva il rifiuto della subordinazione. Qualcosa che s’intreccia anche alla restanza, cioè la rinuncia a recidere il legame con la propria terra non per rassegnazione, ma con un atteggiamento di progresso, come spiega bene Vito Teti nel suo pregevole libro, La restanza (25) . Una visione antropologica del restare come reazione alla paura, alla fuga e alla sfiducia collettiva… nel 2012, il 46° Rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale del Paese, indicava le tre grandi spinte di riappropriazione della propria esistenza nel — resistere facendo perno sulla “restanza”, esaltare la “differenza” degli atteggiamenti e dei comportamenti, operare un continuo “riposizionamento” delle presenze e delle azioni — (26) … alimentare l’istinto di sopravvivenza che porta non solo a resistere, a valorizzare la restanza, ma propendere al differire dai processi di condizionamento sociale imposti dalle forze dominanti.
(25) Vito Teti, La restanza, Einaudi, 2022
(26) Censis , 46° Rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale del Paese, Franco Angeli, 2012
In questo senso la “restanza” s’addossa al disincanto della differànce di Derrida, tesa a “focalizzare l’attenzione sul carattere dinamico della differenza, irriducibile condizione di possibilità della presenza, dell’identità” (27), e attraverso la decostruzione del campo concettuale stabilito che governa la sorte dell’uomo, aprire fenditure nel corpo sociale, smascherare le proprietà ideologiche, sacrali, feudali e mettere in discussione l’autorità, denunciare la colonizzazione della povertà, della subalternità, dell’instabilità, del razzismo, della migrazione forzata… nella “restanza” dunque c’è un richiamo alla differànce, l’emersione dall’impegno personale come valore identitario che s’innerva nei percorsi produttivi e in una dialettica sociopolitica che combatte le inadeguatezze amministrative e organizzative dello Stato.
(27) Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, 1971
Il cinema della disperanza riesce a cogliere frammenti d’esistenza d’una terra e delle genti che vivono, soffrono, subiscono le mascherature delle proprie sconfitte e qualche volta di ribellioni che affermano il diritto a una vita meno feroce. Si tratta di far cadere i veti per mezzo dei quali gli untori dell’oscurantismo assicurano il loro potere… foss’anche l’ultimo degli uomini, occorre non riconoscere a nessuno il diritto di giudicare la scelta dell’individuo a non servire mai più e disporre della propria sovranità per innescare l’ammutinamento contro i funzionari, i collaborazionisti e gli agenti del pensiero organizzato nella dialettica padroneservo Mi sembra inconcepibile per un uomo che si rispetti possa essere rassicurato come il
cane con la zuppa… meglio passeggiare nell’ora delle puttane e degli spazzini o bere del vino cattivo con un barbone sul bordo della strada… almeno nessuno si sente predestinato alla salvezza o alla dannazione della simulazione… né danno lezioni di smarrimento. Insieme agli squalificati della società, sono i soli che si portano addosso l’aroma della presenza struccata.
Il cinema della disperanza di Elio Ruffo, nella sua estrema semplicità, a ben vedere però non è così semplice come sembra a una prima visione… è un contenitore di segni, parole, visioni che rendono la realtà più reale dell’elevazione spirituale della povertà infusa delle chiese e dai partiti negli anfiteatri feudali della Calabria da sempre… l’obbedienza sarà ricompensata con indicibili beatitudini e i castighi sono frutto della miscredenza soltanto, poiché tramite l’affiliazione alla mafia, alla religione, alla politica, ciascuno si fa coro di una predicazione che cura e ammala, che allatta e avvelena, che spezza e tritura… ma non come la femmina agabbadòra sarda che s’incarica di portare la morte alle persone prossime alla fine… piuttosto come pratica di scomunica e di pena verso quanti mostrano essere una minaccia per l’esercizio del potere.
Nelle sommatorie del cinema italiano, alla filmografia di Ruffo sono riservate poche righe, sovente di maniera… in alcuni casi si comprende bene che il critico/storico non ha visto il film di cui parla… il lavoro di ricerca, Tempo di cinema. Elio Ruffo, a cura di Eugenio Attanasio, Mariarosaria Donato, Domenico Levato, Giovanni Scarfò (28), riporta in luce le sorgenti etiche/estetiche di Ruffo e dischiuso la rilettura delle sue opere a quanti non accettano gli editti di tolleranza… la critica dimentica troppo in fretta che il cinema trasversale è sempre stato istintivamente dalla parte dei perdenti o delle genti apertamente condannate o a fianco di utopie, anche quando sembravano irraggiungibili. Non riconciliati, o solo violenza aiuta, dove violenza regna (1965) Jean-Marie Straub, diceva… il vero, il giusto, il buono bisogna trovarlo in se stessi, non altrove. L’indignazione viene subito dopo la miscredenza e solo l’uomo in rivolta mi sembra il tipo umano più completo, poiché sa che “la bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza” (Albert Camus) (29). Lo spirito di rivolta è possibile solo negli uomini in cui l’uguaglianza è il primo vagito della libertà e consiste nell’amare l’uomo che non esiste ancora ma lotta per la comunità che viene.
(28) Tempo di cinema. Elio Ruffo, a cura di Eugenio Attanasio, Mariarosaria Donato, Domenico Levato, Giovanni Scarfò, Cineteca della Calabria, 2015
(29)Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, 1986
Un’annotazione a margine. Non riconciliati, o solo violenza aiuta, dove violenza regna è tratto dal romanzo Biliardo alle nove e mezzo (1959) di Heinrich Böll, premio Nobel per la letteratura 1972… autore robusto, anche controverso, che abbiamo amato non solo per i suoi romanzi, Opinioni di un clown (1963), Foto di gruppo con signora (1972), L’onore perduto di Katharina Blum o Come la violenza può svilupparsi e dove può portare (1975)… ma anche per la sensibilità umanitaria verso la terrorista della RAF, Ulrike Meinhof (suicidata per impiccagione alle sbarre della finestra della sua cella nel 1976) ed espresso una feroce critica alla politica repressiva del governo tedesco.
Il film di Straub, dicevamo… autoprodotto (con l’aiuto di una raccolta fondi tra gli amici, tra cui Jean-Luc Godard), sceneggiato dal regista e dalla compagna Danièle Huillet, interpretato da attori non professionisti e girato in presa diretta… non suscitò consensi di critica né di pubblico in Germania… la critica radicale di Straub alla borghesia nazista non fu compresa o compresa bene… tanto che l’editore di Böll, Joseph Caspar Witsch, chiese la distruzione della pellicole e il blocco delle proiezioni… i Cahiers du cinéma invece ravvisarono nel film elementi sovversivi della sofferenza umana ed elevarono Straub al rango di autori come Fritz Lang e Carl Th. Dreyer… ecco… a volte ci sono autori spesso non amati o disconosciuti da critica e pubblico, che non temono di cadere nell’irriverenza o nel dissenso, sperimentatori senza predilezione al consenso, come Hans-Jürgen Syberberg, Alexander Kluge, Werner Herzog, Marguerite Duras o Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi… che hanno scoperchiato i sepolcri della cinema mercatale e mostrato le fosse comuni della civiltà dello spettacolo. Va detto. Il cinema in forma di poesia è un pensare per figure e la narrazione passa in secondo piano rispetto ai volti, ai corpi, agli sguardi… l’attorialità è piegata al servizio dell’idea e la storia è spogliata della sua veste per diventare immagine/specchio di un reale che distrugge il falso e l’infila nei pisciatoi dell’arte… Carl Th. Dreyer, Friedrich Wilhelm Murnau, Georg W. Pabst, Sergej M. Ėjzenštejn, Dziga Vertov, Jean Renoir, Jean Vigo, Luis Buñuel, Jean-Luc Godard, John Cassavetes, Werner Herzog, Roberto Rossellini, Carmelo Bene, Pier Paolo Pasolini… hanno fatto un cinema per figure e mostrato che ogni sistema di potere, è anche, e prima di tutto, un sistema di pensiero… distrutti gli altari del linguaggio mercatale della felice ignoranza, si sono presi la briga di obbedire alle proprie passioni e passare alla decapitazione di un certo numero di trivialità, oscenità, volgarità e come il ciabattino analfabeta che fece la rivoluzione francese, disse: “Intanto cominciamo col collo della regina, poi vedremo!”, e piantò una bulletta sulla testa del giovane figlio di Luigi XVI e Maria Antonia Giuseppa Giovanna d’Asburgo-Lorena (Maria Antonietta), Luigi XVII… si chiamava Antoine Simon… non è vero… è solo un pensare per figure… il piccolo Luigi XVII muore di tubercolosi a soli dieci anni… la madre cessa di mangiare brioche il 16 ottobre 1793. Il marito, Luigi XVI di Borbone era stato ghigliottinato il 21 gennaio 1793, due volte… poiché il boia Charles-Henri Sanson aveva posizionato un po’ male il condannato… lo spettacolo fu regale… i capelli, le vesti e il sangue del re andarono a ruba… lo spettacolo non delude mai la folla… a proposito, il ciabattino Simon è stato davvero il custode di Luigi XVII alla Torre del Tempio… nel 1794 era tra i ventuno giacobini inviati alla ghigliottina in Place de la Concorde a Parigi… la stessa che taglierà la testa a Robespierre e a Saint-Just, e anche alla rivoluzione.
Cazzo mi sono perso… ancora una volta… a forza di digressioni si può anche morire da ridere… mi succede sempre poiché chi pensa per figure insegue la falce che trancia le nuvole in tempesta per vedere i raggi del sole e nelle onde ammutinate della pagina, diceva uno dei miei cattivi maestri (Edmond Jabès), negare l’eternità di Dio, dello Stato e di ogni forma di totalitarismo… tanti persecutori e tanti suppliziati ci passano negli occhi e ci è impossibile riconciliare l’impostura di una minoranza di arricchiti con la ricerca della libertà del maggior numero… il potere seppellisce la libertà nella resurrezione promessa e i popoli sono confinati nei comandamenti, nelle cadute o nell’esilio.
Il cinema della disperanza di Ruffo è fatto sul ciglio della strada, nei fossi, nei boschi, nelle pietre di Calabria… è un cinema di calpestati e di risorti dove l’oltraggio è anche il riflesso di una rinascita… l’amore di Ruffo per i calabresi si erge là dove l’amore in rivolta chiama… il cinema per figure di Ruffo, lo ribadiamo, afferra l’eterno che cammina sulle fiumare di Calabria per sfociare in un altro mare, quello della speranza che non chiude il film della vita ma lo innalza fuori dalla cultura truccata… riesce a toccare l’anima della Calabria e restituire attraverso immagini incisive, traboccanti di dolente umanità, il carattere veritiero di una regione che non è solo malaffare, ma anche rizomario di destini che si ribellano al tozzo di pane, iscritti sulle facce, i comportamenti, gli sguardi di un popolo tenuto nella sofferenza e nell’umiliazione. Ruffo ha attizzato le ferite sociali, i tumulti del cuore, la coscienza che viene dalla cultura grecanica che molti vogliono disconoscere… il vissuto diretto di genti trasfigurate dalla mediocrazia in un sottoprodotto figurativo che li condanna senza riscatto… relegati alla miseria, alla volgarità e alla desolazione. Vero niente. Ci sono pastori nemmeno alfabetizzati che sanno e sanno Dante a memoria o donne dal sorriso sdentato che cantano con devozione le gesta dei padri… persone che fraseggiano saggezze popolari o dispensano silenzi di stupefazione e sconcerto d’una felicità brada, mai perduta. Sono gli eredi “inconosciuti” di Bernardino Telesio, Gioacchino da Fiore, Gregorio Caloprese, Filippo di Media, Cassiodoro, Pitagora, Tommaso Campanella… filosofi, scienziati, letterati (nati o venuti in Calabria) che hanno influenzato nei secoli i movimenti insorgenti del mondo, e come sosteneva Gioacchino da Fiore, occorre l’Apocalisse di una novella rivelazione per costruire una società in armonia tra gli uomini (30).
(30) Terzo Regno. I filosofi, a cura di Francesco Mazza, Cinesud, 2023
Sono pensatori che scagliano le parole come pietre nell’immaginario sociale e dicono che non c’è felicità se non nell’innocenza e nella volontà di cambiare la vita quotidiana: Finché resterà in piedi un solo re, tiranno, generale, papa, financo l’ultimo dei banchieri, il compito dell’uomo non sarà finito. Il cinema della disperanza di Ruffo si dipana nei documentari — S.O.S. Africo (1949), Gente del Sud (1950), Monte di Pietà (1960), Il bosco dei cavalli selvaggi (anni ‘60), Gerace (anni ‘60) e nei lungometraggi Tempo d’amarsi (1955) e Una rete piena di sabbia (1966) —.
Le immagini brumose, scarne, essenziali di Ruffo rimandano a una sorta di realismo meridiano (antiletterario e antipittorico) dove si avverte il dolore come rifioritura della conoscenza… le sue immagini-segniche sembrano scolpite nella pietra e contenere ciò che diceva l’Ecclesia ste: “Non ascoltate”, ma “ascoltiamo” (31).
(31) Qohélet. Colui che prende la parola, versione e commenti di Guido Ceronetti, Adelphi, 2001
La filmografia del disinganno di Ruffo mostra che le persone semplici, foss’anche analfabete, hanno spesso intuizioni che un letterato nemmeno
si sogna, perché il punto di partenza è il loro vissuto, non le nomenclature dei libri! L’uomo del disinganno ama qualcuno non per i suoi successi ma per le sue sconfitte. Le immagini del regista calabrese fanno a meno della consolazione divina, scavano ferite nel corpo sociale e ne provocano altre che rappresentano un pericolo… quello dell’insorgenza delle genti dal fato imposto… è la bellezza dell’autenticità che dispensa da ogni illusione, incrina la tristezza d’una condizione sociale e fa della giustizia un inizio di realtà.
I documentari (che abbiamo potuto reperire) — S.O.S. Africo, Il Monte di Pietà, Il bosco dei cavalli selvaggi, Gerace —… sono percorsi da una disperata lucidità creativa, da una dolorosa violenza, da un tumulto iconografico dove si avverte che i veri quesiti della vita hanno poco a che fare con le fedi, le ideologie, i saperi… si tratta di vedere con il cuore e fare di un coacervo di lamenti, un immenso fuoco purificatorio, poiché in nome di miserie ancestrali, tutto è permesso! Ruffo non lo dice così, ma questo sottende… ciò che mette sullo schermo è la scomparsa di una civiltà o l’estromissione, l’emarginazione, la costrizione di un mondo a perdere mangiato dai falsi miti della modernità… per il Diavolo… le religione monoteiste, le ideologie totalitarie o il capitalismo parassita/guerrafondaio della civiltà dello spettacolo, si sono camuffati sotto l’idioma, privo di stile, “progresso”… che è stato ed è la “camicia di forza” nella quale sono stati costretti da sempre i popoli saccheggiati, violentati e impoveriti.
Non si tratta di spiegare né dimostrare nulla delle cattività dei potenti… perché tutti i sistemi economici-politici-religiosi sono sempre stati complici dei regimi tirannici… occorre mettere fine alla sopportazione e passare alla de-fascinazione della storia… sabotare i precetti e i condizionamenti della ragione unica e attentare all’idea di sistema, qualunque sia! Respingere la rassegnazione come asfissia del rinnovarsi e rinnegare, respingere, lottare per il superamento della propria condizione significa abbattere idoli, miti, vessilli, senza sostituirli con dei nuovi. Una volta acquisita la coscienza di sé (il superamento di propri limiti e l’amore per la libertà e la fraternità), negare i medicamenti dell’ordine rappresentativo a favore di una società partecipativa, può inferire sulla bruttezza del protezionismo istituzionale/padronale/mafioso, agitare la tempesta della verità e dare inizio a un rivolgimento sociale.
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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