“Un uomo ha diritto di guardare un altro uomo dall’alto soltanto per aiutarlo ad alzarsi… la fotografia viene dopo… e questo vale anche per quei fotografi che fanno morire un bambino d’inedia, lo lasciano in pasto a un avvoltoio ed incassano il premio Pulitzer” [fortunatamente il bambino si è salvato, il fotografo in un attimo di lucidità creativa si è chiamato fuori dalla vita un po’ di tempo dopo…].
Dal Taccuino di un fotografo di strada
Sul conte-fotografo della Belle Epoque
Sotto ogni corona (anche quella di spine), lo dice la storia scritta da quanti la storia non ha ammazzato… giacciono cumuli di cadaveri o ribelli che volevano farla finita con l’arroganza tipica di re, regine, principi, generali, politici, prelati, banchieri (proletari sindacalizzati, anche)… responsabili di secolari miserie con le quali queste abiette figure hanno tenuto a catena interi popoli… c’è da dire che qualche volta i popoli sono insorti e hanno dato loro la sorte che meritavano.
Tuttavia è sempre stato poca cosa… la tabula rasa della nobiltà divinizzata, delle chiese monoteiste, delle cosche della politica, della finanza e dei loro servi sciocchi… è stata solo rimandata a tempi migliori. I miserabili restano miserabili anche da blasonati, primi ministri o sul pulpito dell’uomo di bianco vestito che ride di tutto come uno scemo. Non ci sono eroi né miti per i propri camerieri (Goethe, diceva)… solo piccoli uomini che non sanno nemmeno accendere un fornello del gas… ma bene sanno ingannare le folle che li osannano e confondono il culto della carogna con lo stile fanatico dei profeti. L’ideologia storica della rassegnazione è tutta qui. Porca puttana ladra!… come non sapere che al vertice dello stupore non ci sono che due constatazioni per raggiungere un mondo nuovo: la pedagogia della disobbedienza o la filosofia della rivolta. Cioè fare della propria esistenza un’arte di vivere e respingere dappertutto l’infelicità.
La fotografia come “arte di vivere” è sempre stata dispensata ai rampolli della nobiltà, della borghesia, della pretaglia o agli stupidi di tutte le fazioni culturali, politiche e amatoriali della società consumerista… tutti insieme spudoratamente per l’avvento di una fotografia utilitaristica che possa accedere al più alto dei cieli, quello della merce. Tutti artisti e tutti in attesa spasmodica di entrare in società danzando nella scatola televisiva. Che bello!
A ciascuno la sua incoronazione e per tutti si aprono gli scaffali della cultura da centri commerciali.
Peccato che questi dissennati del mezzo fotografico (più o meno sdoganati dal mercato) non si accorgono né sanno che il bene supremo risiede nella maggiore felicità per il maggior numero e che la felicità degli altri costituisce la propria.
La sola morale che ogni arte sottende è quella di fare ciò che un artista ritiene giusto e quello che fa va fatto in amore per l’umanità dolente.
La fotografia dilettantesca del conte Primoli, detto “Gégé” per gli amici… si dispiega tra la fine dell’800 ai primi anni ’20… le immagini del distinto protagonista della vita mondana (che pratica fino alla morte) del “bel tempo”, figurano una cartografia estetizzante di ricchi, intellettuali e poveri di passaggio… “Gégé” inventaria dame a cavallo, signori con bastone e cappello, atleti, scrittori, attrici, dandy, lustrascarpe, gite in barca, spiagge, pubblicità, palazzi… perfino Buffalo Bill che cavalca in una piazza di Roma. Il colonnello più sopravvalutato del selvaggio West non mancò di fare visita a papa Leone XIII, fece un ingresso trionfale in Vaticano alla testa di un corteo composto da duecento attori… indiani Sioux e cowboy domestici del Wild West Show fecero la loro bella figura e per tutto il tempo che il circo restò a Roma i salotti-bene si contesero Buffalo Bill… quando partì alla volta di Firenze lasciò un vuoto profondo tanto nelle tavole delle gentildonne, quanto nelle mense aziendali. Il mito è sempre inferiore al dolore che disprezza e banalizza la tragica verità del reale.
Nelle sitografie che riguardano Giuseppe Primoli si legge: «Il conte Giuseppe Napoleone Primoli (Roma, 2 maggio 1851 – 13 giugno 1927) si sentiva egualmente romano e francese, ma soprattutto un napoleonide. Sua madre Carlotta (1832-1901), che aveva sposato il 4 ottobre 1848 Pietro Primoli, conte di Foglia (1820-1883), era figlia di Carlo Luciano Bonaparte (figlio di Luciano, principe di Canino) e di Zenaide Bonaparte (figlia di Giuseppe re di Napoli e poi di Spagna). Seguì gli studi a Parigi (dove la sua famiglia si era trasferita dal 1853, e dove rimase fino al 1870), nel Collegio Rollin; fin da ragazzo frequentò assiduamente la corte di Napoleone III, legandosi specialmente all’Imperatrice Eugenia e al principe imperiale Napoleone Eugenio.
La sua educazione francese si rafforzò e si affinò durante i frequenti e lunghi soggiorni che, anche dopo il suo ritorno a Roma, fece a Parigi fino ai suoi ultimi anni di vita. A Parigi aveva un suo appartamento, in Avenue du Trocadéro, ma frequentava molto spesso il salotto della zia, principessa Mathilde Bonaparte, in Rue de Berry o, d’estate, nella tenuta di Saint-Gratien. Lì ebbe modo di incontrare tutti o quasi gli scrittori e i poeti più celebri del tempo (Ernest Renan, Théophile Gautier, i Goncourt, François Coppée), e stringendo amicizia con molti di loro. D’altra parte, a Roma, oltre all’alta società di cui fu personaggio di spicco per le sue doti di conversatore colto e spiritoso, frequentò anche gli ambienti letterari che gravitavano intorno alla rivista “La cronaca bizantina” e al giornale “Il capitan Fracassa”: divenne amico di Enrico Nencioni, di Cesare Pascarella, di Arrigo Boito, di Giacosa; fu amico, confidente e consigliere ascoltato di D’Annunzio.
Questa sua intensa vita mondana, insieme con la sua grande abilità di fotografo, e di bibliofilo, di collezionista, di stendhaliano, ne fecero un raffinato dilettante più che un letterato. Egli ebbe certamente più gusto di lettore che talento di scrittore, anche se le poche cose da lui pubblicate risultano tutt’altro che mediocri.
Ma soprattutto ne fecero un eccellente “intermediario” fra la cultura francese e quella italiana, un punto di riferimento in Francia per gli scrittori e artisti italiani, con cui fu legato (Verga, Serao, D’Annunzio, Eleonora Duse, fra gli altri), e a Roma per gli scrittori e artisti francesi, che spesso ospitava nel suo Palazzo (Guy de Maupassant, Paul Bourget, Alexandre Dumas fils, Sarah Bernhardt).
Divenne, nella Parigi della Belle Epoque, e nella Roma “bizantina”, il notissimo “Gégé” per i tanti amici più o meno interessati, perché egli fu anche, a suo modo, un “mecenate”, pronto a soccorrere giovani talenti e vecchie celebrità. Inoltre, il suo gusto e le sue possibilità finanziarie, gli permisero di collezionare nel suo Palazzo romano di Via Zanardelli (da lui fatto restaurare e ampliare, nel 1904-1911, dall’architetto Raffaello Ojetti), una quantità enorme di libri rari, di quadri, di statue, di suppellettili, di reperti archeologici, privilegiando anche qui tutto ciò che riguardasse la sua ramificatissima famiglia materna, dal I al II Impero. Ed è dunque per tutte queste ragioni, genealogiche, e affettive, che egli, con il suo testamento, dispose che nel suo Palazzo venisse costituita una Fondazione, con la sua Biblioteca. Al tempo stesso dispose che in una parte del piano terreno venisse costituito, con tutti i suoi quadri, mobili, arredi, documenti, un Museo Napoleonico, ceduto, dopo la sua morte, al Comune di Roma, che tuttora lo amministra.
Il conte Primoli collaborò, con alcuni articoli di carattere storico-letterario, e con suoi ricordi su personaggi della sua famiglia, a vari giornali e riviste, francesi e italiani: “La Revue Hebdomadaire”; “Revue des Deux Mondes”; “Revue de Paris”; “Napoléon, Revue des Études Napoléoniennes”; “Conférencia”; “Carità e Lavoro”; “Il Fanfulla della Domenica”. Pubblicò un breve libro soltanto: Une promenade dans Rome sur le traces de Stendhal – Paris, Champion 1922 -, e scrisse la prefazione alle Lettres inédites de Flaubert à la princesse Mathilde – Paris, Conard 1927. Notevole è la pubblicazione postuma: Joseph-Napoléon Primoli, Pages inédites. Recueillies, présentées et annotées par Marcello Spaziani, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1959 (che contiene molti ed ampi estratti del suo Journal)»1.
1 In Rete sono tante le biografie del conte Giuseppe Primoli, seguite da attestazioni di stima intellettuale, citazioni colte, affermazioni sacrali sul suo fare-fotografia… ci rendiamo conto che la nostra lettura di questo monumento della storiografia fotografica, non solo italiana, molto diverge dall’inclinazione dominante all’instaurazione del santo e nelle immagini del buon “Gégé” vediamo invece l’elogio della patria, di Dio, della famiglia (borghese), della ricchezza, del dominio dell’uomo sull’uomo… i poveri sono solo una tappezzeria necessaria o un passatempo domenicale che bene vengono in fotografia, specie per i loro vestiti stracciati… l’immaginario fotografico del conte Primoli è una lavanderia dei soprusi di una classe (quella “nobile”) sugli ultimi, gli indifesi, gli svantaggiati… la superficialità, come la stupidità, ha sempre una sua giustificazione nell’economia della vita violentata, assoggettata o rapinata. Quando uno è troppo ricco, mio padre, diceva, vuol dire che ciò che ha l’ha rubato a un altro.
Di fronte a tanta storia nobiliare si resta atterriti… dittatori, re, regine, generali, scrittori di fama mondiale attraversano l’esistenza di questo dilettante in tutto e la fotografia, che è uno strumento per iloti e geni incompresi, non poteva non entrare nelle lunghe giornate annoiate di questo dandy senza il tragico di Baudelaire, la genialità di Wilde o la follia di Artaud… chi non sa dire grazie e non si toglie il cappello davanti a chi non ha voce né volto, non merita favori. Là dove l’umanità è in cammino il diritto alla felicità non può essere di una sola classe ma del maggior numero e solo chi ha veramente vissuto il sangue dei giorni una volta rivivrà e conoscerà l’innocenza del divenire.
Sulla fotografia della nobiltà in naftalina
L’uso mercantile della fotografia presuppone l’infeudamento del sapere e aderisce al negativo che la abita. La fotografia (come ogni arte) che ha cessato di resistere deve essere sconfitta, sostituita da un’altra che resisterà. Il fotografo libertario mostra un atteggiamento, un comportamento, un modo di essere, un temperamento… fotografare il Vero, l’Autentico, il Bello vuol dire conoscere il dispendio dell’uguaglianza, dalla fraternità, dall’accoglienza e compiere il percorso creativo che porta alla libertà e al godimento di sé, passare da una fotografia di resistenza a una fotografia d’insubordinazione. “L’angelo della rivoluzione, più che mai necessario, è dimentico di costoro, dei dannati, dei reprobi e degli schiavi per i quali, ancora e sempre, occorre ricordare la necessità di una mistica di sinistra che ispiri afflati, desti energie, rafforzi refoli per farne tempeste” (Michel Onfray)2. La religione del Borsa va respinta, insieme ai moralismi di ogni epoca… siate decisi e non servire più e sarete liberi.
2 Michel Onfray, La politica del ribelle. Trattato di resistenza e insubordinazione, Fazi Editore, Roma 2008
A studiare con la necessaria attenzione la fotografia di “Gégé” Primoli non è difficile scorgere le “virtù” di una dinastia di serpi annidiate nelle “teste coronate” della vecchia Europa e denudare la sua visione consolatoria della Belle Epoque, franata sotto i milioni di morti della prima guerra mondiale e la restaurazione del potere con la medesima ferocia di sempre, compresa la rivoluzione d’Ottobre del ’17, quando Lenin e Trockij inviarono l’Armata Rossa (guidata da Michail Tuchačevskij, fucilato poi dagli sgherri di Stalin nel 1937) a massacrare gli insorti di Kronštadt, colpevoli di aver proclamato la nascita della Repubblica di Kronštadt su basi federative o anarco-comuniste. Correva l’anno 1921.
Il buon “Gégé” fotografa l’attorialità del privilegio e qua e là s’accosta al quadretto popolare, così, per diletto o curiosità verso quanti non avevano nemmeno un pezzo di pane da buttare sulla tavola. Mette sotto naftalina (nello zuccherificio della ragione) i ricchi e lascia i poveri nell’immondezzaio della storia, senza sapere mai che l’arte racconta il dolore della vita quotidiana o la ricerca della felicità del maggior numero o non è niente. A volte, anche in fotografia, occorre passare l’arma a sinistra, che qui non significa “tirare le cuoia” (come dicono i francesi), ma intraprendere un’autentica azione sovversiva. A ricordo di una scritta apparsa sulle mura dell’ Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nel 1968: “I grandi sono grandi perché noi siamo in ginocchio, alziamoci!”.
All’infuori della creatività ereticale o sovversiva, tutte le forme d’arte sono egualmente senza valore.
A entrare nelle pieghe visuali del rizomario fotografico del “Gégé”, bene si vede l’esibizione estetica e il fascino del provvisorio che guidano il fotografo nella sua ricerca (si fa per dire)… nobildonne di bianco vestite e uomini in nero con cappelli e pagliette sono ripresi in gradevoli passeggiate, mentre leggono un libro, vanno in gondola a Venezia o alle corse dei cavalli a Roma… le bambine sono carine, pulite, attaccate al loro cane, mentre le mamme gioiose fanno l’altalena… gli intellettuali, come è di rigore, posano pensosi… forse riflettono sulla cifra dell’assegno ricevuto in cambio delle loro servitù… gli ombrellini da sole coprono le signore da sguardi indiscreti… re, regine, conti e servi sembrano interpretare una commedia in costume e non la rappresentazione del crimine che la loro casta incarna… il caro “Gégé” nemmeno si chiede che la vera bellezza artistica fuoriesce da ciò che stimola la vita e non da quanto la riduce a un’operetta.
Le immagini dei poveri sono scure, spesso in ombra… i mendicanti inchiodati davanti al portone di un palazzo regale, le donne fanno la calza sull’uscio della loro misera casa, le famiglie vendono il pane agli angoli della strada… processioni, bande musicali, parate militari, castelli, ville, giardini… “bella gente” dappertutto… il conte-fotografo raggiunge qui la beatitudine, senza mai avere piena coscienza della vita stessa. Dolci controluci, bambini allegri, residenze magnificenti… qua e là infila qualche frammento di miseria ordinaria… ma tutto è filtrato da uno sguardo che non conosce l’etica visiva della compassione (o pietà laica) che arriva fino alle stelle. Una classe sociale (quella “nobile”) che non ha prodotto un solo genio autentico (solo guerrafondai, rapinatori, bancarottieri, tuttalpiù qualche fotografo dilettante) non può essere in alcun modo difesa ma va aiutata a crollare.
L’apologia del personaggio attraversa l’intero inventario primoliano: Charles Gounod, Mathilde Bonaparte, Gabriele D’Annunzio, Matilde Serao, Eleonora
Duse, il conte Napoleone, Umberto I, la principessa Maria Letizia Bonaparte Aosta, la marchesa di Ljaten, il principe Emanuele Filiberto, monsignor Duchesne, Edgar Degas, M. Strauss and Halévy, scenette amorose costruite per il giubilo dell’erotismo all’acqua di rose… sono il prontuario estetico apprezzato da molti storici, critici, galleristi, fotografi… dio, lavoro, patria, famiglia, gloria, onore… di una “classe”, s’intende, sono apostrofati con la leggerezza del coglione che si abbandona alla gioia della fotografia, senza mai chiedersi la morfolologia della fame e le interazioni tra fotografo e vita quotidiana.
La visione narcisistica di “Gégé” Primoli è propedeutica al gazebo gentilizio nel quale è stato allevato… l’allegoria, il simbolismo, l’evocazione, il sottinteso, l’allusione, la maschera, la scenografia, la moltiplicazione dei ruoli… tutta la galleria fotografica di Primoli è un canto sepolcrale, un viatico entusiastico che vede il mondo come estetizzazione di una civiltà che odora di vecchio… l’ultimo rantolo di un’élite aristocratica che di aristocratico aveva solo medaglie e pennacchi e non conosceva nemmeno il bidet. L’inquadratura larga, la distanza eccessiva, la modestia del pensiero affabulativo… fuoriescono in ogni immagine del blasonato “Gégé”… non c’è contatto tra fotografo e ritrattati nel monumentale archivio di Primoli… la realtà che cade nelle sue fotografie è organizzata come totalità chiusa, artificiale, simulata… non c’è condivisione del desiderio, né amore verso il diverso da sé ma tutta una casistica di dominazioni e sottomissioni degli esclusi a favore di favori istituzionali, moralistici, religiosi che per secoli hanno poggiato il loro delirio di potere sulla frusta e l’aspersorio. C’è un dio e uno stato al principio e alla fine di ogni genocidio. Il fotografo può diventare un essere umano e diventare un essere umano significa negarsi come servo del lavoro, dell’arte e del potere, per affermare il diritto di ognuno di creare il proprio destino. Il commercio delle idee determina il commercio degli uomini. La fotografia mercantile ogni volta che è stata incensata ha riprodotto il peggio. Il trionfo del brutto, anche se conclamato dall’ufficialità come “artistico”, finisce sempre in un’amara disfatta del bello. Il potere non è solo sulla canna del fucile, ma in tutte le forme di comunicazione prone alla sua continuazione… la fotografia della consolazione è un omaggio al divieto (del vero) e offre una via d’uscita all’oppressione… la fotografia infernale non è l’immagine del dolore, è l’immagine che esprime la sofferenza e denuncia l’ipocrisia.
Là dove la forza autoritaria devasta tutto al suo passaggio, occorre ostentare una forza libertaria che spezza l’impero dell’identico e nasce proprio là dove il diverso è proibito. La fotografia autentica rende liberi.
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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