«Non voglio difendermi e non voglio essere difesa,
appartengo completamente alla rivoluzione sociale
e mi dichiaro responsabile delle mie azioni […].
Bisogna escludermi dalla società, siete stati incaricati di farlo, bene!
L’accusa ha ragione.
Sembra che ogni cuore che batte per la libertà
ha solo il diritto ad un pezzo di piombo,
ebbene pretendo la mia parte!».
Louise Michel
scrittrice, insegnante, pétroleuse comunarda, anarchica
I. Della rivoluzione amata delle donne
Ognuno per sé e il cinema contro tutti è una metafora contro l’imbecillità generalizzata o, in trasversale, è l’opera d’autore che vede nella ricerca della realtà il tentativo di avvicinarsi alla verità. Nella civiltà dello spettacolo “il crimine contribuisce alla grandezza, le canaglie al bene comune, il paradiso si costruisce con pezzi d’inferno” (Michel Onfray)… la miseria del cinema o il cinema della miseria, specialmente quello italiano, si traveste di buonismo fino a leccare il culo alla clemenza proletaria, esegue la partitura filmica di una spiritualità superficiale o cialtrona che vede nel voto elettorale il risarcimento individuale della felicità collettiva… le chiacchiere istituzionali sulla destituzione della soperchieria maschilista sono sovente una deformazione, una risciacquatura o una vigliaccheria storica sulla condizione femminile: “Ovunque l’uomo soffre nella società maledetta, ma nessun dolore è paragonabile a quello della donna” (Louise Michel). La felicità degli uomini non è la sacralizzazione del silenzio intimato alle donne, è la conseguenza della libertà radicale di cui si prendono le donne.
A partire dal testo — Rivendicazione sui diritti della donna (1792) di Mary Wollstonecraft —, dove sostiene che la società inegualitaria è fondata anche sull’emarginazione delle donne, fino a tutte le successive ondate della rivoluzione femminista… il pensiero comunitario delle donne sta al fondo dell’autodeterminazione non solo della donna ma dell’uomo e dell’intera società. « È tempo di compiere una rivoluzione nei modi di esistere delle donne – è tempo di restituire loro la dignità perduta – e fare in modo che esse, come parte della specie umana, si adoperino, riformando se stesse, per riformare il mondo », Mary Wollstonecraft, diceva… la cattiveria organizzata degli uomini contro le donne è una ferita millenaria che le donne hanno risarcito ma non cancellato… si tratta di debellarla come la lebbra, poiché l’uomo sotto il mantello di Dio, Patria, Famiglia, Guerra, ha eretto i patiboli della grettezza, della malevolenza e della criminalità.
Una nota fuori margine. Mary Wollstonecraft era moglie di uno dei padri dell’anarchia, William Godwin, autore di Inchiesta sulla giustizia politica e sulla sua influenza sulla morale e sui costumi moderni (1792)… qui scriveva che la Giustizia politica “è prima di tutto una critica delle istituzioni politiche. La sua visione della perfettibilità umana è anarchica in quanto vede il governo e le relative pratiche sociali come il monopolio sulla proprietà, il matrimonio e la monarchia frenare il progresso dell’umanità”… la stessa esistenza dei governi, anche quelli fondati sul consenso, dimostra che le persone non possono ancora vivere la loro vita quotidiana in base ai dettami della ragione imposta.
La figlia della Wollstonecraft e di Godwin, Mary, giovane moglie di Percy Bysshe Shelley, uno tra i più grandi poeti della visione anarchica, autore immortale di Il prometeo liberato, dove racconta in versi la liberazione dalle catene di Prometeo-Umanità, dice che la libertà dell’uomo è una scelta di ribellione contro ogni forma di tirannia e può sfociare solo nel suo rovesciamento. Mary Shelley è l’autrice di Frankenstein; ovvero il moderno Prometeo, pubblicato anonimo nel 1818… descritto frettolosamente come un romanzo gotico o di fantascienza… Frankenstein è ben altro… come il Don Chisciotte di Cervantes, La tempesta di Shakespeare, I dolori del giovane Werther di Goethe o Moby Dick di Melville, contiene la bufera e lo slancio dei rivolgimenti sociali… la Creatura è il mostro che è “nato” buono, è il disprezzo degli uomini per la sua diversità che lo hanno reso malvagio… in uno dei passi più famosi di Frankenstein c’è tutta la sofferenza che il genere umano ha inflitto a se stesso: «Tu devi creare per me una femmina (…) Tu solo puoi fare una cosa simile, e io te la chiedo come un diritto che non puoi rifiutarmi. (…) Sono perfido perché sono infelice; non sono forse evitato e odiato da tutta l’umanità? (…) Dovrei forse rispettare l’uomo che mi disprezza? Che egli viva con me in termini di mutua bontà e, invece di fargli del male, lo colmerò di attenzioni (…) Ma ciò non può essere: i sensi umani sono una barriera insormontabile alla nostra convivenza. Ma la mia non sarà l’abietta sottomissione dello schiavo. Mi vendicherò delle offese subite: se non posso ispirare affetto, diffonderò il terrore, e a te soprattutto, mio arcinemico perché mio creatore, giuro odio inestinguibile. Bada bene: lavorerò alla tua distruzione e cesserò solamente quando ti avrò straziato il cuore tanto da farti maledire il giorno in cui sei nato». Frankenstein prima costruisce una nuova Creatura, poi la distrugge… il Mostro allora uccide i suoi amici, lo scienziato e si dà la morte.
A ritroso… nel 1897 l’inglese Millicent Fawcett fonda il National Unioni of Women e propone agli uomini di aderire e combattere insieme per i diritti delle donne… Louise Michel, Emma Goldman, Anna Kuliscioff, Clara Maffei, Cristina Belgioioso, Anna Maria Mozzoni, tanto per fare qualche nome… combatteranno per la conquista impervia dell’indipendenza femminile… nell’Italia che usciva distrutta dalla guerra fascista, il contributo delle donne nella Resistenza è stato numeroso, 35.000, 2750 delle quali furono fucilate, 15 ebbero la medaglia d’oro. Nel primo congresso della CGIL a Napoli (28-1 febbraio 1945), i convegnanti ritennero che nella lotta contro il nazifascismo le donne avevano dato prova di “aver raggiunto maturità sufficiente” per avere diritto al voto (?!)… il 2 giugno 1946 le donne rappresentavano 12 milioni su 22 milioni di elettori… su 556 componenti dell’Assemblea Costituente, entrarono 22 donne e nell’art. 3 e art, 27, viene stabilito il principio di eguaglianza con l’uomo a tutti gli effetti politici e giuridici.
La donna non ha da raggiungere sufficientemente nulla per concessione degli uomini… poiché le donne sono in grado di prendersi, e con ogni mezzo utile, ciò che viene loro sottratto o violato. Ogni donna appassionata sa che la bellezza si riconosce nel godimento dell’immaginale senza guinzagli perché ha innato il principio di Gulliver, cioè che una grammatica di piccoli lacci-azioni possono impedire al gigante di continuare a fare del male. Basta vedere un vecchio film in bianco e nero del 1954, Il sale della terra o Sfida a Silver City di Herbert J. Biberman (la sceneggiatura era di Michael Wilson, entrambi saranno incriminati dalla Commissione per le attività antiamericane come comunisti che mettono in pericolo il Paese delle libertà e gli uomini giusti)… le donne di Silver City si sostituiscono allo sciopero e al picchettaggio dei mariti minatori, perché secondo una legge federale chi impediva ai crumiri di lavorare sarebbe stato sbattuto in galera… le donne non erano dipendenti della Compagnia mineraria e lottano a difesa dei posti di lavoro dei loro uomini… dopo maltrattamenti della polizia e dei dirigenti della miniera di zinco, costringono la proprietà a trattare con i minatori… l’unione e la cooperazione verso un fine comune riporta fierezza e gioia là dove sono state calpestate.
Sin dall’inizio dell’umanità le donne hanno subito la morale repressiva degli uomini e solo quando le passioni liberate delle donne sconfiggeranno l’arroganza maschile che si propaga col fucile e l’ostensorio, donne e uomini potranno avviarsi al proemio dell’Armonia universale auspicata dal filosofo libertario Charles Fourier: “L’estensione dei privilegi delle donne è il principio generale di tutti i progressi sociali”, poiché il riscatto delle donne è la leva per l’emancipazione dell’umanità e la conquista di un nuovo mondo amoroso.
Nessuna passione è cattiva, ci sono solo usi cattivi del maschilismo angelicato, confusi come passioni… niente è vietato in amore, quando non c’è opposizione tra il corpo e l’anima della donna… sono le passioni tristi della cultura autoritaria che si tramutano in crimini e miserie sessuali… anche nell’epoca della società spettacolarizzata le donne subiscono la menzogna la falsità, la doppiezza, la frustrazione, i delitti degli uomini… e fuori dalla monogamia asservita, il desiderio, il piacere, il sentimento, il sesso senza steccati si apre il viatico di ogni donna verso il conseguimento di una civiltà amorosa dove nulla è vietato perché ogni persecuzione è stata sconfitta.
E cosa c’entra tutto questo con il film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani? Niente, o forse tutto. Nel profluvio di falsi eroismi, nostalgie ideologiche o furbe reincarnazioni neorealiste del cinema italiano, il più brutto del mondo o, almeno, il più scemo… s’innestano operazioni
nazional-popolari venate di un certa falsificazione femminista, come il filmetto di Paola Cortellesi. Il debutto alla regia della Cortellesi (che ci è molto simpatica) è subito baciato dal successo… alla 18a edizione della Festa del Cinema di Roma si porta via Premio Concorso Progressive Cinema – Premio speciale della Giuria, Premio Miglior Opera Prima BNL BNP Paribas – Menzione speciale, Premio del pubblico… sulla stampa specializzata si parla di dramedy, commedia all’italiana, musical, neorealismo, postmodernismo (?)… vero niente… C’è ancora domani una sorta di film-bozzetto edulcorato che ripercorre affannosamente i luoghi comuni di una Roma delle periferie e segue una narrazione filmica da operetta morale, senza averne né la forza autoriale né le necessarie creatività attoriali.
Basta vedere le figure-popolane di Anna Magnani (Bellissima,1951) di Luchino Visconti, Giulietta Masina (La Strada, 1954) di Federico Fellini, Gabriella Pallotta (Il tetto,1956) di Vittorio De Sica, Anna Magnani (Mamma Roma, 1962) di Pier Paolo Pasolini o tutte le donne proletarie del cinema di Ken Loach… per comprendere che quei volti, quei corpi di donna contengono l’universalità del dolore e al contempo della rinascita… il cinema sta tutto in uno sguardo, poiché l’attore ci spalanca gli occhi o ce li chiude, e il regista quando disvela la ricchezza della dignità nella povertà suprema, consegna il film alla storia del disinganno.
Il consenso che C’è ancora domani ha conseguito nelle sale cinematografiche è stato ampio e partecipato, non solo dal pubblico femminile, e si sono visti applausi commossi, sinceri fino alla più assoluta osservanza religiosa e politica… più un milione e mezzo di biglietti venduti e un incasso di oltre 12 milioni di Euro proiettano il film nel firmamento del box-office italiano… la critica velinara, non solo quella della sinistra al caviale, ma anche gli specialisti della stampa più “blasonata” non sono stati parchi di entusiasmi impetuosi… la gratificazione delle convenienze respinge la povertà estetica e nel senso dell’assurdo annunciato che promette, finisce sui banchi del Parlamento… figurati! Proprio lì, dove la giustizia, la felicità e la libertà sono degradati alle trame dei partiti, degli affaristi, dei mafiosi che commettono quante più ingiustizie di quante dicono di cancellare. Di C’è ancora domani. Roma, maggio1946. La città è avvolta nella povertà del dopoguerra… i militari Alleati sorvegliano le strade, il referendum istituzionale e l’elezione dell’Assemblea Costituente nei prossimi 2-3 giugno… per la prima volta le donne hanno diritto al voto e partecipano al cambiamento di un popolo incline al trasformismo… gli italiani hanno buttato la camicia nera nella spazzatura, ora s’affogano nella bandiera rossa o sbavano nei confessionali della croce scudata… è la ribalta di un popolo servente incapace di rinunciare a un re, un dittatore o un governo millantatore e poliziesco che decide sul suo divenire… fatti salvi, naturalmente, i sessantamila morti della lotta partigiana che, almeno per un certo tempo, restituirono la dignità perduta o forse mai avuta a un intero Paese. “L’arte di non essere governati, ovvero l’arte di non essere governati in questo modo e a questo prezzo” (Ekkehart Krippendorff), significa non accettare come vero tutto ciò che il governo dichiara esser vero, mentre i fatti politici lo smentiscono.
C’è ancora domani racconta le vicende di una famiglia proletaria… Delia (Paola Cortellesi) subisce le botte del marito Ivano (Valerio Mastrandrea), come una remissione dei peccati… cura amorevolmente il padre canagliesco di Ivano, Sor Ottorino (Giorgio Colangeli)… hanno tre figli e per la ragazza (Romana Maggiora Vergano) aspirano a un matrimonio borghese… il fidanzato (Francesco Centorame) è l’erede del pasticciere del quartiere, un ex-fascista arricchito… Delia è amata da Nino (Vinicio Marchioni), che di meccanico non ha nemmeno la tuta, le chiede di andare con lui al Nord dove c’è lavoro e partirà tra pochi giorni… poi arriva una lettera e Delia scappa di casa inseguita da Ivano e poi dalla figlia… Delia però non raggiunge Nino, ma a va votare insieme a centinaia di donne… la chiusa del film porta a pensare che d’ora in avanti Ivano non picchierà più la moglie poiché le donne, com’è giusto, hanno conquistato col voto pari uguaglianza e gli stessi diritti dell’uomo.
Porcaccia puttana ladra… che un mare di sputi divorino anche l’ultima ipocrisia della sinistra al potere… merda d’un Dio irregimentato nel dogma della fede… C’è ancora domani è il film più ruffiano che non abbiamo mai visto dal tempo del cinema dei telefoni bianchi e camicie nere… contiene la stessa impeccabilità filistea di Camicia nera (1933) di Giovacchino Forzano, Vecchia guardia (1934) di Alessandro Blasetti, Noi vivi e Addio Kira (1942) di Goffredo Alessandrini o Ogni giorno è domenica (1944) di Mario Baffico (girato negli stabilimenti veneziani della Repubblica Sociale Italiana)… è una trasfigurazione della realtà affabulata per il raggiungimento di un’estasi o un’isteria collettiva che sfocia nella contemplazione d’un immaginario femminile che a poco a che vedere con la rivoluzione amata delle donne o col desiderio di amare e di essere amate delle donne che fecero l’impresa di smantellare la coscienza infelice.
C’è ancora domani ripercorre i drammoni sentimentali di Raffaello Matarazzo (Catene, 1949, I figli di nessuno, 1951 o L’ultima violenza, 1957), prodotti commerciali mezzo servi di commedia, mezzo poliziotti dei buoni-falsi ideologismi dell’italietta uniformata e dei palafrenieri “comunisti” che, come sappiamo, rispettano il potere costituito e amano tanto la mamma!… il conformismo architetturale, il sopruso pittoresco, l’invincibile candore della protagonista di C’è ancora domani ci lascia basiti… di fronte a tanta mestizia descrittiva anche l’angelo sterminatore di Luis Buñuel si mette a ridere.
Vediamolo da vicino C’è ancora domani… la Cortellesi è la dimessa signora del supplizio… non c’è una variazione interpretativa sul suo viso, nemmeno il corpo della popolana le riesce bene… s’aggira sullo schermo con l’ingenuità di un dono divino, come su un marciapiede senza puttane. Mastrandea fa il marito cattivo, è così irrigidito nella parte da sconfinare nel ridicolo involontario… la canottiera bianca, le carte con gli amici, la grinta da operaio avvinazzato, il rapporto imbecille col padre, fanno della caratterologia del personaggio una macchietta da avanspettacolo. La precarietà della famiglia che vive in uno scantinato sembra fuoriuscire da un fotoromanzo… i ragazzetti corrono per tutto il film, la sorella si sbaciucchia sull’uscio di casa col fidanzato, le donnette del cortile fanno i lavori a maglia e sbucciano i piselli. C’è anche l’amico del padre di Ivano, un po’ tonto, smarrito nella propria diversità.
Delia fabbrica ombrelli, rammenda vestiti, tiene la casa pulita e prende gli schiaffi con rassegnazione… la regista poi non trova di meglio che far vedere la ferocia del marito attraverso una sorta di ballo rallentato… ma né Mastrandrea né la Cortellesi hanno la caratura artistica di Fred Astaire e Ginger Rogers (ai quali si vorrebbero riferire)… semmai ne scaturisce un siparietto simpatico, abbastanza sospetto di piaggeria… se nascondi la verità è chiaro che la sputtani. Il militare nero che sorveglia le strade di Roma è un cameo rosselliniano inguardabile.
Delia ha trovato una fotografia della sua famiglia per terra e l’ha restituita al soldato… non s’intendono nelle lingue ma non si sa come si comprendono quando Delia vede nel fidanzato della figlia una sorta di possesso brutale e chiede aiuto al nero per far saltare la pasticceria del futuro genero e così anche il matrimonio. I “burini”, dice Ivano, sono tornati alla fame del loro villaggio. Il finale è degno di un telefilm-giallo sulla buona creanza… Delia fugge di casa e il pubblico pensa che raggiunga Nino verso una nuova vita… invece va all’urna elettorale insieme a un fiume di donne… quando il marito si avvicina, le donne intorno a Delia fanno il muso duro, la figlia sorride, Ivano si allontana… ora Delia è una nuova donna e con l’aiuto delle altre donne non sarà più vessata. Nemmeno lo scemo del villaggio ci può credere.
C’è ancora domani è un flusso elementare di inquadrature lunghe, ripetute fino allo sfinimento… le camminate di Delia, la borsa, lo sguardo perso nel vuoto, seguono un prontuario attoriale di derivazione televisiva… tutto è gradevole, sopportabile, financo accettabile, non solo la violenza di Ivano, anche la stupidità forzata del padre o l’eccessiva caratterizzazione della famiglia di arricchiti costituiscono l’effetto fenomenico del film… il nero è buono, dispensa sorrisi e cioccolate, quando occorre anche qualche bomba. La sceneggiatura (Cortellesi, Furio Andreotti, Giulia Calenda) è un compitino riflesso nella stoltezza mediale alla Fazio, Propaganda live, Ballarò e simili… i proletari parlano un linguaggio didascalico che non corrisponde alla figurazione dei corpi-ruoli e il tono divulgativo (pensato per arrivare un ampio pubblico) depositano il film nelle convenzioni, intrallazzi e imposture che tengono in piedi la società.
Sor Ottorino (il padre di Ivano): “Alla fine dei conti, lei è ‘na brava donna de casa”. Ivano: “È che me ‘e leva dalle mano ”. Sor Ottorino: “Non glie poi mena’ sempre, sennò s’abitua! Una, ma forte!”. Ivano dice alla figlia: “Tu pensa a porta’ i soldi a casa e a dà ‘na mano a ‘st’incapace de tu’ madre”. Marisa (verdura): “Hai visto gli americani quanto so’ belli, oh?! C’hanno tutti i denti! Ma tanti!” Delia: “Eh, più de noi, me sa”. Boh? Anche le parole ce l’hanno una poetica del sogno o del gioco, quando galleggiano sulla griglia della domesticazione sociale, marciscono, come gli uomini senza qualità.
Il bianco e nero elettronico della fotografia (Davide Leoni) è smorto, non ha nulla a che vedere con la forza evocativa di The Artist (2011), Ida (2013), Nebraska (2013) o Oppenheimer (2023)… per non parlare dell’incipit in bianco/nero tra i più grandi della storia del cinema in Antichrist (2018) di Lars von Trier, quando il bambino cade dalla finestra mentre i genitori fanno l’amore, che si sviluppa sulla musica di Handel e nel canto: “Lascia ch’io pianga/ mia cruda sorte/ e che sospiri la libertà”. Ciò che i vangeli annunciano, qualche volta il cinema lo realizza.
L’azzurrino-grigio che incombe sull’intero film rimanda a certe pubblicità di prodotti intimi femminili e maschili… insieme al montaggio sequenziale-scolastico di Valentina Mariani e alla scenografia da Mulino Bianco di Massimiliano Paonessa e Lorenzo Lasi, infondono al film un’atmosfera da ricamatrici di conventi… le scuole si sono attivate per portare le classi al cinema… si vede che molti insegnanti non barattano più un padrone con un commissario del popolo… poiché la teoria generale dell’imbecillità si adatta al mercante o al sacerdote, al soldato o all’imprenditore, al criminale o all’artista… meglio stare nell’alveolo dell’omologazione sociale dove tutti possono esprimere qualsiasi opinione, basta che non facciano sul serio. I voltagabbana della politica italiana, specie di sinistra, sono il massimo esempio di demagogia e confermano la legittimazione dei sistemi di potere dei quali fanno parte… esprimono la parodia del genio compreso, la sudditanza verso chi conta… seguita, s’intende, dall’intera ciurma dei loro partiti.
Le musiche originali di C’è ancora domani sono di Lele Marchiatelli seguono l’ottimismo obbligatorio del pacchetto filmico… ma sono la messe di canzoni a restare negli occhi dello spettatore… la miscellanea sorprende non poco… — Aprite le finestre (Fiorella Bini), Nessuno (MUSICA NUDA di Petra Magoni & Ferruccio Spinetti), Perdoniamoci (Achille Togliani), A bocca chiusa (Daniele Silvestri), M’innamoro davvero (Fabio Concato), La sera dei miracoli (Lucio Dalla), Calvin (The Jon Spencer Blues Explosion), B.O.B. (Bombs Over
Baghdad – OUTKAST), The little things (Big Gigantic featuring Angela McCluskey), Swinging on the right side (Lorenzo Maffia e Alessandro La Corte), Tu sei il mio grande amor (Lorenzo Maffia e Alessandro La Corte, voce Enrico Rispoli) —… sono disseminate alla buona sulla linea grigia che illumina la cultura dell’ubiquità, propria al pasto nudo della politica della mediocrazia, dove governi e governati, sfruttatori e sfruttati, dominatori e dominati, si trovano a nutrirsi del sangue dei poveri d’ogni dove.
Tagliamo corto… C’è ancora domani è un film furbo, ipocrita, un abbozzo di libertà concesse… un prodotto cinematografico che esegue un rituale estetico di sicuro riscontro emotivo, senza mai entrare nel vivo della rivoluzione politica delle donne che davvero hanno cambiato il mondo. Il film corrisponde esattamente alle leggi del mercato… è un resoconto del sistema di speranze delegate all’organizzazione, al partito, alle strutture… una cartolina illustrata che mette d’accordo tutti… film femminista quello della Cortellesi? Si, ma… ci sembra più un esercizio utilitarista che qualcosa che meriti davvero un sorriso o una lacrima.
Povertà, orgoglio, impudenza, insubordinazione… non ci sono in C’è ancora domani… il focolare delle virtù civiche è attizzato nella castità sessuale… patriarcato, amore, crudeltà, amicizia… tutto è patinato, giocato tanto sull’ignoranza, quanto sulla passività… ma la banalità non è inoffensiva, la si sconfigge quando si obbliga a cambiare pelle… quando si minaccia ciò che ci minaccia… quando la sovversione del giusto rompe l’ingiustizia sul sagrato di Dio, della Famiglia e dello Stato. Il servo e il padrone appartengono al medesimo statuto di cortigiani: quando la ribellione è autorizzata, vive di supposizioni e muore di solitudine.
Il cinema ha creato lo spettatore a immagine delle sue illusioni… t’insegna a vivere ciò che vedi e a riscrivere ciò che leggi… il cinema crea, il film uccide l’immaginario o lo ridesta… c’è un tempo del vedere e un tempo del bruciare ciò che hai visto, lo stesso tempo, aveva annotato… poiché i film veri non sono soltanto film, ma braci ardenti che annunciano altre poetiche del fuoco e sprigionano profumi di rabbia e di eternità contro la storia secolare delle lacrime.
Meglio fare un film nel deserto che diventare celebri per un cattivo film. Buona visione.
Pino Bertelli
Piombino, dal vicolo delle serpi in amore, 18 volte novembre, 2023
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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