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Fino all’ultimo respiro del cinema-Duende di Jean-Luc Godard

di Pino Bertelli

“Avevo vent’anni, non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”.
(Paul Nizan, Aden Arabie,1931).

Avevo nemmeno vent’anni e in un cinemino di periferia della città-fabbrica dove vivevo, mi capitò di vedere Fino all’ultimo respiro (1960) di Jean-Luc Godard, e non m’importa di dire a chicchessia che è stata la più bella età della vita, e ho cercato di trasportarla in un’infanzia intramontabile… di cosa ne pensano gli psicologi me ne sbatto i coglioni… poiché il codice dell’anima di James Hillman mi autorizza a scegliere il compagno di strada, l’angelo necessario o il daimon con il quale determinare ciò che faccio, cosa amare, chi odiare o con chi ubriacarmi:
Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o hanno omesso di fare e alla luce dei miei primi anni di vita ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima” (James
Hillman) o di un ribelle.

Tuttavia a me piace stare anche in compagnia del Duende di Federico Garcìa Lorca… poeta fucilato nel 1936 dalla polizia franchista“Il duende non sta nella gola; il duende monta dentro, dalla pianta dei piedi. Vale a dire, non è questione di capacità ma di autentico stile vivo; vale a dire, di sangue; di antichissima cultura, e, al contempo, di creazione in atto” —, Federico Garcìa Lorca, diceva… non ci sono formulari né categorie per cercare il Duende… si sa solo che rompe gli stili, la maniera, la retorica… il Duende presuppone un mutamento
sconsiderato di tutte le forme d’arte e le radici della vita quotidiana… il Duende è scendere in profondità del dolore umano e rivestirlo di bellezza e d’amore… Bach, Nietzsche, Rimbaud possedevano il Duende, e Jean-Luc Godard, anche.

Jean-Luc Godard non è morto, perché resta il suo immenso cinema-Duende a ricordare agli smemorati d’ogni fazione culturale che il Cinema è la più grande storia mai raccontata e ha fatto dell’amore, della vigliaccheria o della banalità, la soperchieria della redenzione o la sovversione non sospetta della gioia… quando è stato grande — come quello di Jean Vigo, Luis Buñuel, Roberto Rossellini, Erich von Stroheim, Carl T. Dreyer, Robert Bresson, Sergej M. Ejzenštejn, Kenji Mizoguchi, Yasujirō Ozu, Jean Renoir, Pier Paolo Pasolini, Jean-Luc Godard…— ha figurato la coscienza servile o insorgente di un’orda generalista in cui anche il canto degli usignoli nei parchi pubblici è stato ammaestrato o decimato.

Il rizomario cinematografico (film-video) di Jean-Luc Godard (150 opere, dicono), è una fiamma poetica-politica che scaturisce da una ricchezza intima e, con l’insolenza propria ad ogni libertario immarcescibile, scalda e illumina la storia del cinema… è una sorta di psicologia del fuoco d’amore dell’uomo che sogna, che pensa, che non accetta l’imposizione religiosa, politica, culturale del suo tempo, che diffida delle immagini, delle parole, dei suoni che allevano l’uomo nella soggezione o nel servaggio, gli bastano le idee, poiché sa che “non esiste una verità originaria, ci sono solo errori originari” (Gaston Bachelard). L’amore dell’umano nell’uomo guida le passioni e incendia desideri, moltiplica i conflitti umani e spezza i destini, più di ogni cosa costruisce una filosofia libertaria che getta nell’esistenza e fa della propria vita un’opera d’arte.

Jean-Luc Godard sa bene che esprimere il cinema nel medesimo linguaggio della macchina/cinema significa annientare la bellezza e la giustizia dell’atto creativo supremo che costituisce il rogo spettacolare della poetica cinematografica… si rende indipendente dagli obblighi del successo e si chiama fuori dalla dipendenza del significante-significato ingessato nelle regole, grammatiche, glossolalie del cinematografo… disciolte in un universo di merletto e un falansterio della violenza che piace a critici, spettatori, produttori, financo alla polizia e alla Santa Romana Chiesa — che di spettacoli sull’impostura se ne intende da secoli —… i cinefili poi, sono dei babbei abbacinati dalle immagini e, più delle volte, non distinguono un primo piano immortale di Carl Th. Dreyer da una brutta serigrafia di Elvis Presley di Andy Warhol. C’è un martire, un santo o un bottegaio in ogni artista levigato sul mercato, ecco perché non esistono artisti falliti, solo aspiranti al sublime della prostata ingrossata… l’arte è una menzogna al pari della politica o della fede, lo sanno tutti, perfino i semplici di animo, il fatto è che nessuno può fare a meno d’impiccarsi sugli scaffali dei centri commerciali e solo per il piacere di pisciarsi addosso mentre firma un autografo sulla carta igienica della sua manifattura.

La letargia sepolcrale degli scritti dei velinari di professione è sempre levigata sul tappeto rosso dei festival ed è inseparabile dalla vertigine mitologica dei divi dietro e di fronte alla macchina da presa… i disvalori dell’imbecillità, del resto, sono tanti e i precetti sui quali gli intossicati dell’immagine (non solo) cinematografica si nutrono… implicano la perdita o lo spaventamento della coscienza… amare il cinema vuol dire allora adorare la santità che emana e non passare al taglio dell’occhio che infonde il sorriso o le lacrime alla medesima maniera…chi vuole intendere intenda… tutto ciò che è infatuazione è malattia e tutto ciò che è disinganno è fine dell’apostolato del male di vivere. Ecco perché talpe, pidocchi e iene popolano l’intero baraccone dell’immaginario cinematografico, tutti protendono al giubilo e in mancanza di un sentimento che turbi l’assoluto e lo sprofondare delle cose nella vita quotidiana, meglio una filmografia che suscita la stessa stupidità che divora nei social-network… l’assunto ereticale è nel disimparare a guardare ciò che umilia e offende, plagiare le parole, rubare le idee… ignudare la verità fuori dalle qualificazioni e fare dell’indignazione il primo passo verso una resistenza culturale che incrini, saboti, rompa l’imperio mercatale della civiltà dello spettacolo.

Dalla prima unghiata allo schermo, Fino all’ultimo respiro, passando (a gatto selvaggio) per Le petit soldat (1960), La donna è donna (1961), Questa è la mia vita (1962), Il disprezzo (1963), Les carabiniers (1963), Bande à part (1964), Il bandito delle 11 (1965), Una storia americana (1966), Due o tre cose che so di lei (1967), La cinese (1967), Week – end, un uomo e una donna da sabato alla domenica (1967), La gaia scienza (1968), Vento dell’est (1969), Passion (1982), Prénom Carmen (1983), Je vous salue, Marie (1985), Nouvelle Vague (1990), Germania nove zero (1991), Film socialisme (2010), Adieu au langage (2014), Le livre d’image (2018)… annettendo anche la filmografia politica — alcuni Cinétracts (1968), British Sounds (1969) col Gruppo Dziga Vertov (Jean-Henri Roger), Pravda (1969) col Gruppo Dziga Vertov (Jean-Henri Roger), Lotte in Italia (1970) col Gruppo Dziga Vertov (Jean-Pierre Gorin), Vladimir et Rosa (1970) col Gruppo Dziga Vertov (Jean- Pierre Gorin), Crepa padrone, tutto va bene (1972) con Jean-Pierre Gorin, Histoire(s) du cinéma 1988-1998 —… Jean-Luc Godard ha delegittimato la macchina/cinema della propria insensatezza… ha filmato la rovine dell’irrealtà e fatto della poesia, filosofia, anomalia estetica…un’etica della bellezza e della giustizia.

Il linguaggio indisciplinato di Godard ha reinventato il cinema… ha interrogato la sua manifestazione pubblica e con la stessa insolenza dei cinema Surrealista, Lettrista, Situazionista o di chiunque abbia cercato di sovvertire i confini linguistici della fabbrica delle illusioni… ha infranto formule e comandamenti, cristologie e metodi… e ha portato lo sguardo fuori dagli occhi, cioè fatto dello stupore di un bambino la polvere d’oro di una terra dove re, padroni, generali, poveri, afflitti, indifferenti e servi a tutto sono disarcionati… e approntato — al di là del circuito dei beni mercatali — l’incubo permanente della rivolta.

Anche quando non siamo stati in accordo con le scelte politiche dettate dalle turbolenze sociali di un tempo che sarà stato tutto, tranne che imbecille… i suoi film-fionda dicevano che la violenza dell’omologazione politica-culturale arriva prima dei carri armati… e la verticalità della minaccia impone la schiavitù della coerenza a morali, codici, valori che rinnegano il profumo della mentuccia, le olive al forno e l’olio buono… dalle smargiassate delle politiche, dei credi, dei mercati non è mai uscito niente di veramente grande, se non guerre, genocidi e ideologie di morte… la verità cerca nell’uomo in rivolta una via di salvezza, la falsità un veleno che sprofonda l’intelligenza nel regno della stupidità… un popolo muore quando non ha più la forza di abbattere i miti, dèi o idoli che lo tengono a catena.

L’opera intera di Jean-Luc Godard è una cartografia dell’immaginale per niente salvifica… lo smontaggio tecnico delle ghigliottine di sottomissione a tutto l’armamentario lessicale della lingua dominante che legittima il sistema di poteri attraverso un’estetica dell’eroe, del martire o del santo… una teologia della merce che lavora sui comportamenti tra sé e sé, sé e gli altri, sé e il mondo, Michel Onfray, diceva… una scienza dell’assoggettamento dove l’uomo è la merce che consuma, il discepolo che idolatra o lo scemo che farnetica sulla grande ragione della finanza che detta gli assiomi della politica e ne individua le convinzioni: “Occorre sbarazzarsi del cattivo gusto di voler andare d’accordo con tutti. Le cose grandi ai grandi, gli abissi ai profondi, le finezze ai sottili e le rarità ai rari”, Friedrich Nietzsche, annotava… tutto ciò che è troppo stupido per essere detto, può essere filmato… insomma, Jean-Luc Godard ha fatto del cinema distruggendolo!

Il cinema-Duende di Jean-Luc Godard ci ha fatto comprendere che il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, il bello e il bene comune dipendono dalle decisioni umane e la loro accettazione o dissidio implicano un’impresa morale, etica, creativa… sono un primo passo verso la rivoluzione dei passatori di confine. E lo fa attraverso la fotografia slabbrata, l’inquadratura eversiva, il montaggio discrepante, l’attorialità estraniante… non ci sono divi nel cinema di Jean-Luc Godard, anche gli attori più famosi sono relegati a corpi che nemmeno recitano, ma sono parte di quadri viventi al servizio della non-storia disseminata sullo schermo… il cinema entra nel cinema e lo sovverte.

La narrazione filmica-saggistica godardiana è un elogio dell’imperfezione che ingloba la parola, il segno, il sogno edonista e invita ad amare se stessi e il prossimo su principi aristocratici, libertari e libertini che avvicina ai bordi, all’espulsione, all’elezione ludra del sale dell’esistenza…e allora amore, leggerezza, grazia, gentilezza, delicatezza, tenerezza, dolcezza… diventano sintagmi di verità amari e amati… percorsi e variazioni dell’impercettibile che si fa volto, corpo, vita vera… un’ermeneutica dei piaceri che anticipa il godimento di sé nell’altro…qui la frase, il gesto, l’attenzione, la compassione, la deviazione avvertono di una filosofia della mancanza e mostrano che là dove manca la libertà di pensiero, regna la brutalità della strutturazione ideologica-mercantile.

Il cinema-Duende di Jean-Luc Godard è pervaso dall’inquietudine che attraversa percezioni, parole, immagini… e Duende non significa solo folletto, ma anche stoffa pregiata o broccato o casa interiore… nemmeno solo teoria e gioco o deriva o passaggio psicogeografico nella costruzione di situazioni-immagini di un’opera di genio… c’è il dionisiaco nel Duende, è vero… anche l’irrazionale, certo… più di ogni cosa il Duende è ponte tra l’inquietudine, l’incanto di una visione o il trasalimento di qualcosa che si nutre di un sapere e di una malinconia che si trova a sorprendersi in un maelström sotterraneo dove l’ordine normale delle cose è destabilizzato… forse è la fascinazione dell’angelo necessario che custodisce gli scenari inediti del filosofo o dell’artista che dirottano dalla consuetudine di codici, modelli, regole…scatena forze interiori per incendiare tutte le fatalità e innescare cammini in utopia dove non ci sono né mappe né esercizi mondani, solo avvenimenti che conducono al dubbio e respingono l’irrimediabile.

Del Duende, dice Lorca — “Si sa soltanto che brucia il sangue, che prosciuga, che respinge tutta la dolce geometria appresa, che rompe gli stili (…) Il sopraggiungere del duende presuppone sempre un cambiamento radicale di ogni forma rispetto a vecchi piani, dà sensazioni di freschezza del tutto inedite” —. Il Duende non segue rotte definitive… ama le scissioni, le contrapposizioni, le zone d’ombra, financo la morte è un atto luminoso… è il come in ogni cosa… il Duende è qualcosa che qualcuno ha senza conoscerlo… una ferita irrimarginabile, lo spirito nascosto di una dolente vivenza e la comunione tra un cambiamento profondo di tutte le seduzioni che rende ineguagliabile la propria accezione al manufatto consolatorio dell’uomo nel mondo.

Ecco… così… il cinema-Duende di Jean-Luc Godard, come l’Asino Platero di Juan Ramón Jiménez o il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes o le Affinità Elettive di Johann Wolfgang von Goethe… o le poesie di Keats, Lautréamont, Leopardi, Campana o Pasolini… o la musica di Bach, Beethoven, Haendel o Puccini… si libra sulle ali degli angeli e va a cogliere le rose degli spiriti desti all’amore… si lascia morire sul filo del rasoio e scale di pianto o mari in tempesta col sorriso negli occhi e la morte nel cuore… al Duende non interessano le muse malate di limiti, diceva. “No. Il duende di cui parlo – misterioso e trasalito – discende da quell’allegrissimo demonio di Socrate, marmo e sale, che lo graffiò indignato il giorno che prese la cicuta; e dall’altro malinconico diavoletto di Cartesio, piccolo come mandorla verde, il quale, stufo di cerchi e di linee, se ne andò per i canali a sentir cantare i marinai ubriachi”,

Lorca annotava… il Duende è la creatività scorticata di tutti i suoi crimini e Jean-Luc Godard, appunto… ha fatto un cinema-Duende nel nome del quale non si uccide più, si ama ciò che è degno d’essere amato… si disvela le verità generali nell’eresia, senza restaurare nessun culto della decenza.

Per chiudere, come anche per aprire… il cinema-Duende di Jean-Luc Godard non contiene definizioni, semmai quel potere misterioso che tutti sentono o possono vedere e che nessun filosofo può spiegare… il Duende sta nel sangue e la perfezione è il prezzo della lotta che sostiene per opporsi alla luce… danza nel cuore degli uomini con l’allegrezza del saltimbanco e profuma di violette tutto ciò che attraversa… non governa né vuole essere governato… a volte è furioso e priva di facoltà e sicurezze chi lo avverte nel corpo e nella vita… quando debutta in ogni forma d’arte nasce il sorriso dei trovatori che cantano l’effrazione di un preciso presente.

Non ci può essere Duende senza l’amore che vi si accompagna… e vivere l’istante magnificato dal Duende vuol dire nominare l’inedito di un diverso ordine amoroso di me, di te, di noi. Il Duende è una fonte aurorale etica-filosofica ancestrale che prende il colore, il sapore,
il suono, la parola, l’immagine dell’opera in cui si manifesta… l’uomo enduendado lo riconosci frequentandolo… vivendo a lungo nell’intimità della sua opera… nel flusso, lo spessore, la qualità e la fierezza che raccoglie nella strada ed esprime l’essenza di ciò che riesce a profana re, violare, sconvolgere… il capolavoro è sempre vicino alla crosta, è il Duende che lo diversifica… non stupisce che il cinema-Duende e il pensiero magico di Jean-Luc Godard abbia sovvertito l’arte (non solo del cinema) di un’epoca che sarà stata tutto, tranne che intelligente.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 21 volte settembre 2022

Jean-Luc Godard, Parigi, 1968
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