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GLI SCUGNIZZI / CARACCIOLINI: IMMAGINI DI UNA MEMORIA NAPOLETANA 3° Parte

di Pino Bertelli

Gli Scugnizzi / Caracciolini

La storia della fotografia è storia di realtà tradite, menzogne e mercimonio… la fotografia sociale, quando è grande, parla di se stessa nel ricordo e nel disincanto di un’epoca. Le immagini dei caracciolini, degli scugnizzi napoletani, sono opera di fotografi-artigiani e al di là dell’occasionalità e dell’ordinazione esprimono una sapienza fotografica fatta di rispetto e dignità per i piccoli ritrattati… ci passano negli occhi ragazzi sporchi, coperti di stracci, impauriti… poi vestiti da marinaretti e infine da marinai… in abiti borghesi… c’è una fierezza particolare in quei volti e una malinconia antica che commuove… qui la fotografia si lascia attraversare dai corpi e va oltre il cartolinesco (scugnizzi che mangiano gli spaghetti con le mani per i fotografi di qualche club aristocratico), il patetico (scugnizzi che in cambio di un avanzo di pane fanno capriole sulle rotaie della stazione per sollevare la noia di viaggiatori in attesa di partire con Napoli nel cuore) o l’oleografico (scugnizzi sulle banchine del porto che si buttano in mare per andare a prendere a fondo i pochi soldi gettati dai turisti)… l’estetica del miserabilismo, che tanta fortuna ha avuto negli annali della storiografia fotografica, è bandita dalla presa di una realtà che “buca” la storia e riporta l’eterna miseria di questi ragazzi maleamati a interpreti di straordinaria bellezza. In questa iconografia dell’infanzia violata non c’è traccia nemmeno di quel senso di sublimazione dei corpi (nudi) e profanazione metaforica tanto cari al barone Wihelm von Gloeden (1856-1931), uno dei molti fotografi che le gallerie più importanti del mondo si contendono a colpi di dollari e a leggere bene la sua opera, non è difficile intendere la fotografia ad uso delle sue inclinazioni sessuali. Lo scandalo è propedeutico al sistema e il cattivo genio è solo un mercante che si accontenta del tragitto ludico… la fotografia è anzitutto la confessione di un corpo ed è allora che l’immediato s’intreccia col giusto. Gli stati sublimi del barone von Gloeden si nutrono di omissioni, di condizionamenti, d’interpretazioni allusive dei corpi di fanciulli in fiore… i corpi in amore dei caracciolini sono legati al pensiero di Nietzsche: “Ciò che non mi uccide, mi fortifica”. Di più. Le immagini dei caracciolini emergono tra corpo e coscienza e dicono ciò che il corpo esige. Questa fotografia dei corpi è l’affermazione della libertà pura che nasce nell’atto stesso che si afferma come impronta della storia del diniego.

La fotografia d’impianto sociale è un modo di vedere la realtà e raccontarla. Le immagini di Jacob Riis, Lewis Hine, Eugène Atget, Paul Strand, August Sander, Walker Evans, Weegee, Robert Capa, Tina Modotti, Henri Cartier-Bresson, William E. Smith, Diane Arbus o Sebastião Ribeiro Salgado… attraversano l’intera storia della fotografia e interrogano il suo manifestarsi. Le loro immagini-flânerie (passeggiata, passaggio, deriva) scavalcano i confini linguistici della fotografia museale e spaccano i confini che segnano oppressi e oppressori. La loro cartografia umana dà visibilità ai condannati al silenzio, alla povertà, alla costrizione, alla violenza… e va a comporre un’umanità senza frontiere che interroga destini individuali e destini storici. La passione della fotografia di strada è la scoperta del sé di fronte all’ignoto e fa dei ritrattati di ogni-dove il centro del mondo. La fotografia della speranza che passa sui corpi, sui volti, negli sguardi dei caracciolini è speculare… i ragazzi guardano in macchina, stupiti, timorosi, qualche volta spavaldi… e da soggetti feriti ai bordi dell’ordinario si trasformano in narratori di un evento che è storia di vita vissuta… la macchina fotografica cessa di essere uno strumento che celebra il rito o “segno” dello spettacolare integrato nella comunità di appartenenza e diviene “specchio”, “cammino” e promessa di felicità possibile… gli scugnizzi napoletani fotografati nella loro crescita fino alla divisa da marinaio, figurano una memoria storica straordinaria e conservano il significato di un principio di giustizia che impedisce a chi vede, legge o scopre quelle immagini, di dimenticare. 

La ritrattistica dei caracciolini è una sorta di album di famiglia… dove una profonda conoscenza della situazione drammatica impressa nei corpi dei ragazzi fotografati (non solo) in studio ai tempi della fotografia come impronta sociale… si rovescia in una scrittura iconografica epica dove dignità e rispetto fuoriescono a ogni scatto… le immagini dei caracciolini sono opere d’intaglio nel corpo morto della fotografia celebrata (re, papi, capi di Stato, lotte operaie, bordelli d’alto bordo, guerre per esportare la democrazia, linciaggi dei dissidenti, arene sportive, miti di celluloide)… dirottano il linguaggio della fotografia a una diversa materialità o percezione dell’esistente che sino ad allora molti sembrava ignorassero. 

“Il tempo narrato diventa tempo storico quando è assunto dalla memoria sociale e dall’azione sociale” (John Berger)e alla lunga il dissidio contro le convenzioni, non è altro che la rottura del prestabilito e del sempre uguale. La scrittura fotografica “artigianale” degli Scugnizzi / Caracciolini porta una nota di disturbo o di eccellenza nella visione dominante dell’infanzia abbandonata, umiliata, offesa… la testimonianza artistica è importante quanto il testimone e insieme si riflettono nelle pagine dimenticate di un’umanità maltrattata, malfamata, repressa perché non aderente ai codici di comportamento della società imperante… le immagini degli Scugnizzi / Caracciolini esprimono al contempo un senso di sradicamento e di utopia dell’amore amato… l’approssimarsi della fine del dolore e la percettibilità di una sorta di attenzioni mai avute… non c’è spontaneità nei loro ritratti, c’è invece autenticità e rivelazione o bisogno di abbracci e carezze sempre sognati. La sofferenza dei corpi e degli sguardi è respinta nella speranza come liberazione e fine di appartenenza a una vita feroce e a un futuro ancora peggiore… forse troveranno il loro posto nell’universo e oltre quella nave-asilo… i loro volti dicono che la verità è sempre alla fine della miseria e ogni verità è inseparabile dai comportamenti e dai sogni con i quali affrontano il mondo nuovo. 

Le immagini degli Scugnizzi / Caracciolini comunicano la soggettività nel momento in cui l’oggettività del dolore viene superata… mostrano la consapevolezza che l’esperienza soggettiva è un fattore storico importante per riuscire a comprendere e interpretare un’educazione del cuore che segna la fine delle sofferenze. L’amore conferisce bellezza e unisce le diversità. L’amore non ha nulla da rimproverare o perdonare. L’abbiamo già detto altrove: — «È l’amore e la scoperta del sé che portano a superare un presente che non è sempre bello… a sconfiggere la paura con la conoscenza di essersi liberati dell’immobilità e dell’impotenza… è l’amore che porta nei cuori il soffio della felicità e inventa quello che di noi stessi è sconosciuto… è l’amore, così vicino così lontano, che ci riporta ad essere protagonisti della nostra storia e al centro delle nostre esperienze, amandoci… quando riconosci l’amore vuol dire che hai già perdonato… perché l’amore è quell’impossibile magico che ci fa toccare la dolcezza dei forti… che ci porta i baci al profumo di tiglio… è un eccesso di luce… è il blu che toglie al nero il mistero. 

Legati a una stella, la più lontana… e vai alla deriva dei tuoi sogni» —. La coscienza del dolore della fotografia di strada o popolare, si trasforma in conoscenza del dolore dell’intera umanità. Nell’anatomia fotografica del dolore degli Scugnizzi / Caracciolini (la veridicità dei corpi, delle posture, dell’intreccio autobiografico tra fotografo e fotografato…) in/sorge anche una fenomenologia della speranza depositata nel profondo degli sguardi… non c’è ragazzo che non abbia una luce riflessa negli occhi, ma non è quella dello studio fotografico, è qualcosa che fiammeggia oltre la fotografia, è la speranza, forse, della fine delle botte, della fame, dei riformatori… la fine degli abusi, delle lacrime rimaste invendicate… è la fine della disperazione e la conquista della parola. “La speranza è per loro [per tutti i “quasi adatti”] qualcosa da mordere, da mettere fra i denti… con la speranza fra i denti si ha la forza di tirare avanti anche quando la fatica non dà tregua, si ha la forza, se necessario, di trattenersi dal gridare al momento sbagliato, la forza soprattutto di non urlare. Una persona con la speranza fra i denti è un fratello o una sorella che incute rispetto. Coloro che sono senza speranza nel mondo reale sono condannati alla solitudine” (John Berger).

Tutto vero. Si vive al di qua dell’utopia e si muore al di là della soglia del reale, sempre. La fotografia della realtà degli Scugnizzi / Caracciolini — la ritrattistica di studio o l’immagine rubata nella strada, nei vicoli, sulle banchine di Napoli o sulla nave-asilo —, e/segue un ordine indiziale e non aderisce al reale come somiglianza… supera il foto-documento e diviene testimonianza di qualcosa che è stato… la realtà è vista come rappresentazione e non come effetto della realtà… la fotografia della realtà così affabulata “definisce il senso fotografico come indice, come traccia significante il cui legame con la cosa che rappresenta è quello di essere stata fisicamente prodotta dal suo referente” (Rosalind Krauss). 

Quel che ho ricevuto in eredità dalla fotografia popolare — diceva — è la speranza di un amore vero… il candore della conoscenza dei primi passi, la saggezza selvatica che a volto scoperto manifesta la bellezza della speranza e inchioda la verità delle rovine nella limpidezza dell’amore. Nei cieli svaligiati delle parole volate via e nelle vestigia delle immagini che aggirano amabilmente le difficoltà e le imposture legiferate, non c’è più nulla da leggere. La figurazione dei corpi, l’anatomia dei segni, la psicologia degli sguardi di questi ragazzi di strada si legano a una filosofia morale che li trasporta fuori dall’industrializzazione del ritratto fotografico celebrato dopo il 1860 e sopravvissuto, profanato, distorto o evangelizzato fino ai nostri tempi… qui le meraviglie e le possibilità della fotografia mostrano che la fotocamera si introduce là dove l’occhio umano non coglie che frammenti di vita… nei primitivi della fotografia c’è già tutto ciò che serve a un fotografo (anche dopo la rivoluzione digitale) alla restituzione di un pensiero che è traccia di verità o ingiustizia… la fotografia contiene ed estende le tecniche e le estetiche di ogni forma d’arte e s’instaura nella storia come strumento ereticale di percezione simbolica che può modificare punti di vista o suggerire intenzionalità politiche o mercantili tese alla dominazione delle masse. Le scritture socio-estetiche della fotografia di strada, in modo particolare, costituiscono o costruiscono situazioni nelle quali gli enunciati (le immagini) si chiamano fuori dal narcisismo delle mode e delle convenienze e inaugurano una visione altra della realtà… fare fotografie dunque è una sorta di condivisione con l’ascolto e raccogliere così storie e testimonianze di ciò che gli uomini, le donne stanno vivendo o soffrendo. 

Gli equivoci e i pregiudizi sull’arte della fotografia sono molti… “il pregiudizio oggettivista, innanzitutto, che identificava la specificità della fotografia, in nome di un concetto feticcio di arte incontaminata dalla tecnica — meccanismo di difesa abbastanza trasparente che vediamo riprodursi con puntualità ogni qualvolta una cultura dominante o parte di essa veda profilarsi una minaccia alla propria legittimità costituita — infine l’equivoco individualista, luogo comune accreditato da un certo tipo di discorso psicologico, che situava la pratica fotografica nella sfera pressoché imprendibile della fantasia individuale” (Milly Buonanno). Le scritture fotografiche più alte, come quella degli Scugnizzi / Caracciolini, non sono un fare-fotografia estemporaneo o soltanto tecnico, scritturale, ma un lavoro di scelte etiche ed estetiche che colgono la democratizzazione del ritratto fuori dai canali della ricettività collettiva e dal ricordo o dalla nostalgia del “come eravamo”. Ogni opera d’arte riflette la personalità intima del suo autore. La fotografia sociale è la scelta dei significati che proclama e in una certa misura afferma le intenzioni esplicite dell’autore: “Incapace dell’arte raffinata della contemplazione silenziosa e immota che si impone davanti a certi paesaggi o a certi monumenti [a certi volti…], il fotografo impenitente [il fotoreporter del sangue facile, il pubblicitario senza estro, l’esteta di crocifissioni inconfessate, il fotoamatore imbecille…] si esaurisce in una laboriosa ricerca di immagini. Finisce per dimenticare di guardare ciò che fotografa, viaggia senza vedere e non riconosce mai altro che quello che il suo apparecchio gli restituisce… Nel linguaggio di tutte le estetiche, la frontalità significa l’eterno, in opposizione alla profondità attraverso la quale si reinserisce la temporalità, e il piano esprime l’essere o l’essenza, in breve, in temporale” (Pierre Bourdeau). 

Tutto vero. Il ritratto, più di ogni altra forma del fotografare, è sempre un autoritratto, l’oggettivazione dell’immagine di sé negli occhi dell’altro. Il valore di una fotografia si misura innanzitutto dalla bellezza implicita dei ritrattati (non importa a quale strato sociale appartengano) e più di ogni cosa la fotografia è sempre un’interrogazione o segno di qualcosa che non è o che stato tradito. Lo scandalo della fotografia popolare è quello di non “illustrare”, riprodurre, falsificare i significati, ma di rinviare il proprio discorso fuori dalle norme consacrate e dal discredito obbligatorio devoti al mercimonio della “cultura colta”.

Critici, storici, mercanti del tempio della fotografia… tuonano dalle loro tribune, erudizioni culturali sulla fotografia che non conoscono né praticano… la gerarchia della legittimità fotografica passa dai loro scanni, dalle loro riviste, dai loro saggi dove dissertano su tutto il sapere dei linguaggi fotografici e nulla sanno del sangue dei giorni della fotografia popolare… i fotografi appassionati, romantici o utopisti, coloro che sono sempre a un passo dalla galera o dalla follia (o dalla poesia, forse), “rompono con le regole della pratica comune e si rifiutano di conferire alla loro attività e al suo prodotto, il significato e la funzione riconosciuta” (Pierre Bourdeau)… sono loro che sviluppano la teoria estetica delle loro opere e interpretano l’esistenza della fotografia come arte autentica. La fotografia popolare degli Scugnizzi / Caracciolini va a sconvolgere l’ordine convenzionale del visibile che esce dalla tradizione pittorica e letteraria come percezione dell’esistenza, fuori dall’obiettività e dalla perfezione estetica va — oltre la posa — e si assume il coraggio di rispettarsi e di rispettare come esigenza creativa. I fotografi-artigiani degli Scugnizzi / Caracciolini hanno lavorato sulla trasposizione del significato e fatto emergere la bellezza del linguaggio fotografico. “Per la mentalità moderna, la distanza tra etica ed estetica è chiara. 

L’estetica può rimanere personale e relativa. L’etica ha scopi universali” (Luigi Zoja) . Per i filosofi greci la bellezza è intimamente legata alla giustizia, sono due diverse facce della stessa qualità: la virtù e l’eccellenza, diceva. La bellezza è uno stile, la giustizia è il florilegio della sua poesia. Il realismo della realtà è tutto qui. Qualunque imbecille può fare una buona fotografia, ma solo un poeta può comprendere e cogliere l’immagine della bellezza e della giustizia come testimonianza del proprio tempo… di nessuna chiesa è la fotografia popolare. (continua..

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