II. Sulla fotografia in clandestinità a Buchenwald
La fotografia in clandestinità o di resistenza è un linguaggio che mette in relazione esseri ed eventi e designa la “zona aurea” dei valori calpestati… è uno stato del desiderio che intende rompere i meccanismi della macchina penale… la cenere degli innocenti è il giudizio che cade sui colpevoli e sull’inumano delle potenze diaboliche che servono… détournement (deviazione) da e con Gilles Deleuze-Felix Guattari sulla letteratura minore: Una fotografia minore non è la fotografia di una fotografia minore, ma quella che una minoranza fa in una fotografia maggiore[1]. La fotografia in clandestinità è una deterritorializzazione della lingua… un concatenamento dell’enunciazione imperfetta del visivo… né messa a fuoco, né composizione curata, né estetica del miserabilismo. La fotocamera è un vocabolario disseccato di tutte le implicazioni linguistiche dell’immaginale fotografico… è strumento estensivo e rappresentativo dell’immagine che regna sovrana sull’avversione alla sintassi utilitarista e raccoglie il grido di dolore che cade nell’attimo rapito alla storia dei carnefici… permette di tendere verso il limite d’una nozione o di superarla e innesta direttamente l’immagine nell’epifania che la detta. La fotografia in clandestinità è una lingua senza patria, una eco etica/estetica che sorge dall’ostinazione contro l’ingiustificato… una poetica che associa verità irrespirabili a devastazioni che ripercorrono le effigi di schiavitù millenarie.
La fotografia in clandestinità è confessione e anatema insieme… slabbrata, imperfetta, sfocata… la fotografia di resistenza o clandestina porta in sé una metafora del visibile, poiché “la fotografia è l’incosciente dello sguardo” (Walter Benjamin), opera allo stato intuitivo, istintuale e non ha niente o poco a che vedere con le logiche tecnologiche che la incasellano in manuali di proscrizione e vagiti d’arte, tutti piegati alla geometria delle frustate da reportage. La fotografia clandestina costruisce, frammento dopo frammento, la qualificazione di un mondo o lo squalifica… c’è del genio nella fotografia, come in ogni arte, ed è in colui che ha la forza di rendere la propria visione della vita simile a uno specchio, e consiste nella qualità espressiva che si fonda nella surrealtà dell’evento rappresentato.
La fotografia in clandestinità è nell’atteggiamento del fotografo in rapporto al soggetto, l’immagine che si rispecchia nella forma e s’inchina al contenuto come in uno specchio: “Quando si fa un inchino di riverenza di fronte a uno specchio, anche l’immagine riflessa si inchina a se stessa […] Se accendi una lanterna per un altro, anche la tua strada ne sarà illuminata”, il filosofo Nichiren Daishonin (1222-1282), diceva[2]… la visione-immagine clandestina è un impronta-segno che si crea in amore dell’uomo e in difesa della vita e della dignità… e scaturisce dalla creazione di valore che l’uomo da a se stesso… un canto spirituale, anche, che illumina il cammino di un nuovo umanesimo.
Georges Angéli (1920-2010)… fotografo di nazionalità francese (alcuni storici l’hanno registrato come inglese), deportato a Buchenwald, riesce a fotografare (in clandestinità) frammenti di vita reclusa del campo. All’età di 19 anni Angéli è nell’esercito francese e sulla nave che lo porta in Algeria apprende la fine della guerra… resta a Blida fino al 1942. Torna nella Francia occupata dai nazisti… fa il fotografo a Poitiers, poi è costretto al lavoro obbligatorio per la costruzione del Vallo Atlantico (fortificazioni costiere del Terzo Reich). Diserta e cerca di raggiungere la Spagna. All’inizio del 1943 lo arrestano vicino a Perpignan e viene internato a Castillet e a Compiègne… lo mettono su un treno con prigionieri ed ebrei francesi e lo scaricano a Buchenwald il 27 giugno 1943, registrato come 14824 e assegnato al Photo Kommando. Il mestiere di fotografo salva Angéli dalle camere a gas… è addetto alle fotografie d’identificazione (immagini antropometriche) dei condannati e alla camera oscura. Di nascosto duplica le stampe delle esecuzioni dei deportati, dei mucchi di morti, delle torture dei carcerieri e le archivia per l’uso a venire di smascheramento dei crimini nazisti.
[1] Gilles Deleuze, Felix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, 1996
[2] Hazel Henderson, Daisaku Ikeda, Cittadini del mondo. L’impegno di ognuno per sostenere un futuro possibile, Sperling & Kupfer, 2005
Nel 1944, nella soffitta della baracca trova alcuni strumenti fotografici… tra questi c’era una fotocamera Zeiss Ikon Box Tengor (dice la figlia Catherine Glasz)… ruba un paio di rotoli di pellicola 6×9 e una domenica pomeriggio, insieme a José Fosty, Raymond Montégut e André Maes, che gli fanno da schermo… avvolge la fotocamera in un giornale, ci fa un buco, imposta l’obiettivo 3 m-infinito e scatta sedici immagini (dodici riescono bene, dicono): Il piazzale dell’appello, la stazione d’ingresso, il crematorio, l’albero di Goethe con la cucina e il negozio di abbigliamento, la piccola infermeria del campo, il blocco delle cavie, le latrine, il cinema… mette le fotografie in una scatola di latta e la nasconde sotto il pavimento del laboratorio. Il campo viene bombardato dagli alleati, Angéli rovista tra le macerie della baracca, recupera la scatola di latta e la seppellisce sotto le scale del Blocco 40… dopo la liberazione torna in Francia e cerca di far conoscere le angherie del campo di Buchenwald, ma inizialmente le sue fotografie non riscuotono molto interesse[1]. La memoria pubblica francese, ancora sconvolta dal collaborazionismo con gli invasori, forse non voleva affrontare la raffigurazione del genocidio nazista, ormai documentato in tutte le sue più profonde degenerazioni e repellenze[2]. Sulle illusioni delle dittature abortite, nulla eguaglia le atrocità del nazismo.
Le immagini rubate di Angéli sono piuttosto confuse, sfocate, mosse, sgangherate… e non poteva essere altrimenti… se fosse stato scoperto le SS l’avrebbero torturato a morte… come era accaduto al suo predecessore (Rudolf Opitz), sorpreso a esportare fotografie del campo… tuttavia quel pugno di immagini contengono la furia antisemita nazista che nessun tentativo di rimozione può scongiurare… sono istantanee che hanno l’enorme valore di decodificare la profanazione della bellezza e della giustizia, e ogni fotografia dice di più di quanto non esprima a un primo sguardo. L’amplificazione spontanea della malvagità che inventaria il fotografo va oltre l’impietosa rappresentazione dei fatti… la visione resistente di Angéli richiama, leggermente, i diritti umani più elementari e le poche immagini scippate a Buchenwald registrano l’attesa, senza speranza, di corpi-ombre alla mercé delle persecuzioni naziste… ed è forse un’amara vittoria dell’umanità sulla barbarie.
A leggere in profondità alcune fotografie di Angéli (delle 16 stampate, sembra), si vede il tremito del fotografo al momento dello scatto e anche il coraggio dell’uomo che cerca nella fotografia la condanna degli eccidi nazisti… una sorta di fotografia-resistente fatta una domenica del 1944 nel campo di concentramento di Buchenwald che invita ad essere “ascoltata”. Nell’immagine dell’albero di Goethe, Angéli inquadra edifici e uomini che camminano con le braccia dietro la schiena sulla strada sterrata… la fila delle finestre bianche dell’edificio centrale sposta lo sguardo del lettore verso il faggio che dicono Goethe avesse piantato (come riporta Imre Kertész, Premio Nobel per la letteratura, 2002, e deportato in quel campo), altri sostengono che sotto le fronde di quell’albero “il grande poeta amava scrivere le sue opere”[3]. La fotografia di Angéli (quella non tagliata da esigenze redazionali, forse) contiene una notevole forza impressionista… il movimento interno all’immagine è singolare… le persone sulla sinistra, fuori fuoco, inducono il lettore ad attraversare l’intera inquadratura, quasi fosse una sequenza cinematografica… i tre uomini in primo piano s’incrociano con due uomini che camminano in senso opposto e nessuno si guarda… e tutto accade di fronte all’imponenza dell’albero spoglio, testimone compassionevole di un’illusione o di un’ingiustizia che frana davanti al male commesso e quello in atto. Il fotografo sembra fissare nell’immagine una sorta di legame dell’umano in difesa della vita e della dignità… una forza dello spirito che si riversa in fotografia e mostra il timore e il tremore di esseri umani, come vocaboli alla deriva della malvagità (non solo) ideologica.
Nella fotografia Dimanche au camp, Angéli si avvicina ai proscritti quanto basta per raccontare la rassegnazione o l’incredulità di uomini immersi nella fame, malattie infettive, umiliazioni corporali, distruzione morale e fisica di vittime designate… l’immagine coglie un gruppo di prigionieri davanti a una baracca, vicino al filo spinato… gli abiti a righe notificano la detenzione e nessuno si parla… si avverte una condanna sospesa e l’inevitabile che smussa ogni reazione… la sciagura di una comunità racchiusa tra una baracca e il filo spinato. La fotografia di Angéli ci mette davanti alla cruda realtà, è una descrizione di persone reali e della situazione che vivono tra la speranza e la morte. L’immagine si rovescia in un letargo di sopravvivenza o in una sorta di abolizione del tempo che separa l’immediato dal transitorio dei predestinati alla decimazione.
[1] Per allargare le vicende sulla fotografia rubata di Georges Angéli a Buchenwald, rimandiamo alle parole del fotografo apparse nella rivista Le Serment, n° 334, nov-dic. 2010
[2] AA.VV., Memorie dei campi. Fotografie dei campi di concentrazione e di sterminio nazisti (1933-1999), sotto la direzione di Clément Chéroux, Contrasto, 2001
[3] Helga Schneider, L’albero di Goethe, Salani, 2004
La fotografia del crematorio, attribuita a Angéli… e se non fosse così non c’importa poi molto, dato che rappresenta la faziosità antisemita nazista nel profondo della sua malvagità senza salvazioni… raccorda la bocca aperta del formo crematorio con resti di corpi umani… il fotografo l’inquadra a una certa distanza, come fosse un macchinario che ha inghiottito la morte e la rigetta di fronte all’ignoto in stato d’accusa… è un’opera di distruzione proterva e un’impronta al contempo della tragicità che la verità fotografica fissa nella storia del dolore. L’immagine è straziante… un tormento morale che ha pochi eguali… un pronunciamento irrecusabile dell’operazione di annientamento del popolo ebraico.
Angéli ha lavorato anche a una ritrattistica occasionale, “privata” delle SS del campo… nella mostra — Les photos volées de Georges Angéli, déporté de Châteaudun au camp de Buchenwald, curata dalla figlia Catherine Glasz e dalla nuora Josiane Angéli nel 2018 —[1], è stata esposta la fotografia di una SS ascritta al fotografo francese… pare facesse parte dell’archivio di Angéli (in parte inedito) e presenta una certa valenza linguistica-fotografica che ci sembra importante analizzare (quale che sia il suo autore). La SS è messa davanti a uno sfondo marrone, appena sfocato… ha assunto una postura da condottiero, fiero del suo operato d’assassino al servizio del Führer… la fotografia ha forse subìto un ritaglio fin troppo deciso… tuttavia il risultato va a toccare un accadere che relega il ritrattato alle sue responsabilità. Il fotografo l’incornicia nella fragilità di servo insicuro, non in ciò che questo aguzzino crede d’essere… l’inquadra di taglio e chiude il viso tra le mostrine delle SS e lo sguardo da ragazzo diligente in cerca del consenso del padre-Hitler, che l’immola all’inconcepibile di un Dio ciarlatano… le labbra serrate della SS tradiscono l’insania del suo operato e riverberano la salute incerta del suo pensiero. Il fotografo avvolge la SS in una fierezza inventata, in un’allusione esaurita, in un rimbecillito che mendica una qualche posterità.
Vogliamo ricordare che Buchenwald, uno dei campi di sterminio tra i più grandi della Germania nazista, venne costruito su una collina e un bosco di faggi nel 1937, a pochi chilometri da Weimar. Il numero complessivo delle vittime del lager è stato di oltre 50.000, tra le quali 11.000 ebrei. I medici nazisti praticarono esperimenti efferati contro gli omosessuali, i disabili, i bambini… piccole forme di resistenza agivano all’interno del campo già dal 1938 e quando arrivarono gli Alleati, Buchenwald era ormai sotto il controllo dei partigiani. Il comandante statunitense costrinse un migliaio di cittadini di Weimar a vedere la macabra realtà del lager… i filmati e le fotografie degli Alleati confermano una certa incredulità nei visitatori e al contempo l’atteggiamento legnoso di quanti sapevano e dicevano di non sapere… il fetore dei cumuli di cadaveri sui camion, fosse comuni ricolme di morti, prigionieri ridotti a scheletri… non sembrano sortire troppe lacrime nei bravi cittadini tedeschi… nemmeno i paralumi fatti con la pelle degli umiliati, teste miniaturizzate, posacenere di vertebre umane… in molti visitatori non sortiscono sgomenti o smarrimenti… sfilano davanti ai delitti dei loro connazionali in un paludato silenzio… i notabili della città fingono di prendere appunti… sulle loro facce non c’è un cenno di dissenso né di sorpresa… una giovane donna si mette un fazzoletto alla bocca… una signora dabbene sviene con una certa goffaggine, tutta hitleriana, e si sporca perfino il cappello… i più mantengono un’altezzosa quanto imbecille adesione alle pratiche degli assassini che hanno sostenuto in nome della grande Germania.
A questo proposito ci pare importante ricordare il documentario Memory of the Camps – Memoria dei Campi di Alfred Hitchcock (ha curato il trattamento con Richard Grossman e Colin Wills) e Sidney L. Bernstein (regia)[2]. Si tratta di un progetto dimenticato e per molto tempo rimasto inedito, realizzato nel 1945. Hitchcock e Bernstein utilizzano filmati grezzi della British Army Film Unit e dall’armata sovietica nei campi di sterminio nazisti appena liberati… il commento fuori campo è ironico, salace e non lascia scampo a giustificazioni o incomprensioni storiche. Si vedono anche splendidi nudi di donne che si fanno la doccia col sapone, ma questa volta sorridono alla vita. Finché vi sarà un solo tiranno (o uno stupido) in piedi, il compito dell’uomo in rivolta non sarà finito.
[1] https://www.lechorepublicain.fr
La fotografia clandestina di Angéli non divora la nostalgia ecclesiale del paradiso né teme d’incappare nel delitto d’indiscrezione dell’inferno… le poche imperfette immagini che ha rubato alla cattività nazista sono prodighe di amorevolezza verso l’altro… dissotterrano memorie falcidiate, vergogne imperdonabili, legittimazioni ideologiche che fanno ribrezzo… sono un prezioso servizio contro gli squilibrati, i deficienti, i criminali ossessionati dal potere… poiché le ragioni dell’assassinio di massa sembrano non essere mai tramontate e i successori di Hitler si celano dietro i paraventi delle armi e nuove carneficine che scuotono l’intero pianeta… occorre respingere l’eredità della violenza che alberga nei grandi tavoli internazionali di pace… capire che la civiltà dello spettacolo rappresentata negli indici di profitto della Borsa del petrolio, del gas, dell’acqua, dell’oro, dei diamanti (dell’impoverimento sistematico delle risorse naturali del pianeta)… sono una ripetizione della stessa rapacità, distruzione e volgarità della guerra, e i governi fanno tutti parte del medesimo disegno di colonizzazione, depressione e demagogia dell’immaginario sociale.
La violenza istituzionalizzata prolifera ovunque… l’economia di guerra è smerciata dalle grandi potenze e non ci sono differenze materiali… il disarmo generalizzato è il solo percorso di pace che porta a toccare la pace. Si uccide in Europa come in Africa, in Cina come in America Latina… le strategie finanziarie lo richiedono… le stragi sono documentate in una prolissità d’immagini che passano nella mediacrazia alla maniera della pubblicità… convincere, convertire, impaurire, sopraffare, educare alla passività, sono gli stilemi più abusati… l’ideologia del più armato detta la legge del profitto e i popoli sono trucidati per mano dei nuovi dittatori!
I persecutori di tutti i tempi riemergono nelle democrazie/oligarchie armate attraverso la manipolazione del linguaggio… i canali d’informazione (carta stampata, cinema, fotografia, radio, telefono, internet), quando non sono imbavagliati, sono deputati a stabilizzare la paura, a colpire la condotta personale e sociale e introdurla alla subalternità dei potentati… a orientare, smussare, reprimere tutte le proteste sovversive dell’ordine istituito. “Gli oppressori riempiono i cuori della gente di paura. Superarla e reagire all’immobilismo verso cui questa componente psicologica li trascina vuol dire permettere alle persone di liberarsi da sole dei propri vincoli interiori, dei propri pregiudizi, iniziando a vedere la realtà diversamente e comprendendo che solo unendosi e organizzandosi potranno mettere fine allo stato di oppressione che vivono” (Alfonso Pérez Esquivel, Premio Nobel per la Pace, 1980)[1]. Gli uomini si sono sempre abbeverati alla fonte delle illusioni, ecco perché non ci sono mai stati discepoli intorno a un disilluso, diceva! Solo lo sviluppo della solidarietà popolare può sconfiggere le forze repressive, poiché l’arroganza che esprimono si poggia sul consenso che i popoli concedono loro.
[1]Alfonso Pérez Esquivel e Daisaku Ikeda, La forza della speranza. Riflessioni sulla pace e i diritti umani nel terzo millennio, Esperia, 2016
L’imperversare della violenza strutturale in tutte le sue perversioni economiche, politiche, culturali, supplisce all’insufficienza della ragione e contagia la maggior parte dei nostri mali… perseguire le farmacopee di sfruttamenti, oppressioni, discriminazioni, povertà, massacri… significa accettare il fallimento dell’umanità. I diritti umani devono essere posti al di sopra della sovranità dello Stato, poiché il viatico che porta dalla liberazione alla libertà è la prima e la sola vittoria dell’uomo sull’infelicità prodotta dall’egemonia del profitto, e dove c’è solo il profitto il cretinismo e il genio si confondono, poiché è sempre quello che ammiriamo o al quale sottostiamo a qualificarci buffoni o cortigiani!
Per distruggere il male si dovrebbe inceppare gli strumenti di morte del male… e l’amore è il primo segno che ispira stima e rispetto di sé nell’erranza amorosa della sua perdita. Ti amo come tu mi ami, diceva… abitare l’inabitato dove giacciono i mattini di luce e madrigali di annunciate promesse, lasciano la lettera intatta del giusto, del buono e del bello sulle ali bruciate degli angeli. La dismisura dell’amore recalcitra inconfessati smarrimenti e insoliti pugnali feriscono fiori di pioggia. Tutte le sorti sono raccolte nell’infinitezza dell’amore che riusciamo a darci e l’inamovibile presenza dell’amore si stringe alle mani bambine che prendono l’aurora in ostaggio… è l’amore che traccia il sentiero e designa cieli inadempienti dove ogni frase è scritta nella saggezza delle stelle.
Quelli a cui è stato tolto il diritto di vivere si deve allungare la mano, disse il viandante di cori spezzati… e gli eterni sorrisi sono sempre attraversati da immagini d’infanzie mai perdute, di cuori-fanciulli che si letiziano in universi condivisi e si oppongono alla pagina sgualcita della vita che resta memoria di muri abbattuti e farfalle in rivolta nel blue. E allora disertare, sabotare, sovvertire i linguaggi che discolpano o sostengono i conflitti armati e passare alla delegittimazione d’ogni economia di guerra significa che la mia parola è no!… spingere il tumulto ovunque, vuol dire che la pace non si concede, ci si prende. La libertà si fa spezzando le catene della sottomissione e della rassegnazione… se vogliamo conseguire la libertà, occorre lottare contro le forze che la reprimono… e ci vuole una certa dose di ribellione soggettiva e collettiva per incamminarsi verso la fraternità, l’eguaglianza, la solidarietà tra spiriti liberi che portano a debuttare nella resistenza al presente… la rivoluzione dell’umano nell’uomo non potrà mai essere concessa ma conquistata, e sarà conquistata soltanto attraverso la lotta dei cittadini del mondo.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 5 volte aprile, 2022
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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