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GLI SCUGNIZZI / CARACCIOLINI: IMMAGINI DI UNA MEMORIA NAPOLETANA 4° Parte

di Pino Bertelli

La povertà è ricchezza dei popoli

Per una filosofia del pane duro. La povertà è ricchezza dei popoli senza l’orgoglio del vizio elitario. Le insurrezioni nel mondo arabo, le guerre del capitalismo finanziario, i nuovi colonialismi del capitalismo di Stato che si definisce comunista e l’espansione dell’indignazione ovunque è stata strozzata la dignità, il rispetto, il diritto degli uomini, delle donne dei bambini a una vita più giusta e più umana. I crimini commessi dai governi delle nazioni ricche sono innumerevoli e restano impuniti… i giochi sporchi delle banche, delle multinazionali, dei mercanti d’armi… sono alla base della società mercantile e “la disumanità cede il posto alla sua immagine, il trauma si innalza a oggetto di spettacolo” (Raoul Vaneigem) (22)… l’ingiustizia e il mercato dell’illusione civilizzatrice non mostrano nessuna clemenza e assicurano il profitto ai crimini del potere.

(22) Raoul Vaneigem, Né vendetta né perdono. Giustizia moderna e crimini contro l’umanità, Elèuthera, 2009

 

La giustizia dei ricchi li assolve di ogni delitto e il discorso universale dell’oppressione è al centro della politica ufficiale… il libero profitto è il boia che mette alla gogna le umane libertà. “Non ci sono persone sviluppate e non ci sono neppure società sviluppate, per cui non ci sono paesi sviluppati. L’idea di paesi sviluppati, superiori, arroganti, che donano ai paesi sottosviluppati è priva di qualsiasi fondamento. Bisogna ritornare a fare diversamente, perché ci troviamo tutti in un mondo mal sviluppato. Bisogna che ci impegniamo tutti e insieme a guarire questo mondo mal sviluppato, imparando dagli altri ciò che ognuno può offrire di positivo per la sopravvivenza dell’umanità” (Albert Tévoédjré) (23). I falsi bisogni sono la merda dell’umanesimo consumerista, il fucile, l’aspersorio, i dividendi delle banche i rituali con i quali i mercenari dell’odio cercano di affossare (inutilmente) la nascita di un universo libero, egualitario e fraterno.

(23) Albert Tévoédjré, La povertà è ricchezza dei popoli, EMI, 1985

Il Maggio 1968 — ricordiamolo — è stata una gioia generazionale che ha fatto tremare l’autoritarismo della politica e l’arroganza dei padroni… finché la libertà sarà solo quella della merce, finché i popoli saranno violentati e depredati delle loro culture e delle loro ricchezze, l’applicazione della giustizia sarà determinata dai bravacci dell’ordine dominante. L’uomo nasce libero, ma ovunque è oppresso. Nell’epoca del dispotismo spettacolare, solo il valore d’uso delle nostre passioni possono turbare l’impero (che regna ma non governa)… tuttavia la tempesta di pezzi di popolo insorti (in Africa, Europa, America Latina, Cecenia, Cina…) interroga la menzogna istituzionale e dappertutto i miti del potere vacillano o crollano. Chi va alla politica s’“infarina”, e come diceva un filosofo eretico (il barone Paul Henri Thiry d’Holbach), la fermentazione della farina genera la nascita dei vermi. 

La bellezza della povertà, della miseria, dell’abbandono che gli Scugnizzi napoletani (i Caracciolini) hanno scritta in faccia, nei corpi, negli sguardi… è una confessione e un anatema contro quelle carogne che fanno dileggio di usare l’infanzia come la discarica della loro incapacità di comprendere il diverso da sé, lo svantaggiato, l’umiliato, l’offeso… fotografare è un modo di conoscere e di conoscersi. La fotografia è un atto dello spirito o non è niente… la fotografia autentica è un’intuizione di aurore poetiche che non hanno ancora brillato fino in fondo, tuttavia, quando la fotografia è compiuta figura il vocabolario dell’umano e lo sguardo del fotografo si capovolge in una visione del mondo che è fuoco, acqua, vento e si emancipa nel sudore dell’imperfezione.

La fotografia è l’epifania di un sogno che debutta dalla fine… esprime un doppio immaginario, quello del fotografo e quello del fotografato… da un’immagine presa nella consapevolezza o nella surrealtà della propria creatività, il diverso da sé diventa storia. Solo là dove ci sono ombre, timori, cadute, anche estreme, ci sono resurrezioni.

L’abbiamo scritto altrove e lo scriveremo sempre… la qualità della fotografia mercenaria è (quasi) sempre scadente… niente è vero dove tutto è falso e impera l’impostura dell’arte come sinedrio dello spettacolo… i fotografi sovente sono l’autoritratto della merce che incensano e che la fotocamera sia analogica o digitale è sempre la medesima cosa, sono parte della domesticazione sociale figurata nella civiltà dello spettacolo.

La cartografia della fotografia dominante non vuole poeti né passatori di confine e i rimbecilliti del consenso a tutto quanto fa successo (televisivo, specialmente) impongono l’arte (morta) dell’apparire… la maschera al posto del volto informe, la finzione al posto del gesto virtuoso… l’espressione dello stile è la distinzione che passa tra l’osceno e la volgarità… ciò che la fotografia non uccide, fortifica la bellezza della sua unicità… elogio della diversità e pratica del frammento (non solo in fotografia) emergono da una dialettica tra significante e significato e mettere in campo il primo, significa fare del secondo l’origine di tutto il bene o tutto il male del mondo.

L’iconografia degli Scugnizzi / Caracciolini napoletani è un’impronta archetipale (24) nella storiografia fotografica (politica, filosofica, culturale) di quella città/ mondo che è Napoli… sono immagini surreali, anche, che attraversano i nostri sogni a occhi aperti e sono inconsciamente presenti in tutta la nostra coscienza e conoscenza, come tracce indelebili di un sopruso troppo a lungo sopportato… a vedere in profondità la luminosità magica di quei ragazzi di strada, scorgiamo che non sono relitti abbandonati a destini sovente atroci, ma, al contrario, costituiscono l’accesso alla conoscenza come poche volte ci è capitato di vedere nella fotografia d’impegno civile… a partire proprio dalla bellezza della loro esistenza ferita, possiamo elaborare una psicologia dell’anima che si fa immagine e rompe i confini obbligati del bello come arte da galleria… l’immagine edulcorata della povertà è sempre al servizio di un ammaestramento, quella della bellezza del vero è un canto atonale contro la mediocrità delle convenzioni.

(24) La parola archetipo deriva dal greco antico ὰρχέτῦπος col significato di immagine: tipos  (“modello”, “marchio”, “esemplare”) e arché (“originale”); è utilizzata per la prima volta da Filone di Alessandria e, successivamente, da Dionigi di Alicarnasso e Luciano di Samosata. Il termine viene usato, attualmente, per indicare, in ambito filosofico, la forma preesistente e primitiva di un pensiero (ad esempio l’idea platonica); in psicoanalisi da Jung e altri autori, per indicare le idee innate e predeterminate dell’inconscio umano; per derivazione in mitologia, le forme primitive alla base delle espressioni mitico-religiose dell’uomo e, in narratologia, i meta- concetti di un’opera letteraria espressi nei suoi personaggi e nella struttura della narrazione; in linguistica da Jacques Derrida per il concetto di «archiscrittura»: la forma ideale della scrittura preesistente nell’uomo prima della creazione del linguaggio e da cui si origina quest’ultimo. L’archetipo è inoltre utilizzato in filologia per indicare la copia non conservata di un manoscritto (l’originale) alla quale risale tutta la tradizione (le copie del manoscritto originale). http:// it.wikipedia.org/wiki/Filosofia.

 

Nel linguaggio fotografico, a nostro avviso, Eugène Atget, Jacob Riis, Lewis Hine, August San- der, Diane Arbus, Tina Modotti, Roman Visniac, E. J. Bellocq, Sebastião Salgado o gli anonimi fotografi degli Scugnizzi / Caracciolini napoletani… sono gli affabulatori più importanti dell’immagine archetipale… dove la percezione è subordinata all’immaginazione… nelle loro opere l’autenticità della fotografia riflette l’infinità dell’anima e i sogni o le utopie disseminati nei frammenti di vita sottratti alla discriminazione sociale, restituiscono alla coscienza/conoscenza il senso profondo di bellezza e di ingiustizia… quando si dà più spazio all’amore, il grado di libertà aumenta… poiché nella percezione della fotografia di strada è il soggetto, e non l’oggetto, ciò che si percepisce attraverso il cammino in utopia che approda a una società di liberi e di uguali.

La fotografia che frantuma la realtà e ne restituisce la storia denudata, è un’immagine del profondo e fissa negli occhi del lettore il divenire di un sentire sociale che appartiene agli ultimi… possono parlare della fame solo quelli che l’hanno vissuta e non conosciuta sui libri… la psicologia della verità che è al fondo delle fotografie degli Scugnizzi / Caracciolini è portatrice di messaggi, emissaria di sogni, è una disperata vitalità… un Archetipo… “e non rimanda tanto a qualcosa che è, quanto a un gesto che si compie… la psicologia archetipica sostiene che il vero iconoclasta è l’immagine stessa, che frantuma la crosta dei suoi significati allegorici e libera nuove e sorprendenti intuizioni” (James Hillman) (25). 

(25) James Hillman, Fuochi blu, Adelphi, 1996

Tutto vero. L’immaginazione acquista realtà soltanto se la verità trasmuta in metafora della vita offesa.

Non si abita la fotografia, si abita un modo di vedere… si può fotografare solo ciò che si prova… il resto è amarezza del contingente o vanità del sempre uguale… ecco perché i successi della fotografia mercantile fanno così male agli occhi… la sterilità delle idee è l’apoteosi del nulla celebrato ovunque e dappertutto e la civiltà dello spettacolo conserva ai propri servi il posto dei cani da passeggio! “Vi è del ciarlatano in chiunque trionfi in qualsiasi campo” (E.M. Cioran). La sola fotografia che vale è quella degli eresiarchi di ogni eresia… che conferisce al piacere l’innegabile forza eversiva che interroga ogni potere… non si può resistere davanti a fotografie celebrate dai falsi demiurgi dell’evanescenza senza impugnare una torcia e appiccare il fuoco a tutto, anche ai fotografi con il Martini in mano e l’oliva in bocca.

Storici, critici, mercanti (che mai rinunciano alla santità della merce) sono di facile combustione… si può essere fieri di ciò che si è fatto, ma si dovrebbe piangere per la manchevolezza di non averlo fatto prima!… a parte la fotografia sociale di Pietro Gori, tutto è menzogna… non scherziamo affatto… non si può assistere impunemente all’ondata di stupidità della fotografia che avanza sui lavatoi sporchi di sangue innocente del mercato globale… non si può assistere senza impazienza per più di un quarto d’ora alla disperazione degli sfruttati, degli oppressi, dei violentati… senza un moto di rivolta profonda… le grandi verità si dicono sulla soglia della fotografia che partecipa all’insurrezione dei popoli… non ci sono tiranni da rimpiangere, e nemmeno farabutti della politica che insegnano l’arte della sottomissione… le leggi, la galera e le confessioni fanno il resto. La missione di ciascuno (anche senza macchina fotografica) è portare a buon fine la bellezza, la fraternità, l’accoglienza del diverso da sé… nell’animo di un fotografo (come di qualsiasi uomo) alberga un imbecille o un poeta.

La poetica fotografica addossata agli Scugnizzi / Caracciolini è meno rozza di quanto si creda… non c’è folclore in queste immagini… non c’è il giudizio fotografico della polizia e nemmeno quello spesso severo ma ingiusto dei giudici… gli anonimi fotografi napoletani conoscevano a fondo i soggetti messi in posa davanti alle loro fotocamere e, come si vede bene, i loro scatti aderiscono al dolore antico scritto sulle facce sporche dei ragazzini… in questo senso, fotografi e fotografati aderiscono alla medesima condizione sociale e restituiscono alla storia un’immaginazione raffinata e vivace… l’immagine così fatta restituisce alla verità la cattività di un tempo e, al contempo, è un curare il conformismo delle istituzioni dalle aberrazioni delle proprie certezze… la fotografia napoletana delle origini non trova negli oracoli dei potenti la propria grandezza, ma nella bellezza angelica (non angelicata, ma rivelatrice) degli Scugnizzi / Caracciolini che essi abitano.

La fotografia della dissipazione (a Napoli come nelle periferie invisibili di ogni metropoli del mondo) che interpreta e fa sua, del resto, non è altro che la magnificazione dell’eccesso e come diceva Blake, “la via dell’eccesso porta al palazzo della saggezza”. Non c’è bellezza senza la piena consapevolezza che l’amore non sarà mai sconfitto e nell’ascolto dell’amore (in ogni forma d’arte) tutti i sistemi di crudeltà, sopraffazione, vessazione, saranno sconfitti con la rivoluzione del cuore. La malinconia è un lavoro dell’animo sensibile e rivela la singolarità e l’unicità dell’uomo, della donna, del bambino… bisogna vedere l’invisibile, distinguere le molteplicità, le sfumature in un suono, un colore, un’esistenza… restare sorpresi nella condivisione del dolore e fare della propria vita l’invito al viaggio dove ogni forma espressiva annuncia un atto di liberazione futuro. In arte, come in amore, tutto è permesso.

La fotografia autentica è fatta dello stesso dolore o della stessa bellezza di cui sono fatti i sogni… è non importa scomodare Shakespeare per comprendere che la grazia della fotografia è disincarnata nell’immaginazione libertaria… dove la verità della fotografia cessa di essere principio, cessa anche di essere fine… la fotografia della tenerezza è sempre legata al desiderio di bellezza e di grazia che si contrappongono alla stupidità mercantile contemporanea… la fotografia che non si affranca all’uomo che soffre (o a quello in rivolta) non vale nulla. Soltanto la fotografia autentica ha diritto alla bellezza… si tratta di rifiutare la cultura dell’ostaggio e aderire al negativo che la spezza… l’arte senza museo è nella strada… lì si trova il divenire della conoscenza e solo un’estetica sovversiva trasfigura il vero nella poesia o nella derisione dell’arte.

Gli sguardi degli Scugnizzi / Caracciolini ci guardano… la verità vuole le sue immagini e, se non le trova o le tradisce, fabbrica i suoi surrogati… la fotografia che trascura il benessere dell’anima, spinge l’anima verso verso la degradazione esistenziale, verso la sopravvivenza randagia e rivela le zone d’ombra della società dell’apparenza… l’iconografia degli Scugnizzi / Caracciolini infatti, mostra quella parte della morale, dei valori dei quali la società perbenista non parla… il rinnovamento dello spirito è la comunione con l’altro e avviene sempre là dove il bello, il vero, la giustizia diventano il sale della terra… la fotografia che conta sta sempre nel fitto delle cose, nel rimosso, nella mischia, nel dolore o negli smarrimenti dell’amore perduto o mai avuto… è l’immagine del profondo di una persona che spinge l’autobiografia tra fotografo e ritrattati a compiere l’impresa.

 

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