Critica radicale della fotografia e sovversione non sospetta dell’immaginario
(V° PARTE)
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In pieno delirio della società mercantile chiunque ha il diritto di paragonarsi a Dio, allo Stato, alla Chiesa… tutte le ideologie, i sistemi, le fedi s’infrangono nel grottesco sviluppo della storia… l’idea di progresso contiene la continuazione delle guerre e dello sfruttamento rapace del pianeta… i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri più poveri… i migranti forzati sono i nuovi schiavi… le disuguaglianze crescono e servono a produrre una vivenza stazionaria… tutti sono aggiornati dai mezzi di comunicazione sui genocidi commessi dalle nazioni forti… l’oscenità della finanza alimenta il mercato delle armi come quello dei giocattoli per bambini… i partiti si giocano il consenso nei salotti televisivi e nel gregge di internet gli isolati di Facebook, Instagram, Twitter o dei blog, portano a compimento la medializzazione dell’immaginario. Il pensiero aziendale entra in ogni anfratto della vita e muta la percezione sociale… la società del controllo protocolla l’intera esistenza e la sorveglianza è l’abbecedario della comunicazione digitale. Il fascino dell’impossibile riporta a una lingua selvaggia dell’immagine che si porge al contenuto e ne fa uno stile. L’illusione della libertà passa attraverso l’utilizzazione passiva del linguaggio digitale… “l’iper-fotografia dischiude uno spazio autoreferenziale, iper-reale, completamente sganciato dal referente. L’iper-realtà non rappresenta nulla, essa presenta” (Byung-Chul Han). I Premi internazionali lo hanno capito bene e incensano la fenomenologia del dolore che implica la velatezza della verità… la rappresentazione è l’immagine-spazio della funzione, della manipolazione, dell’incantamento… ma la verità in fotografia e dappertutto consiste nel fatto di essere fatalmente inseparabile dal referente, ovvero dell’essere vincolata all’oggetto reale del referente (Roland Barthes, diceva). La fotografia è caratterizzata dall’amore e congiunzione col referente o non è nulla.
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Come può uno diventare un fotografo se non trascorre almeno una buona parte della giornata, senza passioni, senza utopie e senza libri? “Solo quando ci si è trovati, bisogna imparare a perdersi ogni tanto” (Nietzsche), e contare su quell’istante eterno del fotografare che si schiude alla verità come etica del dolore. Chissà che non si possa dimostrare — nelle arene dell’arte fotografica applicata anche all’ultimo dei ritardati mentali che leggono le riviste specializzate, i libri dotti, i ricettari dei corsi di fotografia dedicati all’arrampicata del successo mercatale —, ogni dieci anni un certo impoverimento del cervello… alla fotografia sontuosa bastano la filosofia di Epicuro, quattro amici, una compagna di sconfinate avventure, un coltello a lama larga, un cane randagio senza collare e pisciare controvento sull’albero della disumanità, per accogliere tutte le diversità e disporle in ascolto allo stupore e meraviglia della Sonata al chiaro di luna di Ludwig van Beethoven… poiché in un’immagine non c’è soltanto la memoria e la storia dell’uomo ma anche l’intera bellezza e cattività del genere umano.
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La fotografia dionisiaca germoglia nella presenza di un’assenza… non rappresenta un punto di arrivo, semmai la germinazione di un Imago che smembra le retoriche grammaticali della fotografia nell’incompiutezza di ciò che viene detto, esposto, disperso fuori dalla mistica della delazione spontanea o del riconoscimento appropriato che ne istituzionalizzano la merce… le poetiche di resistenza non è solo opporsi e rovesciare la tendenza culturale/politica del tempo stabilito… “è invece, la capacità di contenere, come in una bolla, ciò che va assolutamente salvato” (Paul-Michel Foucault) dalla macchina dispotica e mettere fine alle utopie sulla buona fotografia. Nei formulari di “visibilità” o “vendibilità” s’accalcano i commentatori saccenti… nell’epoca del narcisismo di massa la fotografia è protagonista di molti misfatti… e solo la poetica del tremendo di Rilke applicata all’immagine straccia la correlazione tra verità e realtà fuori dalle categorie assegnate dai predicatori del fotografare: “Il grande rinnovamento del mondo consisterà forse in questo, che l’uomo e la donna, liberati da tutti i falsi sentimenti e riluttanze, si cercheranno l’un l’altro non come opposti, ma come fratelli e sorelle, come vicini, e giungeranno a stare insieme come esseri umani” (Rainer Maria Rilke). Nel soggettario della fotografia, la creazione dell’esilio o dello sradicamento dal naufragio delle sommatorie spettacoliste è una disgrafia incomprensibile… non indica
vie di salvezza, né rende le persone migliori di quello che sono… né legittima nulla della creatività, dell’elaborazione, della ricezione o dell’uso dell’immagine fatta… tuttalpiù rivendica il profumo del pane fresco fatto in casa… né possedere né essere posseduti in niente… poiché ogni scrittura accademica è illegittima, perché appartiene all’ordine categoriale delle apparenze, l’ostinazione a capovolgere, disordinare, sovvertire la caligine degli dèi attraverso la finitezza della verità e la sua compiuta imperfezione, ci appare una necessaria violenza del sacro di cui ogni realtà è pervasa di buoni sentimenti… l’impoverimento senza fine della fotografia risale al comandamento di ciò che disse Dio a Adamo e Eva: “Mangia pure da ogni albero del giardino, ma dall’albero della conoscenza del bene e del male, non ne mangiare: perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai”. L’industria della fotografia è il soffio divino, la macellazione dominante e storicizzata della realtà. Si tratta di comprendere cosa non mettere al centro dell’inquadratura, ma riflettere sull’attimo decisivo dell’inquadrare e su come questo modifichi poi la percezione e il significato della cosa guardata. In questo senso la fotografia si trasforma in riscoperta della realtà in una risignificazione del proprio vedere. Proprio come il visionario Don Chisciotte che vedeva nei mulini a vento gli orrori dei giganti cattivi e nell’imperfezione della lotta rinnovava nel presente le possibilità di una prospettiva diversa della vita. Una cultura autoriale è per definizione antagonista… esplicita una ribellione contro i linguaggi istituzionalizzati, pubblicitari, spettacolisti… che sono gli utensili di domesticazione sociale dei dominatori. L’azione creatrice non va disgiunta da una distruttrice, Nietzsche, aveva annotato… fino a quando a ogni uomo non venga riconosciuta la sacralità di uomo libero.
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La fotografia spettacolista è un’inversione concreta della realtà, è lo specchio-ricettacolo del non-vivente. “Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione (…) Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini” (Guy Debord). La fotografia, presa nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto dell’industria culturale esistente… è il modello perentorio della vita socialmente dominata… “senza dubbio il nostro tempo preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere” (Ludwig Feuerbach)… la merce è il sacro e la cultura unificata è il prontuario che alimenta l’ideologia dello spettacolo della falsa coscienza… i fotografi possiedono già l’utopia di un tempo di cui non hanno che da possedere la coscienza per viverla realmente.
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La tragedia immacolata della fotografia è la conoscenza, altrimenti è una formula vuota… i fotografi marginali, quelli fuori letteratura sono i soli che se ne infischiano della modernità… vi è qualcosa di indecente nella fotografia spettacolista… non appena accetti il privilegio dei coatti del consenso, ne accetti anche la prostituzione. Nietzsche lo sapeva… anche una lavandaia può vedere cose che un filosofo nemmeno si sogna, figurati un fotografo!… tutto ciò che è detto con chiarezza, è insignificante!… pura merda!… si può prevedere tutto fuorché il destino/pensiero infame o in rivolta di una fotografia!… la fotografia autentica è la negazione della morale… se si è incapaci di odiare l’origine del male, si è incapaci di amare le disuguaglianze che ha provocato!… i demoni di Dostoevskij contengono l’etica della distruzione d’ogni forma espressiva tesa ad ingabbiare l’uomo nelle proprie origini di passatore di confine… l’atto di fotografare fa veramente parte della civiltà, come il cibo, ma non si deve fotografare come si mangia, poiché fotografare è qualcosa di sacro che non ha nulla a che vedere con la rispettabilità né con il riconoscimento… ogni fotografia che coglie nella bellezza la giustizia, ci toglie la voglia di potersi sopprimere… è qualcosa che aiuta a vivere… persino nelle scuole dovrebbero dire agli allievi: “Sentite, non disperatevi, tanto porte uccidervi quando volete” (Cioran). Di fronte a qualsiasi fotografia, anche la più sconquassata o la più atroce o la più insufflata nella stanchezza universale, senza la eco libertaria del suicidio mi sarei ammazzato subito.
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L’ombra e la grazia della fotografia racchiude in sé qualcosa di magico, di misterioso, forse di elegiaco, quando non corrisponde agli idiomi che la battezzano nella miseria del mercatale… la fotografia è la presenza o l’assenza del tutto o del niente… quando si classifica lo stupore o la meraviglia di un’immagine e non ne possiede né l’etica, né l’estetica del gesto, del sorriso o delle lacrime… impicchiamo l’immagine all’albero dell’ordinario… la fotografia che riproduce il linguaggio stabilito vede solo muri, la fotografia che interroga le frontiere dell’indicibile disvela orizzonti. Le fotografie autentiche sono soltanto fotografie? Non sono anche la brace che gracida sotto la cenere in attesa di farsi ancora fuoco? Fotografare è imparare a morire o a vivere nel disincanto del desiderio che non ha vergogna di nessuna nudità… la storia del linguaggio fotografico è la storia di un processo di accumulazione… una predicazione religiosa prossima alla barbarie… il rinnovato plebeismo della civiltà dello spettacolo. La filosofia della sovversione non sospetta dell’immaginario è una ferita inferta alla tempesta del pregiudizio e del luogo comune… è il superamento dell’impossibile che diventa possibile, è la verità che fa della bellezza il primo passo verso la giustizia… poiché vedere e amare sono la stessa fame che nutre il diritto di avere diritti. Non è sufficiente bruciare i fotografi che hanno fatto della fotografia la sozzura o l’indecenza, il postribolo delle loro idee inginocchiate alla merce soltanto. Bisogna piuttosto ignorarli o restituirli alle cloache della “bella borghesia” o della “sinistra al caviale” dalle quali sono usciti. Di alcuni imbecilli parleremo la prossima primavera di bellezza. Sia lode ora a uomini di fama.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 2 volte ottobre 2023
Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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