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PAOLA AGOSTi – Sulla fotografia DELL’INDIGNAZIONE

di Pino Bertelli

“…Ma non voglio parlare di me. Desidero parlare soltanto di fotografia e di ciò che possiamo realizzare con l’obiettivo. Desidero fotografare ciò che vedo, sinceramente, direttamente, senza trucchi, e penso che possa essere questo il mio contributo a un mondo migliore”. Tina Modotti 

Paola Agosti fotografo

Ouverture in forma di eresia. La strada della fotografia è lastricata d’imbecilli che ignorano che ogni immagine equivale a una lordura o a una purezza… la fotografia non s’insegna, si trova nella strada o nei cuori inqualificabili di inadatti a restare nell’ignoranza illuminata dell’arte o della comunicazione seriale e si danno l’esilio o all’urgenza di rivolte generazionali ai margini dell’eternità. La maggior parte dei fotografi (specie quelli celebrati nel mercimonio, ma anche gli adepti del fotoamatorismo d’accatto non scherzano in fatto di stupidità creativa) non sanno che al fondo poetico, etico, sociale che sta al di là delle apparenze non si accede se non in virtù di lesa maestà dell’ordine costituito… fotografare significa smascherare le menzogne dei mercati globali, denudare le cosche della politica, denunciare i trafficanti d’armi, scuotere (con tutti i mezzi necessari) le fondamenta delle dittature finanziarie, accendere i fuochi della disobbedienza sotto il culo dei potenti, e questa è la sola espressione accettabile dell’arte di fotografare.

“Andate e incendiate il mondo” sostenevano Ignazio di Loyola (e Hélder Câmara, uno dei fondatori della Teologia della liberazione)… solo l’amore dell’uomo per l’uomo e la fratellanza con gli esclusi della terra è in grado di difendere i diritti umani calpestati dall’indifferenza, dall’oblio e dal disprezzo dei governi… e solo sulla partecipazione autentica dei cittadini alle decisioni che riguardano il bene comune si può stabilire il governo del popolo, visto che tutti i poteri risiedono nel popolo e dal popolo derivano (si legge nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, 1789). “In ogni caso non dovrete trasformarvi in uomini della politica effimera o tanto meno in bonzi di un partito, in segretari di grandi organizzazioni socio-politiche e neppure in puri teoreti delle cosiddette scienze sociali cristiane. Guardatevi dall’aspirare al potere sociale e dall’affermare che si può servire tanto meglio il prossimo quanto più si dispone di potere” (Karl Rahner, gesuita e teologo tedesco 1904-1984). Di là da ogni irremovibile insurrezione dell’intelligenza, non vorremmo altro se non raggiungere la gioia spensierata a cui gli insorti del desiderio di vivere ci hanno preceduti e che noi, forse, non raggiungeremo mai, o invece è già qui, nelle nuove primavere di bellezza che hanno schiuso (non solo alla fotografia) le rivolte dei popoli oppressi.

Ci affranchiamo dunque a Simone Weil e al suo Manifesto per la soppressione dei partiti politici… perché “i partiti sono organismi costituiti in maniera da uccidere nelle anime il senso della verità e della giustizia”, diceva… chiunque ascenda al potere è sempre l’erede di tutti i vincitori sanguinari e come è entrato nell’uso comune, i trionfatori di ogni casta si spartiscono il bottino… la legittimazione dell’espropriazione materiale di ogni forma di libertà e della conseguente soggezione di sopravvivenza di interi popoli passa dall’obbedienza dei nuovi servi a una minoranza di saprofiti… la povertà diventa destino e l’ordine simbolico un prodotto sociale come rappresentazione immaginaria del mondo… solo una rottura profonda con la temporalità addomesticata dai “poteri forti” può innescare nell’immaginario radicale delle giovani generazioni (dei popoli impoveriti) elementi d’insubordinazione e quando la forza dell’Utopia si trascolora in insurrezione diventa storia.

È la fotografia? La fotografia che c’entra in questo discorso scanzonato da osteria di porto? Niente!… come la musica geniale di Mozart usata per una pubblicità di saponi o sui carri armati americani in Iraq (motto di spirito, forse)… con le cazzate espresse ad ogni levata elettorale dei tenutari dei parlamenti e le falsità celestiali/infernali dispensate dagli impostori delle chiese monoteiste. La Fotografia, scriveva un mio amico caro e maestro di eresie (recentemente scomparso), “è quel ready made per antonomasia che trasforma in arte un mucchio di spazzatura” (Ando Gilardi). Tutto vero. Come Ando sento il fascino delle sconfitte: “gli sconfitti non mi fanno paura, è ai vincitori che non giro le spalle. La guerra sindacale degli anni cinquanta del secolo scorso, perché è stata quasi una guerra, per me fu il meglio del niente dopo la guerra partigiana: la macchina fotografica si portava in spalla come il ferro di prima” (Ando Gilardi), questa è la Fotografia, il resto è merce.

Paola Agosti “fotografo” (non è un errore), sotto un certo taglio antropologico, è una dei pochi testimoni autorevoli della fotografia sociale italiana… le sue immagini raccontano le passioni libertarie di un’epoca in cui gli uomini, le donne, osavano avere speranze e utopie e attraverso una filosofia della lacerazione riabilitavano e umanizzavano un’esistenza che i potenti volevano addomesticata. L’immaginario fotografico della Agosti è figurato nell’indignazione, nella passionalità eversiva sovente repressa nel sangue… il suo fare- fotografia non ha mai smesso di meravigliarmi, anche di sbalordirmi… specie per quel suo spirito acuto che riversava nella fotografia senza riguardi a qualsiasi ragion di Stato… nelle sue immagini colte nella strada (ma non solo) si vede bene che il suo sguardo debordava fuori dalla commedia cronachistica o dalla ritrattistica occasionale, aveva compreso (in tempi non sospetti) che “l’esercizio del potere non si concilia molto con il rispetto dell’uomo” (E.M. Cioran), della donna, e tutto ciò che giova alla salvezza e alla potenza dello Stato è male. Il Daimon (lo spirito-guida) del suo fotografare è utopico, mai ingenuo… questo atteggiamento di fronte alla vita quotidiana le evita di soccombere all’imbecillità ideologica e fare della lucidità etica, poetica, esistenziale un dispositivo necessario al superamento del reale per la ricerca del vero.

Un’annotazione a margine (lascio agli scrupolosi della croce fotografica in- ternazionale d’inverare o dibattere quello che vogliono).

Paola Agosti nasce a Torino nel 1947. Qui frequenta il Liceo Artistico e l’Accademia delle Belle Arti. Nel 1968 si trasferisce a Roma e in quegli anni formidabili (dove anche i vini vennero più buoni e le marmellate sapevano di frutta) inizia l’attività di fotoreporter… viaggia molto in Italia, Europa, Sud America, USA, Africa. Nel 1976 inizia ad occuparsi della “condizione fem- minile” e fotografa l’emersione delle donne in rivolta e di quelle sfruttate. In Riprendiamoci la vita (1977) ferma nel tempo le intemperanze del femmini- smo e in La donna e la macchina (1983), raccoglie le immagini delle opera- ie nelle fabbriche dell’Italia del Nord. Nel 1984 realizza sessanta (magnifici) ritratti di scrittrici e poetesse italiane per la mostra (e il catalogo) Firmato donna, utilizzate poi nel libro di Sandra Petrignani, Le signore della scrittura (1984). Importante ricordare la trascrizione visiva del volume di Nuto Revelli, Immagini del mondo dei vinti (1979), dove annuncia con delicata partecipazione la fine della civiltà contadina in Piemonte. Poi è la volta di San Magno, fà prest (1981), con testi di Saverio Tutino, una ricerca antropologica su una festa religiosa nelle valli cuneesi. Con Dal Piemonte al Rio de la Plata (1988), esplora l’emigrazione piemontese in Argentina. Mi pare un secolo. Ritratti e parole (1992), che pubblica insieme a Giovanna Borgese, un libro d’arte a dire poco stupendo… si tratta di centosei protagonisti della cultura europea del ‘900 (con testi a cura delle autrici). Mundo Perro (1993), sono immagini (della tenerezza) sulla condizione dell’esistenza canina. Nel 1988, per il primo Salone del Libro di Torino, cura la mostra e il catalogo dal titolo Volto d’autore, novanta scrittori italiani fotografati da P. Agosti, L. Battaglia, G. Borgese, F. Giaccone, F. Scianna, F. Zecchin. La mostra sarà esposta poi alla Buchmesse di Francoforte nel padiglione dell’Italia. Nello stesso anno, per la seconda Conferenza Nazionale dell’Emigrazione, cura con M. Rosaria Ostuni, la mostra e il catalogo dal titolo L‘Italia fuori d‘Italia, un’assemblaggio di fotografie storiche e contemporanee sull’emigrazione italiana nel mondo. Le sue fotografie sono pubblicate sui principali giornali italiani, libri nazionali ed esteri, utilizzate anche in trasmissioni televisive. Dal 1974 ad oggi ha esposto in numerose mostre personali e collettive, in Italia, Francia, Germania, Canada, Argentina, USA, Gran Bretagna. Ha tenuto inoltre workshop sul reportage e sul ritratto. Il compitino è finito. Resta parlare della fame di fotografia e del realismo ma- gico/androgino che le sue immagini contengono. Fotografie che rigettano il diritto alla misericordia e alla pietà (che sono sempre stupide) e privilegiano la fotografia dell’indignazione pervasa da un’aura di giustizia sociale.

Sulla fotografia dell’indignazione

Quando la fotografia è rischio, questo è il momento della fotografia… la fotografia autentica emerge dai bordi della tentazione dove l’innocenza culmina nell’eccellenza etica/strutturale. Paola Agosti è “fotografo” di talento puro, vivo, vero… la sua fattografia visuale riporta lo sguardo al femminile di maestre/eretiche o non servili dell’immagine sociale (Margaret Bourke-White, Dorothea Lange o Tina Modotti, anche) che hanno disvelato i calunniatori del reale e sostenuto la grande scuola dell’indignazione popolare (non solo fotografica). Ci hanno fatto comprendere che dietro un bel fotografo c’è quasi sempre un bello stupido!

La fotografia dell’indignazione della Agosti vive sempre nel presente, disconosce il passato e inventa il futuro… riporta all’innocenza del divenire… la fotografa sa che la felicità, in fondo, è sempre fuori dalla felicità… fotografare è come sapere uccidere l’infelicità. Si tratta di non subordinarsi a niente e a nessuno… la realtà è semplicemente la vita che la Agosti afferra al volo e separa l’immagine dalle cose imposte, si smarrisce nell’immagine e diventa coscienza di qualcosa che cambia antiche vie… desta il bello a venire come una sinfonia figurale, dove la nudità del vero si toglie gli abiti del consueto e si muta nel rovescio di vivere con la testa china.

La tenerezza della fotografia dell’indignazione o autentica è disincarnata nell’immaginazione libertaria… dove la verità della fotografia cessa di essere principio, cessa anche di essere fine… la fotografia dell’indignazione (o della rivolta) è sempre legata al desiderio di bellezza e di grazia che si contrappongono alla stupidità partitocratica/mercantile contemporanea… la fotografia che non si affranca all’uomo che soffre (o a quello in rivolta) non vale nulla. Soltanto la fotografia autentica ha diritto alla bellezza… si tratta di rifiutare la cultura dell’ostaggio e aderire al negativo che la spezza… l’arte senza museo è nella strada… lì si trova il divenire della conoscenza e solo un’estetica sovversiva trasfigura il vero nella poesia o nella derisione dell’arte. Il pane degli ultimi è amaro, come la violenza dei padroni che violentano i popoli impoveriti e la falsità delle chiese monoteiste, complici di tutti i genocidi della storia. Anche quando si diversifica, la fotografia resta una sola e quando è grande esprime la memoria (ferita) di un’epoca.

La passionalità affabulativa della Agosti si trascolora nell’iconografia gioiosa, sorgiva delle battaglie femministe, nei luoghi di lavoro, nella ritrattistica di uomini, donne attraversati dall’ineffabilità della bellezza, della fraternità e della giustizia sociale… la “fotografa” architetta un’immaginario a misura

di tutti i possibili mondi da rivedere, rivisitare o ricostruire… nel suo fare- fotografia sostiene, a noi sembra, che i piaceri, i desideri, i sogni hanno diritto di cittadinanza e la felicità il conseguimento di tutte le disobbedienze e di tutti i valori a venire… desiderare il desiderio, ecco il culmine dell’amore dell’uomo per l’uomo, il resto è commedia o tragedia contro l’amore per la vita.

Il filo/sguardo tagliente della fotografia dell’indignazione della Agosti che più ci piace e ci commuove, si dipana nelle immagini delle donne degli anni settanta, quando si ri/versarono nelle strade della terra e cominciarono a sputare contro la stupidità del potere maschile, decise ad incrinare violenze subite sulla lama o col bastone, da secoli di soggezione maschilista… ripresero nelle loro mani antiche rivolte (al femminile) e gridarono (con tutti i mezzi necessari) che volevano il pane e le rose e il riconoscimento di essere persone né più né meno degli uomini e si presero il rispetto dei diritti umani (senza chiedere permesso).

A vedere quelle facce, quei corpi, quel gioco di mani e pugni stretti contro il cielo dei padroni dell’immaginario che la “fotografa” ferma nella storia, non è difficile scorgere il rapporto complice, amorevole, evocativo della sua fotocamera con ciò che finisce in fotografia… le donne, non importa se femministe, sono prese nel pieno della loro esistenza insorta e rappresentano una genealogia della morale in azione scevra da tutti i conformismi di sorta… le sue inquadrature sono asciutte, addossate all’evento e sovente anche un po’ sgangherate, tuttavia documentano appieno il florilegio di corpi in amore che elevano le donne a soggetti straordinari del proprio tempo e fanno di un’androginia del sentimenti ereticali il crogiolo di nuove visioni del mondo… sono corpi/messaggeri di libertà sconvolgenti che portano in sé l’accoglienza, l’uguaglianza, la fraternità specialmente là dove non ci si aspetta e la si aspetta sempre là dove non c’è mai stata o è stata calpestata dai dogmi della Chiesa, del potere, della violenza dell’uomo. Le donne e il lavoro è un altro tema che la Agosti sviscera con delicata fermezza, grazia autoriale e notevole compiutezza formale… fotografie che fuoriescono da una filosofia della carne e spossessano la tirannia del reale nella quale gli uomini hanno affermato improbabili supremazie… madri in nero nelle loro case spoglie, operaie alla catena di montaggio o donne che ballano senza l’impudore che i maschi celebrano nelle puttane o nelle sante… sono immagini che precisano, affinano, correggono devozioni imbecilli e rivendicano il corpo come coscienza sociale… di più… in questa trasvalutazione dei valori imposti dall’uomo, le donne iconizzate dal “fotografo” si nutrono di un eccesso di vitalità Dionisiaca che le fortifica e nel tragitto ludico che le attraversa annunciano nuovi peccati educativi.

La fotografia dell’indignazione o autentica della Agosti ha pochi eguali nella storiografia fotografica italiana… il suo fare-fotografia ha la capacità e la caparbietà di illuminare la vita concreta. La persona autentica è la persona giusta, è la persona che vive per attuare il bene dentro e fuori di sé, è la persona che ama sopra ogni cosa la verità. Le fotografie della Agosti contengono la bellezza, la giustizia, il bene comune, chiedono la fine del dolore delle donne e mostrano che la vita è tanto più umana quanto più è libera.

La ritrattistica della Agosti è appassionata… a leggere in profondità le immagini/icone di alcuni dei suoi “ritrattati”, come Jorge Luis Borges, E.M. Cioran, Norberto Bobbio, Aberto Moravia, Rita Levi Montalcini o Marguerite Yourcenar (un capolavoro indimenticabile)… si riconosce appieno lo sguardo di un maestro che fa della “radura dell’essere” (Martin Heidegger), l’adesione a qual- cosa di più grande che travalica la fotografia e diventa storia. Il senso della realtà o dell’utopia che sborda dalla fotografia della Agosti è carico di verità verso di sé ed è fonte della coscienza critica in grado di trasformare tutto ciò che scippa alla pelle della storia in vita concreta. La scrittura fotografia della Agosti insorge contro la desertificazione della coscienza e la pietrificazione dei sentimenti… nelle sue immagini il pudore muore nell’innocenza dell’autentico e la “conoscenza del dolore si trasforma in conoscenza attraverso il dolore” (Michel Onfray). Il suo tessuto fotografico è cosparso di valori che lo percorrono, lo abitano e l’ossessionano… le sue “corpografie” in bianco e nero diventano icone di una memoria storica eversiva, mai propedeutica al sistema del mercimonio fotografico, e attraverso l’arte del gioire del giusto, del bello e del buono esprimono un percorso estetico/etico per giungere alla felicità. Là dove la fotografia autentica insorge, la bellezza diventa giustizia, il resto è trucco.

Il grande fotografo non è mai il commesso viaggiatore di idee variamente modificate, tese tutte a cercare un posto nel sottoscala della storia o nelle ve- trine mondane del consenso… il fotografo autentico è un poeta di strada che non cessa di effettuare variazioni sul medesimo tema che l’appassiona e lo avvolge… la fotografia che vale esige ciò che il cuore esige, è l’affermazione della libertà creativa che nasce nell’atto stesso che l’afferma… la fotografia è uno specchio desiderante che non rigetta l’odore dei poveri e vede nella puzza dei ricchi l’infetta cultura della soggezione… la fotografia toccata dalla grazia del vero è un’epifania dell’immaginario liberato, è un canto d’amore per chi non ha voce né volto o non è nulla. Osare la fotografia significa prendersi la libertà di dire/fotografare ciò che è giusto o sbagliato e la libertà non è un privilegio che si concede, ma che ci prende. Dove c’è amore per l’uomo, per la donna, lì c’è la fotografia dell’indignazione o autentica.

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