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Elio Ruffo. Sul Cinema della disperanza (parte seconda)

di Pino Bertelli

3. La teologia situazionista della fotografia di strada non ha altra bellezza se non quella di aiutare a spezzare le catene della malvagità, sciogliere i legami del giogo, dare libertà agli oppressi… dividere il tuo pane con l’affamato, vestire chi è nudo e non voltare le spalle al tuo
simile, diceva Isaia, è ricordare ad ogni essere umano che la liberazione autentica sarà opera degli oppressi o non sarà. Una teologia della speranza è, nel contempo, una teologia della risorgenza o dell’insurrezione. Non c’è storia della politica se non c’è storia della libertà.
La teologia situazionista dell’utopia possibile è il canto più estremo della liberazione dell’uomo da se stesso. L’utopia non è solo il sogno di uguaglianza nella diversità e godimento dei beni comuni, che non prevede nella sua realizzazione, né servi né padroni… l’utopia è anche una denuncia dell’ordine esistente e l’eresia più concreta che sta al fondo dell’utopia è rifiutare la brutalità dei valori correnti e annunciare le primavere di Bella Ciao che saranno e che ancora non sono… il presagio di una comunità differente e di una differente società di armonia. La teologia situazionista della fotografia di strada lavora sull’immaginario liberato. Il passaggio dalla poesia alla vita quotidiana impone un salto di qualità, una rottura con l’ordine dell’ingiustizia, l’intervento dell’immaginazione contro i disegni salvifici della civiltà dello spettacolo e dice: la mia parola è no!
La teologia situazionista della fotografia di strada rientra magnificamente nel cinema randagio di Ruffo… nel momento che afferma i propri limiti, mostra anche l’uomo finalmente cosciente della propria perdita o resurrezione… un bianco e nero luminoso e greve al contempo… che porta lo sguardo dello spettatore in profondità, nelle bassezze degli uomini e degli imperi… un’immagine che consente di vedere, sentire, sognare, giudicare in funzione della realtà che crea a alla quale non sottrae nulla dell’inganno subito… un rosario, una falce, una pietra, un filo d’erba, un pezzo di pane… sono le effigi dei vinti e lì riverberano anche i singulti e le fessure luminose che spezzeranno l’ordine delle rovine.
Ci dev’essere un’ottusità attualizzata e categoriale tra la fotografia imperante e la stupidità conclamata, mi sono detto, quanto più la fotografia è perfetta, tanto più è stupida. Mi sono chiesto anche se il compito del fotografo non sia vedere ciò che a lui si nasconde, oppure se la fotografia è nell’amore dell’uomo per l’uomo e di tutto quanto lo circonda? La fotografia dell’imperfezione che è al fondo della teologia situazionista della fotografia di strada è una lingua sconosciuta a Dio e agli uomini, riflettevo… la mia parola è onesta, le mie immagini lo sono un po’ meno, poiché la limpidezza della trama chiede alla verità di piangere dove non ci sono più lacrime né sorrisi… solo amicizie, bandiglie, amori scoscesi su ali di uccelli che grattano il cielo di grida fuori dal verso e si vanno a posare sulla verminazione dell’angelo del nondove che lascia nelle parole che ti escono bene ciò che resta della mia vita.
I filosofi greci tenevano i loro discorsi nelle strade, nei mercati, nei bordelli e le loro parole era tutt’uno con la vita stessa… non intendevano in nessun modo convincere né convertire gli ascoltatori in alcunché… portavano una testimonianza e fuori dalla brama di dominio del sapere sull’ignoranza, sconfiggevano l’ignominia, la megalomania, l’apparenza e mutavano il corso delle cose. Non temevano nemmeno di uccidersi… poiché il suicidio è un pensiero che non solo aiuta a vivere ma anche a sconfiggere l’impalcatura d’illusioni che l’uomo ha eretto a
protezione della propria cupidigia. Cioran — filosofo tra i più grandi e meno amati del ’900—, ci ricorda che mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria di flauto, e considera all’atto del suicidio come qualcosa di terribilmente grande, ma non meno terribile di un suicidio quotidiano: “Ancora oggi stimo di più un portinaio che s’impicca di un poeta vivo (Emil Cioran) (14). La teologia situazionista della fotografia di strada mostra anche che ci  si uccide sempre troppo tardi… poiché la tragedia della verità come sofferenza universale rende intollerabile la vita e l’idea che se ne possa uscire in qualsiasi momento o di minarla alla radice con tutti gli strumenti utili al suo sovvertimento, comporta una certa genialità che interrompe il castigo imposto ai disingannati della storia.

(14) Vincenzo Fiore, Emil Cioran. La filosofia come de-fascinazione e la scrittura come terapia, Nulla die Edizioni, 2018

III. Il brigantaggio meridionale e la rivolta dei “cafoni”

Il cinema dell’interrogazione di Ruffo contiene elementi di disobbedienza civile che traboccano dalle matrici del brigantaggio meridionale… il rifiuto di vedere l’uomo sottomesso al dispotismo… la disobbedienza civile come espressione di un impegno individuale/sociale che rigetta l’obbligazione statuale e lavora alla riaffermazione dell’uomo sul diritto di avere diritti.
La funzione costitutiva d’ogni cenobio risiede nell’uguaglianza delle condizioni e non nella potenza delle istituzioni, delle baronie e delle mafie. La disobbedienza civile consiste in azione che è partecipazione al cambiamento radicale della società (15). La disobbedienza civile interroga le cause della libertà e dell’oppressione sociale e poiché “l’oppressione statale poggia sull’esistenza di apparati di governo permanenti e distinti dalla popolazione, e precisamente gli apparati burocratico, militare e poliziesco” (Simone Weil) (16), sempre benedetti dalle chiese e conniventi con le mafie, il compito della disobbedienza civile non sarà finito sino a quando non saranno liquidate le vestigia della moderna feudalità e trasformato il sistema di coercizione dei popoli in una società di liberi e uguali… la chiamano rivoluzione sociale.

(15) Hannah Arendt, La disobbedienza civile, Giuffrè Editore, 1985 

(16) Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Corriere della sera, 2010

À rebours. Il brigantaggio meridionale si è opposto alla logica della repressione sabauda e l’uso del terrore della spietatezza militare è stato contrastato con le armi. Il 26 ottobre 1860 l’eroe dei due mondi in camicia rossa, Giuseppe Garibaldi, consegna a Vittorio Emanuele II la sovranità sul Regno delle due Sicilie e il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II è proclamato re d’Italia… l’ultimo governo Cavour intanto pensa bene di aumentare le tassazioni dovute anche per le spese militari… soldati ex garibaldini ed ex borbonici entrano nelle file dell’esercito italiano ed ex generali garibaldini (Bixio, Medici, Sartori) diventano generali del Re… il 6 giugno 1861 Cavour muore di malaria, sembra… lo sostituisce il barone Bettino Ricasoli (che conosce i buoni vini della sua azienda in Toscana), affida al generale Enrico Cialdini, duca di Gaeta, di stroncare nel Mezzogiorno d’Italia il brigantaggio, considerato come un preoccupante fenomeno di delinquenza.
L’esercito del nuovo Stato italiano invia fino a 120.000 soldati sotto il comando dei generali Durando, De Sonnaz, Govone, La Marmora (i suoi bersaglieri si distinsero in spietatezze efferate contro le popolazioni)… le esecuzioni sommarie avvenivano senza processo ma le bande di Luigi Alonzi (detto Chiavone), Cipriano La Gala, Manzo, Fuoco, Caruso, Voloninno, Palma, Carmine Donatelli (detto Crocco) e del suo luogotenente Ninco Nanco, riuscirono a tenere in scacco l’esercito italiano fino al 1865 (17). Il dibattito fra gli storici sul brigantaggio nell’Italia meridionale dopo l’unità d’Italia è variegato, c’è chi sostiene che non fu guerra civile né guerra di popolo, chi vi riconosce una situazione di sfacelo e lo Stato intervenne duramente per riportare l’ordine… il fatto è che l’onnipotenza dello corpo politico condanna a morte chi non ha più nulla da difendere se non il proprio senso di giustizia.

(17) Il Brigantaggio Meridionale- cronaca inedita dell’Unità d’Italia, a cura di Aldo De Jaco, L’Unità, 1979

Secondo gli studi sul brigantaggio dopo l’unità d’Italia di Franco Molfese, tratti dagli archivi militari, il numero delle bande risulta 388, tenendo conto sia delle bande che raccoglievano alcune centinaia di uomini che di quelle formate da un piccolo gruppo, dei “briganti” fucilati o uccisi in combattimento, 5212, fra il giugno ’61 e il dicembre ’65, degli arrestati, 5044, e di quelli consegnatisi alle autorità, 3597… l’autore sottolinea inoltre che “in quella lotta disperata… i contadini meridionali dettero prova di combattività e di energia indomite che, dopo la sconfitta, si riversarono nell’emigrazione… Molti furono posti, dalle circostanze e dalla società in cui vissero, dinanzi alla alternativa di vivere in ginocchio o di morire in piedi.
La loro scelta preannuncia, in un certo senso, le lotte sempre più civili e più consapevoli che i contadini del Sud avrebbero condotto per la propria emancipazione nei decenni che sarebbe ro venuti” (18). Anche lo storico Giorgio Candeloro riconosce nelle ostilità del brigantaggio meridionale il rifiuto dell’indigenza e la rivolta in armi che ne consegue (19). Poiché sappiamo che la tirannia si manifesta non appena l’imposizione della fame supera quella dell’obbedienza a un re, capo di Stato o a un Papa… ne consegue che è difficile accettare il proscenio delle armi come spirito di giustizia. Il genio collerico della rivolta rigetta l’assoggettamento degli schiavi al padrone: “la disobbedienza, per chiunque conosca la storia è la virtù originale dell’uomo. Con la disobbedienza il progresso è stato realizzato; con la disobbedienza e la rivolta (Oscar Wilde) (20) . L’azione (anche la più estrema) è l’ultima risorsa di quelli che non hanno cessato di sognare un mondo più giusto e più umano.

(18) Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’unità, Feltrinelli

(19) Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, Vol. V, Feltrinelli, 1978 

(20) Oscar Wilde, Aforismi. Born To Be Wild(e), Crescere Edizioni, 2023 

Briganti, mafia, camorra e ‘ndrangheta c’entrano molto poco col brigantaggio meridionale, semmai sono in celata compromissione con il baronaggio feudale e strati della chiesa. I rapporti tra il brigante calabrese Musolino (U ‘re i l’Asprumunti) e la ‘ndrangheta sono un episodio quasi isolato nella lunga storia del brigantaggio e la stampa di Stato ne sfrutterà le gesta trasformando i suoi processi in fatti di cronaca che lo renderanno celebre. I giornali pubblicarono le sue poesie, fecero interviste, Giovanni Pascoli gli dedicò una lode, financo Totò lo menziona nella poesia A mundana… tuttavia Musolino non uccide per una qualche sorta d’ideale, né si fa portabandiera anarchico delle lotte presocialiste… per i professori di psichiatria (Annibale Luca e Giacomo Cascella) che lo visitano nel manicomio di Reggio Calabria, suoi omicidi esprimono i sintomi di una latente follia che si consuma in una sete di vendetta contro l’ingiustizia sociale.
Musolino subisce il primo processo nel 1898 con l’accusa di aver ferito Vincenzo Zoccali dopo una rissa in un’osteria… sfugge ai carabinieri e si dà alla latitanza… arrestato dopo sei mesi da una guardia municipale è condannato a 21 anni di carcere… Musolino si è sempre proclamato innocente… recluso a Gerace Marina evade nel 1899 e inizia la sua vendetta. Gli omicidi sono molti ma riesce sempre a sfuggire alla cattura. I giornali (anche stranieri) allargano la sua fama di brigante imprendibile… una taglia di 5.000 lire pesa sulla sua testa… le coperture della gente del posto sono sempre più scricchiolanti e affiorano tradimenti… pensa di chiedere la grazia a Re Vittorio Emanuele II e lascia la Calabria… per un caso fortuito la latitanza di Musolino finisce ad Acqualagna (Pesaro), è arrestato da due carabinieri e trasferito nel carcere di Catanzaro. Condannato all’ergastolo nel carcere di Portolongone nel 1902 e segregato per otto anni… nel 1946 gli viene riconosciuta l’infermità mentale e portato al manicomio di Reggio Calabria. Muore il 22 gennaio 1956. Musolino non sapeva, né poteva sapere, data la poca dimestichezza con la scrittura e la lettura, che quel che i Vangeli annunciano, il dispotismo realizza. Sulla tavola dei poveri ci sono solo lacrime, su quelle dei ricchi il dispregio per la perduta gente.
I terroni, i cafoni, i mangiaterra — come i piemontesi chiamavano i meridionali (e ancora oggi c’è una certa eco razzista nella cultura egemone, specie nella commedia cinematografica italiana) —, sono stati ben altro… i soldati venuti dal Nord, fortemente aiutati dalle classi dirigenti meridionali, dalla borghesia, dai feudatari, dalla chiesa e nel declino del Regno delle due Sicilie si sono trovati a contrastare una vera e propria guerra civile… i briganti hanno combattuto per la loro libertà con l’aiuto anche dei montanari, pastori, contadini, piccoli proprietari terrieri… senza avere una strategia politica e sono stati battuti, vinti mai. “I briganti — capi e gregari, assassini, tagliatore, guerrieri visionari, ribelli, coraggiosi, opportunisti, disperati — hanno avuto la strabiliante capacità di valicare i secoli, di accendere la fantasia di innumerevoli persone di tutti i ceti sociali, di far discutere storici far appassionare ancora oggi studiosi e culturali dell’arte sociale” (Enzo Ciconte) (21). I giovani che entrarono nella Resistenza per combattere il nazi-fascismo sono stati i loro eredi… poiché si sono opposti al sopruso e sono morti a migliaia per mettere fine all’autoritarismo e alla tirannia dei re, generali, preti, imprenditori e leccaculi della borghesia… se poi la partitocrazia (anche di sinistra) ha tradito i loro ideali di pace e libertà con la calunnia, la menzogna, l’intrigo, il discredito… poco importa… restano le loro gesta eroiche a rammemorare che là dove c’è lo Stato, c’è Dio, e il cannone benedice le violenze… a conferma che ogni pezzo della storia (sempre scritta dai vincitori), legittima nuove tirannidi e si porta addosso anche uomini e donne che passano dalla preghiera alle armi per decretarne la fine.

(21) Enzo Ciconte, Banditi e briganti. Rivolta continua dal ‘500 all’ ‘800, Rubbettino, 2011

La Calabria dei briganti che non accettarono le mattanze della povera gente e impugnarono le armi contro l’invasore piemontese… uomini come Diego Mazza che nella Sila catanzarese non si arrese agli armigeri dei proprietari terrieri, dei baroni e della chiesa, e mentre altri si davano alla fuga venne ucciso per difendere la propria libertà… o i briganti calabresi — Giosefatte Talarico, Re Coremme o Re Marcone —, mostrarono che la loro rivolta contro i piemontesi non era soltanto quella di bande di delinquenti, come spesso viene scritto, ma sono stati dei veri e propri scorridori che si sollevarono contro la brutale miseria nella quale i calabresi erano tenuti da ataviche ingiustizie. Gli ultimi fuochi della “rivoluzione dei cafoni” si ebbe
con la cattura della “primula rossa” del brigantaggio calabrese, Pietro Corea, che venne ghigliottinato a Catanzaro nel 1865 (la ghigliottina è esposta al museo provinciale di Catanzaro). Il rifiuto della sottomissione si paga con sofferenze personali e sociali.
Della “guerra civile” o della “disobbedienza armata” del brigantaggio nell’Italia meridionale, vogliamo ricordare le donne, mogli, amanti, ribelli a tutto che si fecero brigantesse, come Rosa Pezzigni, Maria Oliverio Ciccilla, Reginalda Rosa Cariello, Filomena Cianciarullo, Filomena De Marco, Giuseppina Vitale, Maria Giovanna Tito, Michelina di Cesare… furono chiamate drude, ganze, puttane… subirono violenze dai soldati piemontesi, dai padroni delle terre, dai preti… ed entrarono in clandestinità… uccisero e vennero uccise… quando le catturavano venivano straziate, denudate, fotografate ed esposte nelle piazze come macabri trofei… sul finire del 1870 il brigantaggio viene sconfitto e confinato nei libri di storia. La compassione non è una virtù dei re, dei preti né degli assassini in divisa… il crimine o la santità, la cattiveria o la ragione, la calunnia o la verità sono i presupposti delle ineguaglianze sulle quali poggia il carattere d’ogni governo corporativo, egemonico, autoritario… i potenti controllano l’opinione pubblica in maniere raffinate… le grandi dichiarazioni dei politici, i testi degli storici a libro paga dei padroni, la cultura piegata agli imperativi del consenso utilitarista, generalmente, anticipano i prossimi massacri. Liberarsi dalla retorica del potere significa non fare superstiti dei mali di cui è colpevole (22).

(22) Pino Bertelli, Sulla miseria della fotografia nell’epoca fascista (inedito)

Il cinema dell’interrogazione di Ruffo è una ricercazione anche dei tumulti, sollevazioni, rovesciamenti sociali del brigantaggio meridionale come risposta umana, solo umana, all’onnipresenza della tirannia nella sua terra. Niente ci appare più assurdo che andare da qualsiasi parte a cercare l’amore, la giustizia, la libertà, se non la trovi tra le fiumare, le querce, gli olivi, le spiagge, il pane cotto nei formi di pietra della tua infanzia… tutto ciò che è dissoluzione dell’umiliazione, del disprezzo, della sofferenza, è un canto poetico… un rigore creativo senza sovrani… un salto fuori dalla circuitazione dell’inessenza culturale per approdare a un coscienza disincantata della realtà… la Calabria di Ruffo cade nel cinema come il fuoco in un camino che odora della buona legna dell’Aspromonte. Sulla vita artistica di Elio Ruffo riferiamo alcune annotazioni… nasce a Reggio Calabria il 24 dicembre 1921 in una famiglia aristocratica, repubblicana e massonica di Palazzo Giustiniani che annovera nelle sue radici patrioti del Risorgimento, un martire fucilato nella piazza di Gerace per aver partecipato ai moti calabresi del 1847. Il padre (Gaetano) era avvocato, convinto antifascista e per la sua fermezza politica gli fu impedito di esercitare la professione e costretto a ritirarsi a Bovalino… era stato tra i difensori del brigante Musolino. Elio Ruffo si laurea in legge e prende parte alla Resistenza… si trasferisce a Roma e scrive per diversi giornali (Il giornale della Calabria, L’Umanità, Fotogrammi, Paese Sera)… lavora come aiuto regista con Giorgio Simonelli (modesto artigiano della commedia all’italiana) per Undici uomini e un pallone (1948) e Accidenti alla guerra (1948), e Mario Segui (regista di film d’avventura), per Monastero di Santa chiara (1949). Alcuni lo accreditano anche come aiuto regista di Alessandro Blasetti (?). Vive il clima culturale, politico degli anni ’60 a Roma e si inscrive al P.C.I., tuttavia dopo l’invasione dell’Armata Rossa in Cecoslovacchia prende le distanze dal partito che ne avallava le stragi e lascia la politica militante. Gira i primi documentari, S.O.S. Africo (1949) e Gente del Sud (1950). Lo sguardo è quello del cinema d’impegno civile, legato ai problemi della povera gente della sua terra. Non ha molto successo, nemmeno in Calabria. Nel 1955 esordisce nel lungometraggio con Tempo d’amarsi e al IX Festival del cinema di Locarno riceva una menzione speciale per il miglior film italiano. La lezione etica del Neorealismo pervade l’intera opera e malgrado la povertà dei mezzi e alcune ingenuità stilistiche/attoriali dà prova di un notevole carattere narrativo. Dopo alcuni documentari per la televisione, produce e dirige Una rete piena di sabbia (1966)… con il quale sferra una forte denuncia alla corruzione e alla connivenza del potere locale con la criminalità organizzata. Il film ha una circolazione limitata, forse solo provinciale. Tuttavia resta una delle più radicali testimonianze di cinema politico non solo di quegli anni. Lavora su diversi progetti che resteranno incompiuti o non realizzati per le difficoltà produttive che non li sostengono… come l’attentato del socialista Tito Zaniboni contro Mussolini nel 1925… Zaniboni, condannato a trent’anni di reclusione, aderì alla campagna dell’oro per la Patria che doveva servire a finanziare la guerra d’Etiopia e non fu parco di dichiarazioni a favore del fascismo… scarcerato dopo l’8 settembre 1943 dal governo Badoglio… diventò commissario per i profughi e reduci del secondo governo Badoglio (1945). Essere compresi
è molto più umiliante che essere incompresi, diceva… è preferibile la fossa comune ai funerali di Stato.
Ruffo scrive altri soggetti del tutto singolari, come Borboni ’70, teso ad approfondire e smascherare i rapporti tra Stato e Mafia o Una famiglia del Sud, una sorta di ritratto familiare alla maniera di Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti. Il cinema lebbroso di Ruffo parte dal vissuto calabrese e dichiara che occorre negare la verità ufficiale sulla sua terra al fine di superarla. Fare un cinema-sabotaggio della filosofia accademica-cinematografica, attentare all’idea di commedia come simbolo dell’eterno servaggio al baciare le mani… respingere la rassegnazione dell’uomo condannato a restare ciò che è stato costretto a subire e abbattere la feticizzazione dei poteri, senza sostituirli con dei nuovi che si rivelano peggiori dei loro predecessori. Ogni forma di negazione si emancipa sullo spirito di libertà e nell’azzeramento della servitù volontaria, ciascun uomo ritrova il rispetto di sé. Il diritto alla differenza è il primo vagito in cui tutte le sollevazioni alzano il tiro contro ogni forma di tirannia.
In un’accorata nota sul cinema dimenticato di Ruffo, Ettore Castagna racconta le vicende giudiziarie di Borboni ’70: “Già la sceneggiatura fu oggetto di una battaglia legale che rallentò la successiva lavorazione del film. L’oggetto del contenzioso fu la paternità della stessa sceneggiatura che i produttori Lucibello e Borruto si attribuivano. Elio Ruffo vinse la causa ma non fece in tempo a realizzare Borboni anni ‘70 perché la morte lo colse pochi anni dopo. 
In attesa della risoluzione del contenzioso, a quel che pare, Ruffo iniziò comunque a girare dei materiali in 35 mm e, per la prima volta, a colori. Nel solco del suo cinema verità la sua attenzione si centrò sul processo di Locri, noto come Processo di Montalto. Il processo si concluse con la condanna di praticamente tutti gli imputati e gli stessi materiali Ruffo furono trattenuti come prova giudiziale. La successiva morte dell’autore purtroppo contribuì a smarrire il contatto con un documento che doveva essere rilevantissimo. Infatti gli eredi non rivendicarono successivamente la pellicola. Ruffo girò varie fasi del processo. Cercò il confronto diretto con gli imputati, riuscì a rassicurarli che avrebbe trattato la loro immagine con
equidistanza. Molto probabilmente il fatto di essere figlio del difensore di Musolino fece la sua presa su una vecchia mafia, ancora parzialmente legata a criteri pseudo-cavallereschi” (23).

(23) Ettore Castagna, Mediateca Regionale della Calabria 

Nonostante la piccola svista sul primo film di Ruffo a colori (aveva già girato Gerace), le osservazioni di Castagna sul cinema verità di Borboni anni ’70 sono pertinenti e importanti… Ruffo sembra conoscere le teorie del cinema d’avanguardia degli anni sessanta… quando il sociologo-cineasta francese Edgar Morin conia la locuzione cinéma vérité (o cinema diretto, camera partecipante, anche) per i film di Dziga Vertov, il coinvolgimento cioè della regista con gli argomenti trattati, del resto già presente nei capolavori di Robert J. Flaherty, Nanuk l’esquimese (1922), e L’uomo di Aran (1934). La verità non sta nella reazione né nella restaurazione, sta nel mettere in questione sia la società sia coloro che la sostengono. 
Il cinéma vérité è al fondo dei film di Jean Rouch, Richard Leacock, Chris Marker, Jean-Luc Godard, Lorenza Mazzetti, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet… e confluirà nel cinema indipendente italiano di Alberto Grifi, Massimo Sarchielli, Gianfranco Baruchello, Franco Brocani o Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi… un cinema che supera le quinte della recitazione, lavora sulla messinscena documentaristica che rivendica l’autonomia culturale e si scontra con le politiche consumeriste del box-office. “Tra i vari modi di praticare il cinéma vérité c’è anche quello di usare la cinecamera come agente provocatore, come stimolatore di reazioni e comportamenti, i quali si realizzano proprio sotto la sua azione. In questo caso, la realtà e la sua verità nascono dal cinema, sono il frutto del suo intervento diretto” (Gianni Rondolino)(24). 

(24) Gianni Rondolino, Storia del cinema, 2° e 3° vol., UTET, 1977

Il cinema di verità rifiuta l’effimero del convincere e del convertire… è un andare in fondo alle immagini per risvegliare l’archeologia dei sentimenti, delle passioni, delle irriverenze… l’approssimazione attoriale dei film di Ruffo è una sfogliatura dell’essenziale… un guardare al di là delle caratterizzazioni e delle facciate dei municipi… il regista sversa l’identificazione della realtà fenomenica con la veridicità del discorso filmico e nonostante gli scarsi mezzi produttivi riesce a portare sullo schermo l’autenticità e l’empatia umana dei suoi personaggi… mostra che ogni emozione estetica implica anche una cognizione etica ed è sempre determinata dalla poesia, dalla disestetizzazione dello spettacolo. Ruffo muore a Bovalino il 16 giugno 1972. Le poche opere che ci ha lasciato in sorte, bastano comunque ha far comprendere che la sua poetica, ancorché grezza o abrasiva, contiene il coraggio di chi vuole rovesciare lo stato delle cose e perseguire le utopie di verità, giustizia e libertà. Il cinema di Ruffo è un’affettazione del reale, il marchio di una irrealtà rigettata… quando si raccolgono le lacrime dei poveri, quando si arrota la lama della verità sul collo dei padroni, vuol dire che si è capito. Non c’è niente di più ignobile dell’abdicazione della bellezza al crimine costituito.

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