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Elio Ruffo. Sul Cinema della disperanza (parte quinta)

di Pino Bertelli

Di S.O.S. Africo.
In S.O.S. Africo, Ruffo denuncia la povertà e l’abbandono dei calabresi del dopoguerra… la cinecamera segue il viaggio di un giornalista da Bovalino al paese di Africo e diventa il pretesto per mostrare le difficoltà quotidiane della sua gente… il commento parlato è affidato al giornalista Sandro Paternostro, ancorché lieve, riesce comunque a intrecciarsi con la potenza visiva del regista e insieme al montaggio armonico di Pino Giovani e la musica struggente di Virgilio Chiti, restituisce in maniera vivida la grande saggezza ionica e l’intima voglia di riscatto di questa gente confinata nel pregiudizio, nel dolore e nella tragedia. La fotografia di Aldo Alessandri ha una corposità, una bianchezza, una nerezza radicata nella verità ignudata, senza veli, cantata dal filosofo calabrese Bernardino Telesio, la freschezza impetuosa di un popolo, anche nelle sue tribolazioni, povertà o ribellioni, conserva le fondamenta morali della comunità magnogreca.Di Gerace. Con Gerace, il documentarista calabrese affronta una tematica politica… quella dei martiri di Gerace, fucilati nella piazza del paese per ordine del governo borbonico il 2 ottobre 1847 e gettati nella fossa comune “La lupa”. Si chiamavano Michele Bello (Siderno, 1822), Gaetano Ruffo (Ardore, 1922, un prozio del regista), Pietro Mazzoni (Roccella Jonica, 1819), Rocco Verducci (Caraffa, 1824), Domenico Salvadori (Bianco, 1822)… giovani che non superavano i 28 anni… appartenevano a famiglie facoltose e frequentavano le università di Napoli… si avvicinarono alle idee sovversive, mazziniane-repubblicane, della borghesia illuminata e furono costretti al rimpatrio. Bello, Mazzoni e Ruffo erano massoni, e spinti da una morale di fratellanza, dignità e rispetto tra gli uomini, ispirarono tutte le Logge sorte poi nella Locride. Come è noto, specie ai curiosi e agli studiosi sulla storiografia della Calabria… i cinque rivoluzionari, insieme a Domenico Romeo di Reggio Calabria, appoggiarono un piano insurrezionale che prevedeva la sollevazione popolare a Messina, Reggio Calabria e Gerace, per allargarsi a tutto il regno del Borbone. A Messina non riuscì nessuna rivolta, a Reggio Calabra la sommossa fu soffocata nel sangue, Domenico Romeo venne decapitato e la sua testa esposta nel cortile delle carceri di San Francesco a Reggio Calabria. «Pochi sanno che la grande fiammata rivoluzionaria del 1848 che investì l’Italia e l’Europa, e dalla quale ha inizio il nostro Risorgimento nazionale, fu accesa proprio a Reggio il 2 settembre 1847», scrive Lucio Villari su La Repubblica l’8 dicembre 1992… e l’insurrezione di Gerace non è altro che la continuazione di quella rivoluzione mancata.

La storia. Bello, Ruffo, Mazzoni, Verducci e Salvadori si misero a capo di un gruppo di rivoltosi e occuparono i paesi di Bianco, Ardore, Siderno e Gioiosa Ionica al grido di W Pio IX (?!), W l’Italia, W la Costituzione… furono abbattuti gli stemmi dei Borboni, abolirono la tassa sul macinato e catturarono il soprintendente di Gerace, Antonio Bonafede (palermitano), che si era distinto per l’odio e la ferocia dimostrati nella cattura dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, mazziniani, patrioti del Risorgimento, che avevano tentato di sollevare le popolazioni calabresi contro il Regno delle due Sicilie di Ferdinando II, il 16 giugno 1844… traditi da Domenico De Nobili, i fratelli Bandiera furono fatti prigionieri a S. Giovanni in Fiore e fucilati presso Cosenza il 20 luglio 1844.

I rivoluzionari, a torto, forse, non fecero violenza a Bonafede e sapendo delle insurrezioni fallite a Messina e a Reggio Calabria, si dispersero… Bello, Ruffo, Mazzoni, Verducci e Salvadori sono costretti alla fuga… traditi da Nicola Ciccarelli di Caulonia, vengono arrestati… il soprintendente Bonafede diventa il principale accusatore dei capi della rivolta e li fa condannare alla fucilazione sulla Piana di Gerace (2 ottobre 1847), “per essersi macchiati di lesa maestà e per aver commesso atti prossimi all’esecuzione di detti misfatti”. Qualche giorno dopo, il vescovo di Gerace mons. Luigi Maria Perrone, durante una funzione religiosa tenuta nella maestosa cattedrale normanna, esultò per la fucilazione dei Cinque, tenendo un’omelia sul tema “Moestitia nostra conversa est in gaudium”! I tiranni, gli ecclesiastici, i generali, i traditori… sono sempre stati ammazzati troppo tardi!

L’esecuzione dei Cinque Martiri di Gerace solleva sdegno e orrore in Italia… anche se l’azione rivoluzionaria non suscita largo seguito nella popolazione calabrese, contribuirà non poco ad aprire le coscienze dei calabresi, ancorché per buona parte analfabeti, e non sono stati pochi i filosofi, gli intellettuali, gli artisti, anche la gente più semplice che hanno cercato, in forme diverse e variegate, di sfuggire o combattere la montante distruzione della società contadina, l’emigrazione, la disgregazione sociale e culturale, l’assistenzialismo e la mafia… che hanno visto nel tropismo libertario di Tommaso Campanella l’inizio e il riscatto d’una dignità negata dai governi: “Dove son più di numero le leggi punitive che instruttive, è segno di mal governo” (Tommaso Campanella), e la rivoluzione sociale è la maniera esplicita per rovesciare i potenti.

Il carattere e il temperamento dei poveri che fuoriescono dalla servitù volontaria, derivano da una politica corrotta, da una cultura repressiva, da una società ingiusta e iniqua… i ricchi, i potenti, la chiesa, gli sbirri della profanazione d’ogni libertà sono i responsabili di questo stato di fatto… e solo quando il popolo prenderà nella proprie mani (con tutti i mezzi possibili) il marchio della propria ventura, allora e solo allora la Città del sole di Campanella schiuderà la felicità del maggior numero. Il cantiere della libertà non è stato mai chiuso… poiché il diritto all’uguaglianza tra gli uomini non si ottiene con la clemenza né la violenza dei potenti, ma con la loro cancellazione dagli altari del privilegio.

Ruffo gira Gerace a colori… si apre su secche inquadrature del paese e dei territori circostanti… i tetti delle case, i ragazzi che giocano con i carretti nelle stradette assolate, la facciata della cattedrale, scorci di mare in lontananza, grotte scavate nella roccia… la voce fuori campo illustra l’antica storia della città che risale ai fasti della Magna Grecia e delle successive dominazioni… si vedono ragazzini che imparano il mestiere sotto l’attenzione di un sarto, giovani turiste sulla Vespa, le discussioni agitate di uomini in una farmacia gestita da un prete, il postino che reca notizie di lontane migrazioni, vecchie e giovani donne che cuciono lane e pizzi sotto gli alberi, corteggiatori impomatati che ricevono i sorrisi innocenti di ragazze un po’ imbarazzate… il colpo di una pistola giocattolo di un bambino innesta il documentario sulla rivolta dei popoli e sulla Calabria che insorge contro i Borboni, dice il commento.

Sulle facce dei giovani Ruffo racconta le vicende dei martiri di Gerace… mostra la casa dove i capi della rivolta furono incarcerati e processati dal tribunale militare borbonico, manovrato dei notabili del luogo colpiti nei loro interessi… condannati a morte i Cinque vengono condotti alle carceri attigue alla chiesa di San Francesco e i versi di Gaetano Ruffo dedicati alla libertà scivolano sugli interni della chiesa: “Sola speranza che mi regge in terra, solo conforto dello spirito mio, solo pensiero che rileghi a Dio, pace e ristoro alla mia lunga guerra”. La macchina da presa di Ruffo inquadra il sole nella piazza, rievoca il cammino dei ribelli, colpi di tamburo risuonano nelle strade deserte, indugia sui balconi vuoti e sullo stemma del Palazzo della città… ecco apparire la piana, il luogo destinato al sacrificio… su un tetto gli uomini si tolgono il cappello in rispetto per i condannati… sulle ombre dei Cinque sono ricordati i nomi dei martiri… poi sulla piana avanza una figura di giovane donna in nero, si chiama Teresa Malafarina, che assistendo al massacro perderà il senno, ricorda la voce fuori campo. Il documentario su chiude su cinque misere bare di legno e la frase: “Gerace ricorda ancora i suoi martiri”.

Malgrado la pessima copia in nostro possesso, s’intuisce comunque la tempra cromatica della fotografia di Giuseppe Pinori. Il montaggio prezioso Pino Giomini e la musica avvolgente di Egisto Macchi si fondono con le inquadrature vigorose di Ruffo che rievocano sentimenti d’orgoglio e dignità della gente calabra. Gerace è un film-dialogo tra la vita, la morte e la parola… ogni inquadratura nasce da una visione che rifiuta il martirologio e mostra che un film senza il lievito-forma che lo impasta è un pensiero senza materia… le imbastiture filmiche di Gerace… lo sguardo e i movimenti della macchina da presa, gli stacchi di montaggio, la sincerità rubata ai volti dell’occasionale… esprimono la messa in immagine della verità… e Ruffo non teme di cavalcare il cinema come Don Chisciotte, Ronzinante… impugna cinecamera e pellicola come i cavalieri erranti per liberare lo schiavo, riparare i torti dell’oppresso… un Don Chisciotte ancora in viaggio per dare alla gente la possibilità di comprendere che qualsiasi terra aspra, dura, violentata, può sempre dare dei frutti — “Quando la gente, sai, è delicata con i bambini, dobbiamo aspettarci delle cose buone” (34) — , diceva l’uomo con la macchina da presa al bambino che mangiava col maiale nei rifiuti… forse questa allegoria donchisciottesca non c’entra nulla con Ruffo e il suo documentario, o forse c’entra eccome… il suo film canta il coraggio sfregiato dei ribelli, il vino sacro dei portatori di muli, la bellezza delle donne calabre, più ardenti delle puttane del Goya… soprattutto è l’ascolto di una scelta, e poiché ogni libertà è una nascita, la disobbedienza è il suo riferimento. Aveva annotato: Se dovessi scegliere tra la beatificazione e la dissolutezza, propenderei per quest’ultima… perché la beatificazione è un girone di assassini, la dissolutezza contiene la smania di distruggere ogni forma di paradiso.

(34) John Dos Passos, Ronzinante di nuovo in viaggio, Ocra Gialla, copia numerata 1223, Edizioni Via del Vento, 2011

Gerace è una piccola lezione di storia dei dannati della terra che non perdonano, né dimenticano, né archiviano… testimoni di memorie sottomesse mai vinte… irriconciliati con le cronache della dissimulazione politica recano in corpo il tramonto delle costrizioni, la liberazione dall’obbedienza, il superamento delle sottomissioni e la fine dei rapporti padrone-schiavo… in attesa che sulle loro tavole debutti il genio collerico della rivoluzione.

Di Tempo d’amarsi.
Tempo d’amarsi (1955) è l’opera prima di Ruffo (per noi il suo capolavoro)… il canto di una disperanza che vede la Calabria come vagito di una storia sociale tutta ancora da inventare… una visione delle istanze giovanili che mescolano il sogno e la carne, i valori e il sangue, la passione e l’anima, senza partorire ideologie o credenze, ma l’ostinazione verso un’indipendenza culturale che rigetta tutti i peccati dell’ordine costituito… l’insulto più lusinghiero è quello dell’amore che non si concede, ma ci si prende… una reazione a pregiudizi e razzismi che hanno soffocato intere generazioni di calabresi nel mattatoio dell’intolleranza.

Il film di Ruffo dice che la ragione confiscata dai potenti è una brutalità plurisecolare, un’isteria del provincialismo, una decadenza diventata obbligo… afferma anche il bisogno di salvezza che tronca le tendenze distruttive della libertà minacciata dall’Onorata Società… il regista non grida nessuna ferocia né aggressività plateale… racconta dell’amore tra due giovani e del senso di responsabilità di un ragazzo orfano verso i propri fratelli. Un picaro come Lazarillo de Tormes o un ribelle come Huckleberry Finn che si dispensa dal credere in qualsiasi cosa che non sia il lavoro come affrancamento ai problemi della famiglia. Non è poco per un film coraggioso che portava sullo schermo una Calabria mai vista sino ad allora e quasi mai più vista all’interno della cinematografia italiana.

Il film si apre sulla morte sul lavoro di un vedovo che lascia cinque figli (la moglie era affogata in un torrente per salvare il suo bambino). Rosa (o Rosina), la sorella maggiore, si trova a custodire i fratelli in un’estrema miseria… è innamorata di Peppe, un muratore… cerca di ottenere il sussidio che le aspettava dopo l’alluvione, ma il funzionario comunale si è appropriato dei soldi e le vorrebbe dare solo una coperta e circuirla. Il fratellino Gianni ha undici anni e fugge di casa per andare (senza scarpe) alla Marina a lavorare in una fabbrica. Rosa e Peppe partono in biciletta per rintracciare Gianni. Il ragazzo impegna un giorno e una notte per raggiungere la Marina. Nel percorso incontra piccole avventure e si trova a dormire in una casolare. Rosa e Peppe passano la notte in uno stabilimento balneare abbandonato. La mattina Gianni raggiunge la fabbrica ma non lo fanno entrare perché è troppo piccolo… alcuni operai danno una banconota al ragazzo… Gianni va sulla spiaggia e vede Rosa e Peppe che fanno l’amore… è sconcertato e scappa… i giovani fidanzati lo trovano e vogliono riportarlo a casa… Peppe deve tornare a lavoro altrimenti rischia di essere licenziato… buca la ruota della bicicletta… Gianni si avvicina a l’aiuta nella riparazione… i tre montano sulla bicicletta e prendono la via del paese… Gianni sorride e dice: “Alla prima salita, spingo io”.

Tempo d’amarsi è stato girato nei territori di San Luca e Bovalino… è un vero e proprio trattato di antropologia cinematografica… il linguaggio del regista è spurio di ogni compiacimento e racconta attraverso i corpi, il paesaggio e dialoghi secchi una Calabria affogata nel disagio, la povertà estrema di genti vessate dai ceti egemoni, una ritrattistica della corruzione della politica e, in vitro, la connivenza delle classi dirigenti con la mafia.

Le inquadrature di Ruffo sono elaborate sulla lezione neorealista di I bambini ci guardano (1943), Sciuscià (1946), Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, Germania anno zero (1948) di Roberto Rossellini, La terra trema (1948) di Luchino Visconti, Sotto il sole di Roma (1948) di Renato Castellani… ed esprimono una resistenza al presente. Ruffo s’accosta ad attori e comprimari secondo l’immediatezza del “pedinamento” teorizzata da Cesare Zavattini, cioè che la macchina da presa segue l’uomo per la strada e lo accompagna nel suo vagabondare, nei suoi incontri fino a farne scoprire l’indole e quindi a crearne la storia” (35). Un cinema in presa diretta con la realtà storica e politica del momento. 

(35) Cesare Zavattini, Neorealismo ecc., Bompiani, 1979 

La costruzione delle situazioni in Tempo di amarsi è una successione di avvenimenti minimali e la narrazione, che a una prima lettura potrebbe sembrare esile, a ben vedere, esprime una catenaria di realtà e un’estetica dell’esistenza che rivela la robustezza del vero. Il ragazzino scalzo che affronta il viaggio verso la Marina per cercare di lavorare in fabbrica e aiutare la famiglia… è l’immagine-metafora della Calabria spossessata nei suoi antichi valori, ma proprio attraverso l’intemperanza dell’utopia e il riconoscimento dell’amore, riemergono nell’uguaglianza delle differenze, si chiamano fuori dal pessimismo calligrafo e rivendicano il diritto alla vita.

Il film si apre sulla morte dell’operaio. Il corpo del padre dei ragazzi disteso su un lettaccio di tavole, contornato dai familiari che pregano, un bambino piange, dopo alcuni campi e controcampi e leggeri movimenti di macchina, rimanda, anche se in maniera un po’ grezza, al Lamento sul Cristo morto di Andrea Mantegna, che Pasolini filmerà in Mamma Roma (1962) con un diverso impatto figurativo… qui il corpo di Ettore Garofalo (poi attore del film di Ruffo, Una rete piena di sabbia) è disteso sul pancaccio di una cella vuota, semibuia… entra solo la luce della luna… il ragazzo è legato al letto… mezzo nudo, le braccia e i piedi legati, una cinghia gli stringe il petto… è una sorta di piccolo crocifisso dolente che urla disperatamente… Ruffo inquadra il morto nel buio per pochi secondi e non sembra rivolgersi al sacro ma all’uomo che scompare nell’iniquità della propria miseria. Lo sguardo del regista si sofferma sulla povertà dell’ambiente, sui volti dei fratelli spauriti… una donna porta in dono una cesta con del pane e una conca di pasta e dice di confidare nella provvidenza. Tutti mangiano dalla conca con la fretta di una fame primitiva… la sorella più grande dice: “Mangiate poco pane, i giorni di lutto sono finiti e domani nessuno ci porterà più niente”. Rosa va dal funzionario comunale (don Crescenzio) per richiedere i contributi spettano agli alluvionati… le darà solo una coperta e dice che se gli uomini si fingono indifferenti, le donne si sono organizzate e si sono rivolte al prefetto. Don Crescenzio vorrebbe corrompere Rosa. La sequenza è un po’ didascalica, l’interpretazione è piuttosto approssimativa, tuttavia riesce ad esprimere la condizione di sudditanza del paese e le ladrerie dell’apparato municipale… Rosa esce infuriata dall’ufficio e grida: “Assassini, carnefici, la montagna vi colga nel delirio
dei vostri soldi, i lupi vi sbranino”. L’atmosfera generale sottende che l’uguaglianza delle tirannie non può che continuare fino a quando esisteranno le disuguaglianze che tengono in piedi l’edificio sociale.

La trattazione filmica si sposta sugli uomini che giocano a carte, quasi ammucchiati in un bar, gli incontri di Rosa con Peppe che fantasticano sul matrimonio, i ragazzi che giocano nella campagna e sognano ricchezze di grano, olio e vino… Rosa manda il piccolo Gianni a chiedere mezzo quarto d’olio in prestito… pagherà quando arriveranno i soldi degli alluvionati… la donna del bancone, analfabeta, gli indica un cartello sopra il mobile del pane e dell’olio, c’è scritto: “Amico entra e nell’entrare penza che amichi troverai e non credenza”. Rosa è disperata perché nessuno le fa più credito… una donna immiserita, con un bambino in braccio, le dona il pane ma quando torna a casa trova i fratellini a mangiare formaggio e bere vino, dono di don Crescenzio, per prendersi la sua giovinezza. La composizione filmica di Ruffo travalica la “bella” o la corretta inquadratura… sembra dialogare con i personaggi che inquadra… è una cinescrittura che si appoggia non tanto al realismo socialista, come è stato detto, quanto alla poetica dell’umanesimo popolare di Jean Renoir, ripresa poi dagli arrabbiati della Nouvelle Vague, del Free Cinema o del cinema disarmonico di Cassavetes… Ruffo mescola utopia e realtà, attinge alla coscienza arcana della tragedia umana che regola il sogno, l’amore e la morte. Per necessità produttive o creative, forse… rompe l’alfabetizzazione della messa in scena e filma la centralità dei sentimenti, dei valori, della solidarietà, dell’onestà, dell’amicizia, contrapposti alle corruttela e malvagità dei potentati. I caratteri dei personaggi di Ruffo emergono da una lingua del gesto, del sorriso o delle lacrime… un’antirecitazione che ci trasporta nell’intimità dei personaggi, ci fa toccare la loro anima e la veste d’immensa realtà.

Il viatico di Gianni verso la Marina, a piedi scalzi, con solo un pezzo di pane, è una ricerca di libertà o d’indipendenza, forse una nascita o il semplice diritto d’essere uomini in mezzo agli uomini, poiché “non sei libero dove ti nascondi, ma soltanto là dove ti esponi” (Edmond Jabès) (36)… l’erranza ereticale e i primi piani di Gianni diventano la testimonianza di una presenza che infrange le linee di demarcazione che la imprigionano… non c’è amore né libertà nella cattività e nel cinismo dei potenti, solo spavento e l’impietosa lucidità di criminali che si celano nella Onorata Società (non solo) calabrese. Una politica senza assassini sarebbe noiosa quanto una foresta senza serpenti.

(36) Edmond Jabès, Il libro del dialogo, Tullio Pironti Editore, 1987

L’immaginario filmico di Ruffo trabocca nelle potenti inquadrature del territorio calabrese che avvolgono i passi del ragazzo… il saluto dei genitori al cimitero, il letto arido della fiumara… i giochi con un grosso uccello nero, la cattura della lucertola che vorrebbe scambiare con la capra figliata di un pastorello… l’incontro con la ragazzina che lavora al telaio… evidenti rimandi a Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro (37), suggeriscono una visione imperfetta e al contempo raffinata della spontaneità, dove il vero ha più peso della falsità degli dèi… come quando Gianni e la ragazzina giocano a fare i grandi e lei dice: “Io cucino, tu vai a raccogliere l’erba per i buoi e poi aspettiamo un figlio”. Qui la poesia di Emily Dickinson e Marina Cvetaeva s’incontra con Fëdor Dostoevskij e Rainer Maria Rilke… si tratta di spossessare la realtà nell’irrealtà del gioco che diventa verità e fare della disperata vitalità pasoliniana, l’aurora di tutti i dissidi a venire.

(37) Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte, Garzanti, 2017

La tessitura filmica di Tempo d’amarsi, lo ribadiamo… è molto più complessa di quanto sembra passare a una prima visione… Ruffo elabora una serie d’intarsi epici con la semplicità del cantastorie di piazza… dispone di pochi mezzi ma riesce ad avvicinarsi all’inconfessabile chiamandosi fuori dalla letteratura, dal vizio del provincialismo e respinge la coscienza come fatalità… muove la macchina da presa in punta di coltello e spacca tutte le finzioni del miserabilismo. La fotografia bruma di Adriano Bernacchi rasenta il documento e in una figurazione scollata dalla presenzialità del nichilismo abbellito, propria a quanti hanno filmato e fotografato il meridione. Il montaggio aritmico di Rodolfo Palermi infonde al film un sentimento o un’emozione estetica che si dispiega in un’impetuosa ascesa della costruzione filmica e penetra negli strati più profondi dell’attorialità. Se è vero che raramente un’opera mediocre resiste al tempo, il film di Ruffo riscatta la messe di opere notevoli destinate all’oblio del mercato.

Gli interpreti di Tempo d’amarsi — Loretta Capitol (Rosa), Sandro Moretti (Peppe) e Ciccio Pelle (Gianni) —… esprimono a tratti una certa legnosità… che a volte frena il film o almeno ne abbassa la dimensione estetica, tuttavia certi primi piani di Gianni riscattano l’universalità della condizione umana che si ritroverà forse più ampliata nel capolavoro di François Truffaut, I quattrocento colpi, girato nel 1959. Il volto del ragazzo di Ruffo, come in quello di Truffaut, contiene una sinfonia eroica o un inno alla vita che umanizza lo spettatore nella
compassione per la bellezza che genera… è il senso di bellezza che contiene la giustizia e il sogno che dà voce e volto alla miseria del mondo.
Le musiche passionali del rumeno Roman Vlad — autore di colonne sonore di film importanti come Le mura di Malapaga (1949) di René Clement, La bellezza del diavolo (1949) di Renè Clair, Giulietta e Romeo (1954) e I sogni nel Cassetto (1956) di Renato Castellani, La legge (1958) di Jules Dassin, Una vita-Il dramma di una sposa (1958) di Alexandre Astruco La sfida (1958) di Francesco Rosi —… accompagnano il film nell’immaginario intessuto di realtà e sogno di Ruffo… sottolineano i processi costruttivi, alzano l’espressione filmica fuori dalle immagini stereotipate di felicità o dolore. Entrano nell’inquadratura, nella prospettiva, nella luminosità percettiva del regista… aderiscono a un’estetica allargata dell’impianto generale e attraversano la sofferenza con la malinconia della gioia. Lo strano è che nelle dossologie sulle musiche per film di Vlad, quella di Tempo d’amarsi venga dimenticata. Il vizio conclamato degli storici, sovente è una zuffa tra bottegai che si dibattono tra la disapprovazione per opere che parlano di illetterati, analfabeti o ribelli a tutto, confiscate della censura del mercato e la restaurazione dei rituali che portano alla marginalità senza le stellette dell’opinionista. Si può dire di un’opera d’arte compiuta quando la bellezza si trasborda nella generosità, nel coraggio, nella giustizia, poiché la vera bellezza rimanda a una più alta bellezza che coincide col giusto, il buono, il vero… forse la bellezza non salverà il mondo, come auspicava ironicamente Dostoevskij, ma di certo può rende gli uomini le donne migliori.

Tempo d’amarsi è il sentiero in utopia di un ragazzo che ancora non sa, ma che presto saprà, quali sono i falansteri della cattività… come tutti i ragazzi che hanno addosso una formazione spirituale elevata nel mutamento… non aspirano a morali religiose o ideologie politiche, tantomeno alla domesticazione dei saperi… cercano la vita in funzione dei desideri di pace, di bella e di giustizia… conoscono il linguaggio dello stupore e della meraviglia che li avviano alla ricerca della felicità personale e sociale. Non chiudono gli occhi, non distolgono lo sguardo, non fanno morire in gola la voce… non s’inchinano a chicchessia né fanno proseliti… né dimenticano ciò che hanno visto o si scrollano le spalle… sono responsabili delle loro lacrime come dei loro sorrisi, poiché sanno che nessuno può comprare un sorriso. Sanno — senza sapere — che la vita è là dove cambia di nome e il pervenire è il passato che viene in amore dell’uomo per l’intera comunità.

La visione dell’imperfezione simbolica del ragazzo di Tempo d’amarsi… a nostro avviso è anche un attraversamento dello specchio di Alice, che non è solo la reduplicazione della realtà, ma riproposizione di altre realtà visibili soltanto a coloro che, come Alice, si proiettano oltre l’immagine dello specchio (38) e attraversandolo scoprono ciò che si cela nei riflessi della vita quotidiana (o viceversa)… come diceva il papà creativo di Alice a riguardo dei regnanti di poco spirito: “La regola è: marmellata ieri e marmellata domani, ma non marmellata oggi”… l’ironia è di quelle che non si porta dietro troppe innocenze. Ruffo tratta il tema della crescita nell’ingiustizia e Gianni rappresenta il superamento delle ferite che derivano dall’adolescenza… come Alice, Gianni va incontro al processo profondo della propria identità nell’incertezza di viverlo… non c’è nulla di più reale che discoprire la propria immaginazione onirica, poi ché è la radice della creatività in ogni vita… Alice ci ha fatto capire che il sogno è un regno dell’innocenza che le immagini-alfabeto hanno conquistato, e il dizionario-regole degli uomini distrutto.

(38) Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie – Attraverso lo specchio e quello che Alice vi trovò, BUR, 2015

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