Un’annotazione al cuore del discorso. Che cos’è un libro senza controsensi… dove si legge che è sempre l’ora del tè e negli intervalli nessuno a tempo di lavare le tazze, proprio come nella favola di Alice… badare al senso delle parole ci basta, andranno a posto per conto loro… guardate il senso, le sillabe si guarderanno da sé… le varie branche dell’Aritmetica — Ambizione, Mostrificazione, Derisione — non c’interessano, tantomeno pescare nel torbido fango delle persone probe o nell’acquario dei tribuni che dicono tre volte la medesima cosa e pretendono che sia la verità… una scrittura-calembour che funziona solo all’indietro… boh?… e vado da Alice che incontra Humpty Dumpty-testa di uovo e dice che “uno non può fare a meno di crescere”… Humpty Dumpty-testa di uovo risponde con le solite parole-macedonia: “Uno forse non può, ma due possono”, disse Humpty Dumpty-testa di uovo… e poi: “Se ha sognare è solo uno resta un sogno, se a sognare siamo in tanti si può modificare il corso della storia, mah!”, aggiunse Humpty Dumpty-testa di uovo e cascò dal muretto, e nemmeno tutti i cavalli del re riuscirono a metterlo in pié. E poi c’è il gatto senza stivali al quale Alice dice che non vuole stare tra i matti. “Be’, non hai altra scelta”, disse il gatto. “Qui siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta”. “Come lo sai che sono matta?”, dice Alice. “Per forza”, disse il gatto, “Altrimenti non saresti venuta qui”, e si mettono a guardare la luna dei loro giorni… poi attraversarono lo specchio ed ecco quello che vi trovarono: la lingua nobilare dell’assurdo… significa esattamente quello che voglio, né di più né di meno… anche se le parole assumono tanti significati diversi, ciò che importa è chi comanda la pioggia di stelle filanti sui nostri domani che sono già ieri, tutto qui.
Da Alice nel Paese delle meraviglie: «Che roba! Roba dell’altro mondo! Tutto il mondo, oggi, è roba dell’altro mondo! E pensare che fino a ieri le cose avevano un capo e una coda! E se mi avessero scambiata stanotte? Vediamo un po’: stamattina, quando mi sono svegliata, ero proprio la stessa? Mi sembra di ricordare che un po’ diversa mi sentivo, sotto sotto. Ma se non sono la stessa, allora domando e dico: Chi sarò mai allora? Ah, questa sì che è una domanda da centoventidue milioni! (…) “Un giorno Alice arrivò ad un bivio sulla strada e vide lo Stregatto sull’albero. “Che strada devo prendere?” chiese. La risposta fu una domanda: “Dove vuoi andare?” “Non lo so”, rispose Alice. “Allora, – disse lo Stregatto – non ha importanza” (… ) “Il segreto cara Alice, è circondarsi di persone che ti facciano sorridere il cuore. È allora, solo allora, che troverai il Paese delle Meraviglie” (Il cappellaio matto)» (39).
(39) Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie – Attraverso lo specchio e quello che Alice vi trovò, BUR, 2015
Mi ricordo sì, mi ricordo… di quel fotografo di strada, ebbro di vino e di tutto ciò che pertiene la curiosità fanciullesca… era capitato alla tavola di Francesco e Anna, mentre sfogliavo Fra Diavolo di Perri e Paola succhiava le arance come zucchero filato con la grazia della fioraia nel film di Chaplin, Luci della città… m’incuriosiva il fotografo… lo trovavo un po’ poeta e un po’ pirata… non so… sembrava uscire dalla commedia dell’arte… dove nel guitto si nasconde il pugnalatore del re. Gli chiedo cosa cerca nella fotografia… si versa il vino in un bicchiere azzurro, schiaccia una mandorla: “Sono un ubriaco di sogni, è Alice nel paese delle meraviglie che cerco…”. Svuota ancora un bicchiere, dà un strappo al morzello, il panino dei lavoratori che gronda sugo piccante, trippa e frattaglie: “Faccio fotografie nella strada, non per la strada, dove capita… sono in Calabria a inseguire le scarpe, le pistole, le agavi, le capre, le pietre… le mani sudate delle gente… e poi mi piacciono le fiumare, i monti, i mari e le nuvole… nei loro silenzi infusi nelle radici della verità, sopravvive un’infanzia interminabile”.
Lo guardo guardarmi… e in un sorriso a metà tra un Don Chisciotte disarcionato dai giganti – fantocci e un Lazarillo de Tormes sul dorso dell’asino Platero che insegue il canto degli usignoli nei parchi pubblici, l’Ubriaco di sogni: “La fotocamera è un attrezzo che va usato come una forchetta per mangiare la pasta con la ‘nduja… mi piacciono le fotoscritture che tracciano l’imperfezione, perché credo che sui volti, i corpi, gli occhi di qualsiasi persona c’è la storia della sua vita e del mondo… cazzo, questa mi è venuta bene, sembra vera” —. Al terzo o quarto bicchiere di vino di Cutro, l’Ubriaco di sogni s’accende il sigaro, s’allunga sul divano davanti al fuoco del camino che brucia immagini e parole nel fumo di faggio ancora fresco e racconta un sogno che aveva fatto la notte prima in una stanza d’albergo che sembrava una nave azzurra piena di migranti… s’era addormentato con il libro di Alice sul cuore, la sua Alice dai biondi capelli a cavalluccio della via Lattea, è una sorta di ballata appassionata sull’amor sottile: «Tutto accade in una notte bucata di stelle… quando il povero ha fame, il ricco fa finta di singhiozzare, diceva l’anarchico che impiccarono per lesa maestà all’impero dell’indifferenza.
Tutte le erranze conducono alla morte, una sola all’amore di te, Alice dai biondi capelli, e avverto il tuo camminare al suono dei verdi anelli che ti scivolano dalle dita… inciampavo in ogni aggettivo in quel bosco delle fate d’acqua, mentre un cane mi leccava il muso… sapevo che ogni parola è prima di tutto la eco di un’immagine che diventa parola… anche il cane era d’accordo… e anche le pulci saltellavano in concordanza con noi. Davanti a sì tanta platea, l’Ubriaco di sogni dice che il lancio di sassi dell’indignazione si porta dietro l’udibilità del silenzio e del gioco… l’inquietudine dissodata è interrogazione dell’umano più umano… dove il fotografo dell’imperfetto taglia le ali delle giustificazioni, lì sta l’amore per la verità, la bellezza e la giustizia.
L’Ubriaco di sogni prende per mano Alice dai biondi capelli e s’addentrano nel Paese delle Meraviglie… sotto un melograno in fiore incontrano il Maestro della bellezza straboccante… quel Cappellaio matto che girovaga nelle favole in cerca della meraviglia… e dona loro un frammento di pensieri sciolti nel vento d’estate: “Guardati dall’adulazione, ha un retrogusto che mente. Un retrogusto amaro di tradimento… Non ti stupire di aver insanguinato qualche volta il bordo della strada. L’universo è di vetro. Il tuo cammino è disseminato di schegge che la luce riveste di mille colori”, Edmond Jabès, si chiamava, e forse non era nemmeno il cantore dell’interrogazione, forse era solo quel ragazzo che non voleva crescere perché aveva capito la siccità dei cuori che alzano fili spinati e costruiscono i ghetti dell’inferno.
“Non ci ho capito nulla di quello che dico ma qualcosa vorrà pur dire, specie se il detto contiene il non senso d’eternità del dispendio”, dice il Cappellaio matto… e aggiunge: “L’amore per l’umanità che soffre è quel fuoco che brucia solo là dove l’immaginale di dispiega? O restano solo immagini bruciate in attesa del ritorno delle lucciole a quel Maggio rosso?… Quando tutto è condivisione, niente lo è. L’inconosciuto si offre nudo alla luce degli occhi che vedono e come l’amore non va ricoperto di veli”.
L’Ubriaco di sogni mostra qualche fotografia di bambini scalzi nel sole e la pioggia sulla faccia… sono immagini sgangherate, imperfette… bambini massacrati dalle guerre che chiedono solo d’essere amati, niente più… sono il nucleo di una frattura, l’insensatezza del potere che prepara gli stessi domani alle prossime generazioni. Alice dai biondi capelli e il Cappellaio matto si trovano a sorridere e piangere davanti all’incredulità del bianco e nero sparato sugli occhi di bambini che rovistano come ratti su cumuli di spazzatura trascolorata in poesia: “Anche ieri ho dimenticato di uccidermi per la fotografia”, dice l’Ubriaco di sogni, e si stringe forte alla sua Alice dai biondi capelli.
Un coro di pettirossi dispettosi intona per lui: “Se vedi un uomo che soffre non guardarlo negli occhi, forse sta ancorandosi alla pietà”. L’Ubriaco di sogni ribatte: “Se vedi un uomo che soffre guardalo negli occhi e lasciagli nel cuore il dono dell’amore. Tieniti lontano dall’amore che non sa piangere, né ridere, né perdonare e che non s’inchina davanti all’innocenza di baci al profumo di tiglio”. Alice dai biondi capelli e di rosso-vestita aveva cambiato proporzioni 10/100/1000 volte o forse mai… s’accovaccia su un fungo di pan di zucchero a leggere un libro alla rovescia, mentre l’Ubriaco di sogni cercava di fotografare una farfalla bianca che svolazzava sul suo naso: “Sono una bambina, sono una donna, sono un’amante, sono una madre, sono una campagna, soprattutto sono quella che sono e che vedi”, dice Alice dai biondi capelli. L’Ubriaco di sogni: “Tra il mondo reale e quello apparente c’è solo un ponte di carta velina e ci vuole uno smisurato e avventuroso coraggio per attraversare lo specchio che riflette ciò che sei… ciascuno è la persona che vuole essere, e questo vale per un poeta o un assassino. A volte si diventa stupidi fino alla santità, altre volte si raccoglie la pioggia nelle mani come un succo d’amore o un lavacro di lacrime… solo il grande dolore porta alla conoscenza dell’amore e l’incontro d’amore è riconoscersi per toccare la persona che sei”.
Alice dai biondi capelli infila un dito nell’orecchio sordo dell’Ubriaco di sogni: “L’amore è la nostra porzione di pane ricevuta in sorte dai nostri cuori-bambini e quando afferriamo la memoria alla storia, affiliamo i nostri baci sul crinale dei giorni… non esiste, diceva il saggio dei vocaboli inutili, nessuna lacrima che non parla d’amore e ogni bacio è un sorriso che abbatte i muri della sofferenza”. Alice dai biondi capelli monta in groppa alla tartaruga col Cappellaio Matto e l’Ubriaco di sogni, salta su anche il Grifone e si mettono in cerca della morale… il Grifone, con il suo linguaggio sgrammaticato: “Io che sono il simbolo dell’unione di Dio e dell’uomo in Cristo, so che la morale sta negli affari sporchi, nel crimine costituito, nell’apparire agli altri per ciò che non sei, semplicemente… anche i bambini hanno diritto di pensare tanto quanto ne hanno i maiali di volare, aveva detto il fotografo balbuziente che cantava le bambine gentili, era un reverendo, matematico e filosofo, si chiamava Lewis Carroll, e scriveva favole incomprensibili agli adulti… le sue immagini di ragazzine di stracci restituiscono un’epoca sincera dove l’ombra e la luce si ricongiungono a un’età della parola che era innocenza d’amare”.
Il Cappellaio matto coglie caramelle di menta da un albero di liquirizia e le spartisce con Alice dai biondi capelli e l’Ubriaco dei sogni: “Ogni cosa ha una morale ma non c’è morale in ogni cosa, boh. La sola morale che conosco passa dalla bellezza, perché nella bellezza c’è la giustizia, il resto sono sermoni per fabbricare illusioni». L’Ubriaco di sogni finisce qui la ballata dell’amor sottile e s’avvia barcollando verso la luna… Francesco e Anna gli chiedono di restare per la notte, Pino e Paola rassettano i fogli di Ruffo mangiando un limone. L’Ubriaco dei sogni: “Mi basta il divano davanti al camino”… dice, cercando d’accendere il sigaro con una zippo ammaccata nelle guerre… e s’addormenta abbracciato alla gattina cieca che gli sussurra all’orecchio buono, forse: “La bellezza, la verità, la giustizia si riconoscono solo nella dignità insolente dei giusti… e la libertà è nelle piste dei canti che riempiono i taccuini di viaggio dei passatori di confine”.
All’alba della mattina dopo il divano era vuoto… la brace del camino scricchiolava di domande e di risposte disseminate nell’aria… mezzo sigaro è rimasto sulla copertina di Gente in Aspromonte… con Francesco, Anna e Paola riprendiamo il cammino nel ventre della Calabria e c’immergiamo nei boschi della Sila dove i lupi ci guardano nella carne dei secoli che non sono riusciti a soffocare i guaiti. Il cinema dell’imperfezione di Ruffo, mi viene da pensare, non è poi tanto simbolica… è un sudario di bellezza senza tempo… come la fotografia dell’imperfezione nasce nella strada e lì diventa aurora di un grado supremo di dignità e d’amore tra le genti… riporta all’essenza della bellezza che il quotidiano devasta… si riconosce nei bachi da notte di seta, quando si schiudono diventano farfalle e perpetuano le leggende auree sulla verità della propria terra. La gioia della semplicità è una candela, la speranza che la nutre è un incendio. Il cinema dell’imperfezione di Ruffo è una macchia di memoria che lo sguardo percepisce… una scuola d’iniziazione che squarcia i focolai di una lingua mai morta… e tra il commosso, lo sconcertato e il divertito, impara a vivere come a morire.
Di Una rete piena di sabbia. Si può prevedere tutto — anche un tiranno, un papa, un capo di stato o un generale che spara sui bambini palestinesi che giocano tra fili spinati, impiccati come propugnatori di efferate violenze —, fuorché il destino di un film. Se “la fotografia è la verità. Il cinema è la verità ventiquattro volte al secondo”, Jean-Luc Godard), diceva… le ombre e le luci del cinema precedono le percezioni, le confidenze, le discordanze… rivelano sincerità e bassezze, fantasmagorie e allucinazioni, vigliaccherie e colpi di grazia… ci lasciano in sorte l’oro dell’intelligenza o le ceneri della stupidità… basta un minuto di cinema per dimenticare secoli di dolore o uno schermo d’idiozie per celebrare le gogne dell’apparenza… alle volte ci sono film che disvelano ere di sottomissione e aneliti di rivolta, e fuori da una letteratura dei rimpianti e dei guaiti, riescono a dirottare nella disillusione e nella defascinazione d’una realtà abbreviata nel servaggio, il risorgimento della coscienza.
L’ultimo lavoro di Ruffo, prima della sua prematura scomparsa (1972), è Una rete piena di sabbia. Ancora un film sulla sua terra, vista nel profondo della sua bellezza mediterranea e le storie della povera gente assoggettata alle baronie, alle mafie, alla ferocia della politica e all’inerzia dell’informazione. Ruffo firma la regia, il soggetto e la sceneggiatura e la regia… diciamolo subito… in Tempo d’amarsi (principalmente) e Una rete piena di sabbia sono avviluppati nell’arché (principio-origine) di un fare-cinema che contiene la forza primigenia che — come il fuoco di Eraclito — destina gli elementi primordiali — acqua, aria, terra — all’insorgenza dell’uomo che “vuole l’impossibile perché l’impossibile accada” (Eraclito). Il filosofo Hans Georg Gadamer coglie in Eraclito la presenza dell’essere e il suo manifestarsi nel fulmine che governa ogni cosa … (40) nel risveglio della coscienza come fondamento di ogni verità e realtà del mondo.
(40) Hans Georg Gadamer, Eraclito. Ermeneutica e mondo antico, Donzelli, 2004
Il cinema-arché di Ruffo è una fessura poetica disseminata sull’ordine delle rovine… un fermento di volti, corpi, ombre, luci… che recano addosso la lingua dei poeti, degli armenti, delle ballate, dei bambini padroni dei loro cammini… cinema-specchio di una fatalità da infrangere che riverbera e s’abbevera agli echi di grida mai sopite… un’immagine-coscienza di verità che fa male e al contempo riaccende fuochi mai sopiti… un cinema-arché che consente di vedere, sentire, sognare, interrogare e giudicare… un cinema-verità che sorge sulla realtà che crea e alla quale rimanda per conquistare nuove primavere di bellezza. Giocando con Socrate, che era un anarchico avvezzo al vino e alle barricate: Quello che ho capito del cinema-arché di Ruffo è eccellente… sono convinto che quello che non ho capito sia altrettanto eccellente… ma ci vorrebbe un bravissimo pastore illetterato per riportare alla luce verità dell’immutabile di terre sconsacrate.
Di Una rete piena di sabbia. Un regista cinematografico è chiamato dall’avvocato Cacace, fedele servitore del baronetto di San Luca, Don Mario Cafasi, per girare un reportage nella sua terra d’origine, la Calabria… siamo alla vigilia delle elezioni politiche e il servizio televisivo deve sostenere la sua elezione a deputato. Il baronetto compra il voto dei pescatori con le cambiali. La baronessa, una nostalgica del fascismo, si allea con un capo-mafia e vorrebbe che il regista non facesse parlare la gente ma filmare solo le suggestioni turistiche e paesaggistiche… il regista invece cerca di documentare anche le misere condizioni della popolazione… la mafia, la droga, i giochi sporchi del feudalesimo calabrese… compresa la squallida intesa tra la baronessa e la marchesa data in moglie al baronetto (visto con venature omosessuali)… cosciente anche che il suo lavoro finirà nella cesta dei rifiuti o in un magazzino della televisione. Infatti i dirigenti dell’azienda lo aiuteranno e manderanno in onda solo la parte turistica. Il regista torna a Roma, deciso comunque di ritornare nella sua terra per raccontarla in un film di denuncia sociale (con una vaga proposta produttiva della marchesa).
La filmografia di Ruffo si chiude con Una rete piena di sabbia. Va detto… il film è complesso… a tratti grezzo, sovente carico di un’attorialità frettolosa… ma attraversato anche da un’energia ribellistica, posta fuori dalle categorie mercantili… con momenti d’alta densità drammatica. Ruffo gira a Bovalino, Marina di Gioiosa Ionica, San Luca, Siderno, Catanzaro, Stallettì, Soverato… mostra una Calabria dove l’onnipresenza mafiosa è forte, disciplinare, trasfigurata nella bellezza ionica del paesaggio e appoggiata sui volti rudi, severi, anche amorosi della gente calabra. La fotografia di Renato Fait (che aveva sostituito Carlo Bellero), alterna la luminosità degli ambienti (spiagge, paesi, strade), con l’asciuttezza dei volti incastonati sovente nel nero che provoca sensibilità e sentimento estetico. Il montaggio di Mario Giacco alterna panoramiche, anche audaci, a primi piani che sorprendono per l’asciuttezza della disarmonia. Le musiche di Teo Usuelli sono corse da un’amaritudine da tragedia greca, dove terrore e pietà infondono nello spettatore una sorta di canto disadorno alla loro vita. La canzone dei titoli di testa, Cosa nostra, cantata da Vanda Romanelli, è il prologo del racconto filmico, il timbro d’ingresso in qualcosa che accadrà e non sarà bello. L’attorialità non sembra riguardare molto l’epica filmica di Ruffo… i suoi documentari/film esprimono un’estetica del guerriero che rifiuta l’opera d’arte convertita in merce.
A vedere l’interpretazione che Cyrus Elias dà a Ennio dè Roberti (con l’accento sulla è prima di Roberti, dice più volte l’avvocato del barone), si stenta a credere che abbia frequentato l’Actors Studio di New York e i corsi di Elia Kazan, Lee Strasberg e Cheryl Crawford… lungo il film è sempre piuttosto imbastito e a volte suscita un qualche imbarazzo comunicativo. Se togliamo le immagini-corpo di Ettore Garofolo (Rocco), Myriam Micol (Lisa), Gabriella Giorgelli (Concia) e Giuliano Raffaelli (Bastiano)… il resto del cast (Fulvia Franco, Renè Curè, Olga Corbelli, Fred Coplan, Mirella Panfili, Gaetano dell’Era, Nanda Primavera) resta pietrificato in stereotipi da commedia all’italiana. Ruffo tuttavia ammorba la semplicità interpretativa con sapienti movimenti di macchina, primi piani ambientati, sguardi incrociati con elementi scenografici… è cosciente di filmare ciò che serve alla storia e lascia andare, fin troppo, gli atteggiamenti aulici dei suoi attori.
Garofolo dà un volto di periferia a Rocco, invero più romano che calabrese, ma riesce a trasmettere con forza un mondo impoverito che vuole uscire dall’emarginazione. La faccia plebea, la camminata sfrontata del povero di borgata, l’aggressività amorosa che butta addosso alla Giorgelli o la morte un po’ estremizzata nel gesto ma efficiente nel tragico, travalicano la filosofia della dannazione dalla quale parte, per attestarsi sull’emersione di un’anima persa che sfida la proibizione e nella morte risorge in forma di angelo ribelle. Myriam Micol (Lisa) è brava… incuriosisce per la sua modernità figurativa… sempre sovra le righe ma a tutto tondo dentro il film… la sequenza del risveglio di Lisa che canta Bella Ciao, gli atteggiamenti con il regista e l’operatore nella sua casa, l’amore sull’altalena con dè Roberti e la cantante approssimativa del finale, la risucchiano dalla semplicità che interpreta e ne fanno una comprimaria di spessore utile al film. La Giorgelli (Concia) incarna la sensualità e l’amore incendiario… gli occhi grandi, il corpo procace avvolto nel vestito bianco, i baci randagi con Rocco, sbalzano il film fuori dal provincialismo… quando Rocco la insegue e fanno l’amore sulle scale, la focosità della passione sembra dire che quando l’amore chiama, seguilo, poiché l’amore basta all’amore e vince su tutte le contrarietà. Raffaelli (Bastiano) ripercorre i viatici di realtà quasi documentaria che Ruffo sempre dissemina nei suoi lavori… forte presenza della figura, disinvoltura dei gesti, caratterizzazione del personaggio nella semplicità che accompagna i dialoghi… una figura insomma che conosce l’immensità del dolore quanto la possibilità di trasformarlo in condivisione e spartizione della gioia che promette il nascere di una nuova coscienza sociale.
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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