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Nancy “Nan” Goldin è una fotografa di notevole talento visionario.

di Pino Bertelli

L’anomalia, la bruttura, la diversità, la bellezza, il dolore autentici… stanno nella «società normale»

 

 

La provocazione del corpo 

La filosofia della fotografia radicale si configura nella rottura dei rapporti con gli dèi, con i padri, con la propria lingua e il proprio paese… solo attraverso il disinganno di tutto quello che ci fa soffrire ci dà la sensazione di raggiungere finalmente il vero, diceva. La stupidità, in fotografia e dappertutto, si nutre di se stessa, e per questo che non sa rinnovarsi! Non è grazie alla confessione o alla servitù, ma grazie alla sofferenza, e solo grazie ad essa, che la facciamo finita di essere marionette nelle mani di filatori di dolore. Più si è sofferto, più si rivendica. E la fotografia può essere l’utensile che riscatta tutte le ingiustizie e tutte le paure… nessun potere riesce a resistere a un solo attimo di stupore e meraviglia di un uomo, come di un popolo, in rivolta. Nancy “Nan” Goldin è una fotografa di notevole talento visionario. Usa il corpo come un’arma o una poesia, ma più di ogni altra cosa il suo lavoro esprime una poetica della provocazione, dove il dolore dello scarto è anche il riconoscimento della società dei ruoli. La storia dell’arte moderna è anche la storia della merce che essa stessa ha prodotto e distrutto eleggendola a simulacro. La Goldin si fa interprete della controcultura newyorkese degli anni `80, la sua fotografia assume il ruolo di “manifesto” (dicono, ma non è così) della politica radicale che investe l’immaginario sociale americano. La diversità sessuale, l’Aids, il proibizionismo sono le battaglie nelle quali si riconosce… l’arte totale che dice di abbracciare, sovente si scontra con la cruda realtà dei ghetti e non sempre gli artisti sono così sensibili alla fame e alle discriminazioni dei poveri. La verità e la giustizia poche volte hanno abitato nei gazebi dell’arte della società dello spettacolo. «Io credo — dice Nan Goldin —, che uno dovrebbe creare da ciò che conosce e parlare della sua tribù… Tu puoi parlare solamente della tua reale comprensione ed empatia con ciò di cui fai esperienza». L’emancipazione dell’arte che si fonda sul mercimonio, infatti, si porta dietro anche la sua putrefazione. Nancy “Nan” Goldin nasce a Washington il 12 settembre 1953, i genitori sono ebrei, appartengono alla classe media, di idee liberali. La sorella maggiore di “Nan” (i Goldin hanno quattro figli), Barbara Holly, si toglie la vita all’età di 18 anni, è il 12 aprile 1965. La buona educazione della famiglia non ha buon gioco su “Nan”. Nel 1969 si scrive alla Satya Community School (a Lincoln), che lei soprannominerà la “hippie free school”, per le idee non convenzionali che circolano lì dentro, e prende nelle mani una macchina fotografica. Si trasferisce a Boston per studiare alla School of the Museum Fine Arts e qui inizia a fotografare in margine alla vita comune. Il suo sguardo trasversale entra nella sub-cultura di quel tempo e le sue immagini (in bianco e nero) delle drag queens sono di grande impatto visivo. Imperfette, sgrammaticate, grezze… ma sorprendentemente autentiche. Nel 1978 la Goldin si trasferisce a Londra, poi a New York. Apre un piccolo studio (che condivide con altri artisti) nella Bowery e per vivere fa la barista in un night-club. Non si fa mancare nulla. Alcool, droghe, amori d’ogni sorta… abbandona il bianco e nero e affronta il colore e l’uso costante del flash. Fotografa la sua “vivenza” laterale e i suoi amici (Cookie Mueller, Sharon Niesp, Bruce Balboni, David Armstrong…). Proietta le diapositive al Rafiks Underground Cinema, Mudd Club, Maggie Smith’s Tin Pan Alley e in altri luoghi aperti alla sperimentazione multimediale… nel 1986 fa la prima mostra alla Burden Gallery di New York e pubblica il libro, The Ballad of Sexual Dependency. È la nascita di una stella. The Ballad of Sexual Dependency si compone di una serie di immagini, a tratti straordinarie, un vero e proprio canto dell’imperfezione. Si tratta di 700 fotografie a colori (50 minuti) di amici, familiari e della stessa Goldin. Le loro relazioni amicali, amorose, violente… il disagio, la solitudine, l’incapacità di incontrarsi veramente, sembrano attraversare dei rituali iconografici ed abitare spazi vuoti dove può accadere tutto e nulla. L’estraneità dell’amore o la sua perdita escono da una composizione a mosaico che figura una fenomenologia della vita estrema, forse. La colonna sonora (musica classica, rock o pop) fa da controcanto alla lettura delle immagini e ciò che emerge da questo emblematico “saggio antropologico” è l’impossibilità di amare e di essere amati, o una via di fuga verso una sognata libertà. La poesia autentica non è altro che il rovescio dell’eterno nella storia. Il corpo e la figura umana fotografati dalla Goldin appartengono al tema del “ricordo”, che è lo schema della trasformazione della merce in oggetto da collezione (Walter Benjamin, diceva). La tecnica dell’istantanea teorizzata dalla Goldin è del resto nota: “Strutturo il mio lavoro secondo i fatti che segnano la mia vita, i momenti di rottura. Dopo essere stata picchiata, vedevo la mia vita in funzione di un prima e un dopo… Il mio lavoro ha certamente le sue radici nella fotografia istantanea che è, secondo me, il genere fotografico più determinato dall’amore” (“Nan” Goldin). Ci sono una messe di fotografi che potrebbero dire il contrario e brigate di abatini della fotografia di guerra che hanno fatto del dolore degli altri il “dono consacrato” alle ghigliottine dei mass-media. Ogni fotografia è messaggera di qualcosa che porta in sé il destino (il dolore) di un’epoca o non è niente. Il successo di critica e del mercato della fotografia della Goldin è quasi immediato. Le gallerie, i musei, gli addetti ai lavori portano le sue opere nelle città americane ed europee (The Ballad of Sexual Dependency è proiettata ai Film Festival di Edimburgo e di Berlino), anche la trasgressione viene recuperata e rende bene. L’Aids entra nella vita di “Nan” e colpisce molti suoi amici. Muore anche la sua compagna di strada, Cookie Mueller. “Nan” riesce a documentare le loro sofferenze con passione e riservatezza. La fotografa del margine decide di farla finita con gli abusi artificiali e nel 1988 entra in una clinica per disintossicarsi. Diventa attiva nei gruppi Act Up, Visual Aids e organizza una grande mostra a New York, dedicata alla “malattia dell’amore” (che promuoverà l’istituzione della giornata mondiale sull’Aids e viene ricordata il primo dicembre di ogni anno). Negli anni ’90 la Goldin acquisisce una borsa di studio dal DAAD e va a Berlino. Ci resta tre anni. Viaggia in Europa, Giappone, Italia… in Sicilia realizza alcune fotografie di paesaggio — dichiarate celebri —… sembrano però sollecitate dalle esigenze del mercato, più che dalla passionalità dell’artista. Dopo Ballad of Sexual Dependency (1986), pubblica The Other Side (1972- 1992); Vakat (con Joachim Sartorius, 1993); Tokyo Love (con Nobujoshi Araki, 1994); A Double Life (con David Armstrong, 1994); I’ll Be Your Mirror (1996); Ten Years After: Naples 1986-1996 (con Guido Costa, 1998); Couples and Loneliness (1999); Devil’s Playground (2004). Il suo lavoro è rappresentato dalle gallerie Matthew Marks di New York, Ivonne Lambert di Parigi, White Cube di Londra, Spruth, Magers di Colonia/Monaco e Guido Costa Projects di Torino. Fa parte del gruppo detto dei cinque di Boston (Five of Boston). La sua collaborazione con Araki l’accosta al linguaggio fotografico della disinvoltura, che sembra graffiare ed invece lecca l’oggetto del desiderio depredato e ricostruito, anche in modo grossolano. Non ci entusiasmano le sue immagini “concettuali” che molto hanno fatto gridare critici e mercanti alla bellezza del dolore, come Honda brothers in cherry blossom storm, scattata a Tokyo nel 1994. Si tratta di una pioggia di fiori di ciliegio smerciata come simbolo della brevità dell’esistenza e di quanto sia effimera la bellezza. Non ci convince nemmeno The sky on the twilight of Philippine’s suicide, fatta in Svizzera nel 1997, dove un cielo rosso dicono che esprima il dolore dell’artista per il suicidio dell’amica. Anche la ritrattistica delle scene alternative di New York, Bangkok, Manila o Tokyo non raggiunge l’elegia trasgressiva di The Ballad of Sexual Dependency e il furore antagonista della fotografa americana si fa più stemperato, più adeguato alle richieste del mercato. Nel “bello d’autore” si legge che ogni provocazione artistica è morta. II. Elogio dell’imperfezione Alla fine degli anni `90, la Goldin allestisce al Whitney Museum di New York, la mostra retrospettiva, I’ll Be Your Mirror (titolo preso dall’omonima canzone di Lou Reed). Lì c’è la radicalità del suo percorso artistico e col passare degli anni anche la sua trovata serenità, forse. Le fotografie più recenti sembrano aver perso quella carica trasversale dispersa nei primi lavori e l’invettiva si fa più calcolata, commestibile. I’ll Be Your Mirror (50’) è anche il titolo del documentario girato nel 1997, con la collaborazione dell’inglese Edmund Coulthard. È un buon film. Coulthard racconta la vita della Goldin con grande trasporto e le interviste degli amici, degli artisti, mescolate alle sue fotografie esprimono bene la singolarità della donna e la bellezza estrema di un sguardo fotografico non comune. La colonna sonora è composta da brani di The Velvet Underground, Patti Smith, Television e Eartha Kitt, e anche se non crediamo che il film rappresenti il ritratto di una generazione (come è stato scritto in molte occasioni), resta comunque uno spaccato di verità su un’artista dove il coraggio di un’esistenza particolare si fonde alla cattività della fotografia di strada. I’ll Be Your Mirror è passato in diversi Festival cinematografici (Festival Internazionale di Edimburgo e al Berlino Film Festival), ha ricevuto un premio speciale dalla giuria del Prix Italia e ha vinto il premio come miglior documentario al Montreal Festival of Films on Art. In chiusa al suo documentario Contacts (1999), la Goldin spiega le incomprensioni nelle quali sono incappate molte persone che si sono avvicinate alla sua opera: «Il mio lavoro è sempre stato equivocato come riguardante un certo milieu di droghe, party selvaggi e bassifondi; ma anche se la mia famiglia è ancora marginale, e non vogliamo far parte della «società normale», penso che il mio lavoro non abbia mai trattato di questo, ma semplicemente della condizione di essere umani, il dolore, la capacità di sopravvivere, e quanto sia difficile tutto ciò». L’anomalia, la bruttura, la diversità, la bellezza, il dolore autentici… stanno nella «società normale», nelle periferie invisibili, nella fame dei popoli… Goethe, Montaigne Rimbaud, dicevano. Ciò che gli artisti chiamano “incomprensione o equivoco”, spesso è soltanto la mancanza di un posto adeguato nel commercio delle idee. Tutto qui. Nel terzo millennio la Goldin si è dedicata a nuove mostre, a fare documentari, a lavorare in altri ambiti comunicazionali… le ferrovie francesi le hanno affidato una campagna pubblicitaria per rappresentare l’efficacia dello Stato al servizio della gente sui treni parigini. Recentemente è stata insignita del titolo di Commendatore delle Arti e delle Lettere dal Governo francese, paese in cui risiede ormai da diversi anni (se lo merita! avrebbe detto Jean-Paul Sartre ad Albert Camus, quando questi accettò di ritirare il Premio Nobel per la letteratura, da lui rifiutato… noi pensiamo tuttavia che Camus resta uno tra i più grandi filosofi libertari del novecento). 

L`estetica “spontaneista” della Goldin, al di là di una certa carica dirompente e dissacratoria innegabile, ha portato la fotografia radicale nei templi del mercantile che l’ha incensata e ci sono frotte di giovani artisti che scalpitano per entrare nel supermercato della fotografia, danzando. La filosofia dell’istantanea della Goldin si ritaglia nella rappresentazione del tempo incanaglito nei valori correnti, e nella relazione col perduto o riscattato nel disamore dell’esistere trasversalmente alla morale comune, al destino dei servi… la sua opera fotografica si configura nell’elogio dell’imperfezione, dove tutto ciò che è perduto non solo esige di essere ricordato, ma reso indimenticabile. Nelle sue immagini emerge l’incoffessato, i desideri inesauditi e il trasporto con tutto ciò che si perde. Non c’è nulla che leghi l’uomo alla storia quanto la sua immagine colta in prossimità di un evento e fuori da ogni giudizio morale. Dove la nobiltà dell’espressione è inadeguata non resta che l’ombra della sua nobiltà (non solo) fotografica. Ovunque la Goldin porti la sua fotocamera, raccoglie la vita ordinaria sempre rifilata in un certo estetismo goduto, l’occasionalità o le intemperanze delle sue immagini hanno davvero poco a che fare con i maestri della fotografia maledetta o non omologata come Sander, Weegee o la Arbus, comparazioni che storici, critici e galleristi hanno fatto (malamente) con la Goldin. Lei, come sappiamo, ha rifiutato qualsiasi paternità poetica, soprattutto con la Arbus, e infatti, non c’è confronti… la Arbus fa parte degli immortali della fotografia trasgressiva, la Goldin degli esteti della trasgressione. Il valore affabulativo della Goldin è innegabile. Il suo modo di raccontare l’altra faccia dell’esistenza è di quelli forti, diretti, mai superficiali. Le fotografie erotiche (di omosessuali o eterosessuali) non sbordano mai nel pornografico e le immagini che riguardano l’Aids, non cadono mai nel pietismo. Anche se le fotografie di Greer e la sua trasformazione da uomo a donna, sembrano toccare le corde dell’esibizione. La “cipria accattivante” del bello non tracima nel sublime, resta all’interno di una dialettica formale dove l’incanto dell’apparenza dura solo un istante. Poi la verità dell’opera d’arte scopre le proprie ragioni e decreta il tramonto della bellezza, cioè della sua morte. Il carattere finito della fotografia va oltre l’idea di felicità o di dolore, è l’immagine che leva la testa contro il destino, lo affronta e ne decreta la non obbedienza. La verità, la giustizia, la poesia sono passaggi ineluttabili che fanno dell’arte un bordello senza muri o fuochi di rivolta accesi nella notte delle idee. L’estetica della strada della Goldin negli anni si è fatta più intima, meno feroce. La sua popolarità comunque è davvero vasta e non del tutto immeritata. Anche nel postribolo della moda si sono accorti che si può fotografare la banalità, come la Goldin, e farne qualcosa di culturale, di sociologico o di politico. I maggiori musei del mondo se la contendono. Le più significative collezioni pubbliche e private hanno comprato le sue immagini dell’anomalia. Il lavoro artistico della Goldin consiste, e non è poco, della scelta di un tema e la trattazione può durare diversi anni. The Ballad è senza dubbio un’opera di notevole espressione etica e formale. È un diaporama elaborato su diversi piani di lettura. C’è la spontaneità dei soggetti ma anche il costruito, l’interpretato… il fotografo è ad una distanza “partecipata” e mai oggettiva (come sembra volere apparire). Troviamo profonda e incisiva la serie The Cookie Portfolio, quindici ritratti realizzati dal 1976 al 1989 alla sua amica Cookie (attrice, poetessa e interprete culturale della scena underground di New York). Le fotografie ripercorrono la storia della loro amicizia… il loro primo incontro nel 1976, il matrimonio di Cookie con Vittorio Scarpati nel 1986 e le immagini del suo funerale. Scarpati era un artista napoletano che viveva a New York, morto di Aids qualche mese prima di Cookie. The Cookie Portfolio deborda dal personale, dall’intimo, dal privato… e diventa un tributo all’amicizia, all’amore, all’abbandono. Gli album fotografici della Goldin tratteggiano i clamori, le ansie, le cadute di quella controcultura americana (non solo newyorkese ) che è stata anticipatrice di un malessere diffuso nelle generazioni occidentali. A ritroso. La visione eversiva della Arbus (nata sotto contraria stella) teneva nel cuore la fine dei giorni, cioè lo stupore o l’aurora del Bello negli occhi dei bambini o dei poeti delle periferie invisibili. A risorgere, e le sue fotografie — lo dicono forte —, non saranno i corpi dei dominatori (né delle loro vittime), ma la rivendicazione di una politica del quotidiano e le battaglie civili per i diritti politici degli ultimi e degli offesi. Le fotoscritture della Goldin hanno mostrato la disaffezione alla vita o la celebrazione delle differenze, ma nel contempo sono state deposte o disperse nell’universo sofisticato dell’arte contemporanea ed hanno ucciso la dolente umanità delle minoranze.

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