fbpx Skip to content

Francesca Woodman – Sulla fotografia dell’esistenza

di Pino Bertelli

«Ho dei parametri e la mia vita
a questo punto è paragonabile
ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè
e vorrei piuttosto morire giovane,
preservando ciò che è stato fatto,
anziché cancellare confusamente
tutte queste cose delicate».

Francesca Woodman

Sulla fotografia differenzialista

Nel regno della felicità obbligatoria i fotografi della differenza procedono in modo diverso, negano un sistema di norme che vogliono imporre a tutto quanto nega il banale, il conforme o l’insensato… nella fotografia declamatoria “il cuore resta spaventato da quell’immensa prostituzione del genio” (Niccolò Machiavelli), pertanto è necessario sapere usare bene la fotografia e non farne un inganno mercantile… chi conosce, ricerca o affronta l’immaginale della diversità si chiama fuori dalla giungla organizzata che giustifica o sorregge le macerie dell’arte (non solo) fotografica, e chi inganna troverà sulla sua strada chi lo ingannerà, diceva. È perduto il fotografo che non ha più lacrime per la fotografia.
L’esercizio della fotografia contemporanea non si concilia molto con il rispetto dell’essere umano… laddove incomincia ad esclamare, laddove incornicia l’estetica del nulla, laddove il consenso diventa il viatico di santità istituzionali… il talento abbandona l’artista e non interessa più che solo a se stesso e alla bruttura che lo decanta. Non si dovrebbe codificare l’arte né insegnarla se non in un giardino (Epicuro) o nella strada (Diane Arbus). Si tratta di non smettere di meravigliarsi o di sbalordirsi, come gli spiriti acuti che orientano la loro intelligenza affabulativa verso l’interpretazione della vita autentica, con quel che ne consegue, e non farne uso da baracconate per gli arlecchini del mondano. L’ingiustizia e la bruttura della fotografia governano l’universo.
In fotografia, la poetica della differenza o della lacerazione introduce una filosofia dell’esistenza che la riabilita e umanizza… è una cartografia del corpo che ricorda, e non è mai abbastanza, che in questo fare-fotografia si è vivi e ben vivi, come nel caso di Francesca Woodman. L’autoritratto è stato il suo grimaldello espressivo (principalmente) ed ha fatto della ricerca estetica/etica l’essenza di ciò che pensava di se stessa in termini di percezione del sentire… di fronte alle sue immagini fragili e limpide di verità e bellezza, l’impostura dell’artista supremo cade a favore di un’avventura del ludico che equivale a una dilatazione interiore, malinconica, duale, che si accosta al sogno e in uno stato di grazia, anche seduttivo, incanta l’indecenze della fotografia (non solo) del suo tempo.
L’autoritratto qui diventa introduzione alla coscienza di accettare ed essere accettati in un tessuto sociale che ha ucciso l’incuriosità e cessato di amare il diverso da sé come disagio dell’istante scippato alla storia. Non si corregge Diane Arbus, si prende a maestra di un’impresa eccezionale. Ed è ciò che su altri crinali della scrittura fotografica ha fatto la Woodman. Di più. I grandi randagi della fotografia che vale non sono mai caduti nell’ingenuità o nell’oblio e hanno mostrato che si è liberi soltanto vivendo all’incrocio epico/artistico (non importa quanto riconosciuto) con le loro opere. Intemporali come briganti di confine o come bambini sporchi di strada, i fotografi della diversità
conoscono l’estrema libertà dei cani perduti senza collare e senza mai perdere il sorriso negli occhi e la morte nel cuore vanno a scuotere le fondamenta dell’ordine costituito, con tutto ciò che comporta. L’ironia vuole che al fondo di un’opera d’arte non ci siano fraintendimenti e il privilegio dell’utopia prevalga sul disutile di ogni casta. Tagliare i ceppi dell’arte equivale a spogliare l’immagine sociale delle proprie certezze, a svestirsi di tutte le mitologie con le quali gli uomini sono tenuti a guinzaglio e avviarsi verso la nudità della bellezza senza legami che si chiama liberazione.
La Woodman ha espresso una fotografia che è un attentato alla lordura delle apparenze e al fondo del suo fare-fotografia non si accede se non in virtù dell’accoglimento e riconoscenza riservati ai poeti che fecero l’impresa… entrare nelle sue immagini (nei suoi autoritratti) significa addentrarsi ai margini dell’esistente, bruciarsi al fuoco della vita (che è sempre un risorgere) e leccarsi il dolore delle bruciature. “Il passato brucia, soffre ancora sotto le ceneri. Il dolore delle bruciature intime e la possibilità di vivere con coraggio si sfidano incessantemente nel nostro cuore. Distruggere in noi le antiche pene comporta una lunga sofferenza” (Gaston Bachelard) (58)

(58) Gaston Bachelard, Poetica del fuoco. Frammenti di un lavoro incompiuto, Red Edizioni, 1990

Solo una filosofia della differenza o un’etica dell’identità che non volta le spalle alla bellezza, possono aiutare a comprendere che al fondo di ogni linguaggio del comunicare non esiste verità assoluta ma errori esperienziali… talvolta l’arte fa violenza a se stessa e mente sul significato (celebra il significante nel crepuscolo delle idee), altre volte il significato travalica l’opera d’arte e diventa patrimonio di tutti (risveglia il significato nella libertà di immaginare). Bisogna sognare molto nel crogiolo dell’esistenza per rubare il fuoco sapienziale degli dèi e donarlo agli uomini.
La fotografia differenzialista, va detto, marca il “diritto alla differenza”, espone il vissuto contro il concepito della cultura dominante… è una filosofia dell’esistenza che tratta, anche, di abbattere e abolire apparati politici, militari e statuali (capitalismo di Stato e socialismo di Stato), strategie che vogliono stabilire l’indifferenza opponendo loro il gioco delle differenze a livello mondiale, come dice Henri Lefebvre, filosofo, sociologo, urbanista e partigiano francese, uno degli ispiratori del Maggio 1968, ne Il manifesto differenzialista (59)

(59) Henri Lefebvre, Il manifesto differenzialista, Dedalo, 1980

In Critica della vita quotidiana (60) Lefebvre va più in profondità e scrive: “La Rivoluzione (violenta o non violenta) prende quindi un senso nuovo: distruzione del quotidiano, ripristino della Festa. […] La rivoluzione non si definisce dunque solamente sul piano economico, politico o ideologico, ma più concretamente attraverso la fine del quotidiano. […] Mette fine al suo prestigio, alla sua razionalità, a quell’opposizione fra quotidiano e festa (fra lavoro e tempo libero) che è il fondamento della società”. L’alienazione è parte di un sistema spettacolare che segna l’indecenza dell’ordinario e conferisce agli uomini lo statuto di schiavi… la carta geografica dello spettacolo corrisponde alla fabbricazione concreta dell’alienazione e lo spettacolo è il capitale ad un tal grado d’accumulazione da divenire immagine, diceva. L’economia politica è la scienza dominante e tecnica del dominio… l’espansione dei mercati globali sono la potenza trasformata in merci e occupano totalmente la vita sociale. Il monopolio dei bisogni è fatto, si tratta ora di lavorare alla sua caduta… e ciò può avvenire “soltanto là dove gli individui sono direttamente legati alla storia universale; soltanto là dove il dialogo si è armato per far vincere le proprie condizioni” (61).

(60) Henri Lefebvre, Critica della vita quotidiana, due volumi, Dedalo 1977

(61) Guy Debord, La società dello spettacolo, Vallecchi, 1979

 Il potere esiste fintantoché dura la soggezione… e solo l’uomo in rivolta ne può determinare la fine. La visione radicale/differenzialista è contagiosa e nelle sue molteplicità espressive è essenziale nel momento in cui la si prende in considerazione. Il soggetto (del quale si prende cura) è una creazione di eccessi mai sopiti e il centro di ogni fattualità, rizomario di sentimenti struccati e passioni liberate.
“La percezione delle differenze e lo spirito di finezza, cioè la finezza dello spirito, si accompagnano… le differenze affiorano… tra il tutto e il nulla c’è qualcosa. Questo: la superficie. Quello: il gioco cangiante delle differenze” (Henri Lefbvre) (62). 

(62) Henri Lefebvre, Il manifesto differenzialista, Dedalo Libri, 1980

La fotografia differenzialista si compie fuori dalla coercizione delle influenze sociali, politiche e nello sforzo di trasformazione della vita quotidiana supera la condizione esistenziale dalla quale debutta. Fare-fotografia differenzialista significa spodestare ciò che ostruisce la via. È lo specchio/corpo che attraversa l’ordinario dell’immagine e la restituisce al qualitativo che la nega.
È un’interrogazione dell’esclusione e delle classificazioni infantili della storiografia fotografica… afferma l’incertezza sulla ragione certa, è una costruzione di situazioni esistenziali dove si mostra che il vero è dappertutto e in nessun luogo. Si tratta di “guardare il mondo con gli occhi spalancati” (Edith Stein) e seguire il cammino inverso della società consumerista.
La fotografia differenzialista non è un metodo, se si intende per questa parola l’attitudine di un pensiero artistico/politico staccato dalla ricerca della “cosa” trattata… non è nemmeno un sistema di sicura presa del reale… è un modo di vivere l’arte, non di santificarla, ma di “essere” differentemente. La fotografia differenzialista o dell’esistenza della Woodman è segnata dal marchio dell’esclusione e non è di facile classificazione (va da se poi se la caparbietà dei genitori, artisti di un certo spessore internazionale, l’hanno resa famosa e ben pagata dopo la sua morte)… l’originalità deviante delle sue fotografie, spesso provocatorie, sborda in una poetica del vissuto che si trascolora in istanti magici di vita vera… ciò che evoca sembra preparare il principio e la fine di una vivenza che emerge da un’estetica dell’umano. È l’amore di sé e per gli altri che guida le utopie, moltiplica i conflitti umani e spezza i destini. Un’annotazione necessaria. Francesca Woodman nasce a Denver il 3 aprile 1958, si butta da un palazzo a New York il 19 gennaio 1981. Cresce in una famiglia di artisti. Il padre (George) è pittore, la madre (Betty), una nota ceramista. Trascorre diversi anni in Toscana, presso Firenze, prende lezioni di pianoforte. A poco più di 13 anni inizia a fotografare se stessa. Tra il 1975 e il 1979 frequenta la Rhode Island School of Design (RISD) a Providence (collegio privato, considerato il numero uno di belle arti negli Stati Uniti) e studia i lavori di Man Ray, Duane Michals e Arthur Fellig (Weegee), grande fotografo di cronaca nera. Torna di nuovo in Italia per frequentare i corsi europei del RISD… è affascinata dalla filosofia artistica (pittura, scultura, disegni) di Max
Klinger… conosce gli artisti della Transavanguardia. Nel gennaio 1981 pubblica il suo primo libro (in vita), Some Disordered Interior Geometries (Alcune disordinate geometrie interiori) (63), nello stesso anno si getta da un palazzo di New York, aveva solo di 22 anni, ma le sue fotografie restano a testimonianza della sua bellezza autoriale ai bordi dell’inautentico.

(63) Some Disordered Interior Geometries è composto da 16 fotografie incollate su un vecchio libro, “Esercizi graduati di geometria”, stampato in Roma, in 500 copie… il pamphlet fotografico di Francesca Woodman si può acquistare, usato, per $ 19, 995.00 e per i collezionisti a $ 18, 350.00… la digestione definitiva di un artista di pregio o maledetto da parte del “corpo sociale” è compiuta!

La fotografia differenzialista della Woodman mostra che quando si persegue l’immagine dell’autovisione e si penetra nel senso profondo dell’esistenza, si è inadatti ai fanatismi delle certezze e ai calcoli egoisti che infestano le vetrine dell’entusiasmo… la mediocrità uccide più delle guerre e niente eguaglia le prodezze dell’arte fotografica quando l’autore diventa signore di sé e nell’accezione etica/estetica della propria indignazione insegna a superare il cinismo dei secoli… fuori da un’estetica di merletto o della letargia sepolcrale dell’arte dove impera l’imbecillità, la fotografia che sogna fa dello spavento l’illuminazione del proprio genio.

 

Sulla fotografia dell’esistenza

Le fotografie, quando sono grandi, sono più lievi delle ali degli angeli, diceva… non contengono miracoli né precetti, irritano per la loro dolcezza infinita e minacciano d’intollerabile tutto ciò che si smercia come santità… sì, in verità, in verità vi dico che amo solo l’irrompere della differenza e lo sprofondare delle cose nell’amore che le suscita o nel fuoco che le divora… abolire la fotografia mercantile, le sue aspirazioni e i suoi paradisi (che hanno avvelenato i nostri sogni di libertà e giustizia in fotografa e dappertutto) non è un male, è una necessità… la si deve estirpare la fotografia, insieme al suo bisogno di piacere a tutti… con la sua sete di successo e aberrazioni culturali… lo spirito di derisione e il dissidio libertario ci basteranno. Le indiscipline della stupidità (anche fotografica), cadranno da sé.
La fotografia dell’esistenza della Woodman si dispiega nelle tematiche dello spaesamento, inteso non come esercizio di stile, bensì come rapporto della coscienza col suo proprio contenuto… la figurazione che mette in atto rivela una morale del sentire, senza commettere l’errore di definirla. La fotografia, fatta in tal modo, acquista una dimensione fondativa della vita, diventa autobiografia e demolisce “l’antica identità di essere e pensiero e con essa l’idea di armonia prestabilita tra uomo e mondo” (Hannah Arendt) (64). 

(64) Hannah Arendt, Che cos’è la filosofia dell’esistenza, Jaca Book, 1998

È una sorta di liberazione dalle false concezioni che della fotografia, autori, anche i più storicizzati, hanno elaborato… è una forma precisa del fotografare che si riconcilia con la vita umana che è stata offesa e negata. Niente è degno di essere fotografato se non è anticipato dall’intuizione o dall’impudenza del sentire.
Gli autoritratti della Woodman esprimono una concezione del corpo come lamento o imprecazione contro un casellario sociale incapace di accogliere l’anomalia, la singolarità, la diversità, appunto… il corpo della fotografa diviene incrocio di differenze dove la surrealtà si risolve in ricchezza dello scambio simbolico… è una sfida che si oppone a qualcosa o a qualcuno, una sorta di potlatch suntuario che si trasforma in valore etico. 

Il corpo autofotografato della Woodman insorge nella liberazione di sé contro la repressione dell’ebetudine generalizzata e, più di ogni cosa, è una sorta di resurrezione dell’anima che si fa mondo. “Ora, le cose sono in sé finché il corpo le ignora e, ignorandole, rispetto a quelle cose, si ignora. Quando se ne occupa, le cose nascono già con un volto familiare o ostile, perché caricate dell’intenzionalità corporea; non si costituiscono come oggetti, ma introducono un’atmosfera dove è dato incontrare il sacro e il profano, il totem e il tabù, il tangibile e l’intangibile, il nominabile e l’innominabile” (Umberto Galimberti) (65). 

(65) Umberto Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, 2009

Il corpo della fotografa dunque, figura una bipolarità esistenziale che è in stretto legame con la realtà e la verità di un modello sociale che rifiuta (dal quale non è accettata) e ne riflette l’aridità.
Ad andare in profondità dell’iconografia della Woddman vediamo che il suo corpo ignudo non lascia spazio a fraintendimenti… è accostato a pareti sporche, frammentato in stanze vuote, mosso, sfocato, contaminato da luci e ombre, affogato in acque scure, sovrapposto a mani amiche… anche l’erotismo  è abbandonato a ironie, per nulla scabrose, ma alla valenza di derivazione cinematografica (sperimentale) dove il corpo della fotografa si fantasma nella situazione creata e, quel che più conta, mostra un’alterità soggettiva che aderisce al pensiero rintanato nell’intimità della coscienza, in forma di bellezza.
Gli autoritratti in bianco e nero della fotografa statunitense si leggono come slanci di amare e di essere amati… legati a un bisogno inafferrabile di verità, al dispendio di tenerezza che supera la sua propria difficoltà a vivere. La Woodman danza, si specchia, si cela in un’innocenza estremizzata e le sue fotografie diventano canti di un’infanzia mai terminata… sono messaggi (spesso inascoltati) che s’involano verso una felicità possibile che non impone nulla, solo la propria purezza amorosa. Anche nei filmati che fa di se stessa (e del suo ragazzo), la vita che affronta diventa ciò che è e lei vi precipita dentro, come una falena che brucia alla fiamma di una candela. Il fuoco del desiderio di vivere o morire in margine dell’esistenza autentica, è complice delle nostre azioni. Non può essere ingannato. Le sue fotografie parlano di sé e nel contempo fanno riflettere sulla cecità della realtà senza sorrisi. Il corpo autofografato della Woodman è sfrontato, mai impudico… le posture, gli atteggiamenti, i gesti rimandano certo alla disperazione dell’incompiuto, tuttavia “non c’è mai disperazione senza un po’ di speranza” (Pier Paolo Pasolini, diceva). La ragazza si riflette nella fotocamera con la forza di esistere e nella messa in scena di sé raccorda l’inedia del codificato con l’uscita da un apostolato dell’ingiustizia o dell’indifferenza. Va detto. “Una buona morte (scelta) è meglio di una (cattiva) vita subita” (Michel Onfray) (66). 

(66) Michel Onfray, La potenza di esistere. Manifesto edonista, Ponte alle grazie, 2009

Nella scrittura fotografica della Woodman c’è una costruzione dell’identità edonista che non è una confessione del corpo, ma l’autobiografia di una sofferenza che racconta il dolore del mondo che la contiene. La sua fotografia non si riassume solo nel mostrare le opere di un percorso accidentale, ma si avvolge nella pratica dei comportamenti che la disseminano nel teatro aperto della paura dominante.
Il biancore dell’innocenza, il nero del mistero, lo spogliamento del corpo nelle sue immagini non ricercano l’effetto o l’originalità dell’artista incompreso, ma il romanzo autobiografico che l’accompagna… la tragicità del reale fa da controcampo all’eloquenza del salvifico e fuori dalla menzogna dell’eroe, del santo o del martire, si accorpa all’epifania dell’apparizione, dell’evento creativo (che spezza la dialettica seriale della fotografia) dove l’esistenza precede l’assenza di futuro. L’immaginale fotografico della Woodman riporta alla grande ragione del corpo auspicata da Nietzsche, cioè a una configurazione opposta all’estetismo contemporaneo che alberga nei fasti del mercimonio d’occasione e nella sua autofotografia implica il materialismo Dionisiaco di una soggettività libertaria quasi mai rappresentata o disconosciuta nella storia della fotografia.
La Woodman sa che ogni istante fotografato contribuisce al suo divenire… aiuta a comprendere meglio da dove viene il suo corpo fotografato, cioè che  cosa esso è, dove va. La relazione di prossimità con la sovranità dell’inconfessabile che viene alla luce nel suo fare-fotografia invita al viaggio, nella buona e nella cattiva sorte, verso un’elezione del corpo come realizzazione epica del desiderio di vita… è un’etica della dolcezza dispersa negli anfratti di un tempo delle catene nel quale si manifesta. La passione del dolore non recita né commedie né preghiere dell’esistente e il corpo agnostico, senza Dio né padroni, resta il solo bene di cui disponiamo per esprimere l’amore di sé verso gli altri. Ogni fotografia implica la mancanza d’amore o il suo contrario che la precede.
La fotografia della Woodman non si riduce alla confessione di un corpo né alla seduzione di una persona che si offre nuda al dolore… è un’interazione tra il sangue dei giorni che dice — io sono questo — e il quotidiano che la contiene. Il corpo comunica questa differenza, la fotografia la mostra. Non c’è bisogno di credere a una verità per sostenerla, né di amare un’epoca di delirio per giustificarla… dato che ogni verità come ogni gioia bastano a se stesse e tutti i grandi poeti della vita autentica (anche i più maledetti), si danno convegno
nella vita sognata degli angeli.

Altri articoli di questo autore

Condividi

No comment yet, add your voice below!


Add a Comment

Vuoi accedere agli eventi riservati?

Abbonati a soli 15€ per 365 giorni e ottieni più di ciò che immagini!

Se invece sei già iscritto ed hai la password, accedi da qui

Dimmi chi sei e ti dirò che workshop fa per te

Non è facile trovare un buon educatore!
Appartengo ad una generazione che ha dovuto adattarsi alla scarsa offerta dei tempi. Ho avuto un solo tutor, a cui ancora oggi devo molto. Brevi, fugaci ma intensi incontri in cui il sottoscritto, da solo con lui, cercava di prendere nota anche dei respiri e trarre insegnamento da ogni singola parola.
A causa di questa carenza io e i miei coetanei ci siamo dovuti spesso costruire una visione complementare come autori, designers, critici ed insegnanti e questo ci ha aiutato a costruire qualcosa di fondamentale e duraturo.
Per questo motivo con Cine Sud che vanta un’esperienza di oltre 40 anni nel settore della formazione, abbiamo pensato alla possibilità di offrire dei corsi “one to one”, costruiti sulla base delle esigenze individuali e in campi disparati, che vanno dalla tecnica alla ricerca di nuovi linguaggi in fotografia.
Dei corsi molto vicini a quelli che avremmo voluto avere nel passato, se ce ne fosse stata offerta l’opportunità e la parola opportunità non va sottovalutata, perché ha un peso e una sua valenza e non è spesso scontata.
Ognuno sarà libero di scegliere, sulla base dei nostri consigli, un autore o un tecnico, tra quelli offerti come docenti, e intraprendere un corso che gli offra quello di cui realmente ha bisogno e, eventualmente, ripetere questa esperienza in futuro.
Come quando si va da un eccellente sarto a scegliere con cura un vestito, adattandolo perfettamente al corpo, vogliamo fornirvi il corso che meglio si adatta alle vostre, singole e personali esigenze.
Niente nasce dal caso e per poter essere all’altezza di questo compito e potervi fornire un’offerta diversificata e soddisfacente, abbiamo pensato di sottoporvi un questionario tra il serio e lo scherzoso a cui vi preghiamo di rispondere.
Aiutateci a capire le vostre reali esigenze e chi abbiamo difronte, non ve ne pentirete.
Massimo Mastrorillo

Dimmi chi sei e ti dirò che workshop fa per te

Approfondiamo ! per i più intrepidi
X