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MALEDETTO TOSCANI. Sulla filosofia di un fotografo sovversivo (Parte I)

di Pino Bertelli

Toscani ha posto il problema dell’artista maledetto… del creatore sovversivo… tranciando le estetiche del consenso attraverso un’azione artistica elaborata nel “luogo del delitto”… nel cuore dello spettacolo

 

La fotografia è una puttana che non sorride (Estratto cap. II)*

“Sono italiano, quindi figlio di puttana. A scuola mi hanno insegnato
che la patria è come la mamma e si deve rispettare… la mia patria non è certo
i confini di questa Italia che non riconosco. In questo appiattimento televisivo
che ci vuole tutti consumatori perfetti e soddisfatti io, mostro, chiamo a raccolta
tutti gli altri mostri, tutti quelli che non hanno mai avuto un doppiopetto blu
e una cravatta; faccio appello ai cattivi di questa terra perché si diano da fare
per smascherare i buoni, prima che ci annientino senza che ce ne accorgiamo con la loro bontà”.

Oliviero Toscani

 

“Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio, il cuore”.

Henri Cartier-Bresson

“…io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato,
privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri…
Io reclamo il diritto di dire anche che i poveri possono e debbono combattere i ricchi…
…l’obbedienza non è più una virtù”.

Don Lorenzo Milani, priore di Barbiana

 

Ouverture. Sarebbe stato meglio per la fotografia che Oliviero Toscani non fosse mai esistito… ecco cosa scriveva Asger Jorn di Guy Debord[1] e di altri poeti dell’eresia come Godwin, Shelley, Coleridge, Wordsworth, William Blake, Proudhon, Courbet… e che potremmo allargare (con l’insolenza che ci è a propria) a Edward S. Curtis, Lewis Hine, Lewis Carroll, J. E. Bellocq, Henri Cartier-Bresson, Roman Vishniac, William E. Smith, Tina Modotti, Diane Arbus, Sally Mann (e Robert Mapplethorpe, Gian Paolo Barbieri o Oliviero Toscani)… l’affabulazione creativa di questa bandiglia di fuoriusciti dal pensiero dominante (su poetiche differenti dello strumento fotografico), è accompagnata da una passione ereticale in grado di sovvertire le regole imposte della società dominante… nella fotografia e dappertutto si applaude la forma ma tutti sono spaventati dal contenuto, specie quando si coniuga alla forma… quando i fotografi, come i politici, cominciano a parlare di principi, morali, valori, i popoli cominciano a perdere i propri diritti… al di là della bellezza c’è il sale la verità e l’innocenza del divenire.

L’artista maledetto attraversa la società dello spettacolo nella dismisura della propria poetica e  disvela lo spettacolo (quando non lo incensa e ne diviene appendice conclamata al culmine della mercatale), perché sa che lo “spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediato dalle immagini” (Guy Debord)[2]. In questo senso, il dissidio che mette in campo inverte il reale dal quale parte e annuncia i franamenti dell’apparenza, della simulazione, dell’alienazione del proprio tempo. Di per sé la fotografia così fatta, in quanto pensiero separato o inviso al potere, si pone in grado di distinguere il vero dal falso e denunciare la merce come ricostruzione materiale dell’illusione religiosa… lo spettacolo è il brutto sogno della società moderna incatenata, diceva… e la merce il custode di questo sonno della ragione. I fotografi maledetti, come Toscani, esprimono il valore d’uso dell’immagine più abusata e formulano il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso nel suo rovesciamento… il détournement (deviazione, dirottamento, sottrazione, malversazione, o meglio, riorientamento di elementi estetici precostituiti e riattualizzati su altri fronti espressivi superiori) che ne consegue, è una sorta di cartografia dell’esistenza tutt’ancora da inventare o da sopprimere… la storia della fotografia non deve ridire ciò che un fotografo dice, ma dire (alla maniera di quanto scrive Deleuze della filosofia) ciò che egli sottintendeva necessariamente, ciò che non diceva e che però è presente in quello che dice”[3]. Configurare cioè il fatto fotografico fuori dalle preclusioni del mercantile e fare del mercantile la tomba di ogni totemismo dell’immaginario istituzionalizzato.

L’etichetta di “maledetto” sovente è una valorizzazione diffusa del giornalismo d’accatto… basta farsi maledire per essere sulla cresta dell’onda… è piuttosto facile apparire in televisione o sui giornali… poiché qualsiasi sproloquio provoca consenso o disdegno… ma in questo modo il concetto di “maledetto” si è alterato… minimizzato e buttato fuori dalla asperità del genio in rivolte che il principio di “maledetto” contiene…  e, come sappiamo dalla storia (non solo dell’arte), il genio comincia sempre col dolore ed è sempre in anticipo sul suo tempo. Gli innovatori sono sempre stati compresi almeno una generazione dopo… dobbiamo dedurne che la valorizzazione e la maledizione sono decisamente simultanee… l’etica del “maledetto” si riconosce dell’epica del bandito…  i colpi di genio, che lo si voglia o no, lo si ammetta o no, lo si denigri o no, cambiano al fondo l’ordine delle cose… e a partire da questi momenti di rottura o incrinatura del discorso imperante, le condizioni di produzione/ricezione dell’immagine cambiano completamente per tutti. Si potrebbe dire che tale mutazione morfologica dell’immagine produce anche le diversità  sociali che accompagnano il suo romanzo… ogni azione che non si comprende a fondo o si mitizza malamente o si maledice giustamente… i furbi collocano il “maledetto” nella santificazione o nel delirio… Toscani non credo sia mai stato infastidito da certe acclamazioni o banalizzazioni del suo fare-fotografia, anzi penso che le abbia trovate spesso divertenti… non ci sono “geni misconosciuti”… la realtà è uno specchio e coloro che non vogliono farsi manipolare fino in fondo, si chiamano fuori dai pretesti formali della commedia umana.

La grande lezione di Toscani sin dal principio è stata la franchezza contro le truccherie della comunicazione e contro ciò che meritava di essere maledetto… la forma pubblicitaria è stato un linguaggio come un altro per infrangere le ipocrisie di tutto quanto era ed è spettacolo soltanto… a partire della grande cartellonistica e inondazioni progettuali (riviste, giornali, libri, televisione) Toscani ha posto il problema dell’artista maledetto… del creatore sovversivo… tranciando le estetiche del consenso attraverso un’azione artistica elaborata nel “luogo del delitto”… nel cuore dello spettacolo… il suo portolano d’immagini, riuscite o meno,  sono portatrici  di significati, di contenuti, di abrasioni che avvertono di un certo disagio… non si è mai a proprio agio di fronte alle opere di Toscani (come a quelle di Debord)… e quel che è peggio, è fatto apposta. Toscani non è mai truculento o accattivante, semmai è sottile, ironico, cinico… è difficile coglierlo in flagrante piattezza figurativa, quanto molti fotografi dell’agenzia Magnum, specie quelli che si ergono nel più cialtrone e svuotato dei cieli, quello dei calendari Lavazza o Pirelli. Va detto. Sono i padroni dell’immaginario che fanno le regole del mercato e i bisogni sono mangime per le istituzioni. Il fatto è che “Le istituzioni sono la garanzia del governo di un popolo libero contro la corruzione dei costumi e la garanzia del popolo e del cittadino contro la corruzione del governo” (Louis Saint-Just, da qualche parte), ma quando le istituzioni sono marce vanno abbattute.

Ritorniamo al paradosso del banditismo culturale di Toscani… la persona eccezionale (fuori dai  canoni comuni) trasforma le regole… non fa mai parte completamente del gioco delle parti… né di fazioni politiche né di quelle culturali… la forza della diversità contrasta il potere che trasforma gli uomini in cose… respinge la rassegnazione, si fa ponte per costruire mondi più umani… il potere impone relazioni quotidiane tra le persone, genera violenza, sopraffazione, disuguaglianze… ma nulla può quando la libertà, la verità e la bellezza lo denudano di fronte alla dolcezza che va al cuore degli ultimi, degli esclusi, degli oppressi… il richiamo all’uomo in rivolta, che è fra tutti i conflitti che contrappongono gruppi umani, il più fondato, il più serio, se non addirittura l’unico… “la rivolta non nasce solamente e necessariamente nell’oppresso, ma può nascere anche dallo spettacolo dell’oppressione. Esiste in questo caso un’identificazione con l’altro individuo. Non si tratta di un’identificazione psicologica, sotterfugio per mezzo del quale l’individuo sentirebbe nella sua immaginazione che è a lui che s’indirizza l’offesa (perché, al contrario, si arriva a non sopportare di veder infliggere ad altri delle offese che noi stessi abbiamo subito senza rivolta). Esiste solamente un’identificazione di destini e un prender partito. L’individuo, dunque, non è in se stesso quel valore che vuole difendere. Occorrono tutti gli uomini per costituirlo. È nella rivolta che l’uomo si supera nell’altro, e, da questo punto di vista, la solidarietà umana è metafisica. Nell’esperienza assurda, la tragedia è individuale. A partire dal movimento di rivolta, essa ha coscienza d’esser collettiva” (Albert Camus)[4]. L’uomo in rivolta è innanzitutto un uomo che sa quando dire sì e quando no! è l’uomo che custodisce il passato e si richiama al divenire… afferma che in lui c’è qualcosa di cui vale la pena prendersi cura e resta irriducibile alla difesa, fino a morirne, della libertà individuale e del maggior numero…. è l’uomo che trasforma la speranza in realtà. La vita senza utopia è la tomba di un uomo come di un popolo… dinanzi alla sfilata lugubre degli imperi dello spettacolo finanziario, politico, dottrinario, burocratico, non ci resta che fomentare — fra  il ghigno e il risentimento — attentati contro la scuola dei tiranni.

In principio è stata l’icona, il segno, il graffito… poi la parola a rendere gli uomini mansueti o ribelli, fedeli o agnostici, tenutari di case chiuse o lampadieri di lucciole in amore e della libertà autentica a Maggio… allo sguardo del fotografo che accarezza e raccoglie (o incrina) l’accadere che ha di fronte, succede il collare di ferro del mercimonio o il guinzaglio del successo che pochi conoscono e ancora meno sono riusciti a spezzare… Oliviero Toscani è uno di questi cavalieri dell’eresia che fecero l’impresa. Nel suo fare-fotografia una mutazione si annuncia. La creatività fotografica che butta addosso alla civiltà dello spettacolo è una sorta di specchio nel quale si riflette una psicologia generalizzata da grandi magazzini… dove il cattivo edonismo è il prodotto di una economia/politica in declino, la soggezione all’ordine costituito è il risultato di una caduta esistenziale. Toscani sa bene che “lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere all’epoca della gestione totalitaria delle condizioni di esistenza” (Guy Debord)[5], e attraverso il valore d’uso della sua opera infrange le cinte daziare della comunicazione imposta. Ancora. Il fotografo milanese si chiama fuori da tutte le conventicole della fotografia incensata e, a modo suo, mostra che “dove la merce ha seminato la libertà non spunta più che la sua tirannia” (Raoul Vaneigem)[6]. Il suo immaginario fotografico, libertario, esprime un’etica del sentire che insegna a “guardare il mondo con occhi spalancati” (Edith Stein), le sue immagini attraversano il mondo e disvelano o strappano l’abitudine al disagio… figurano una lingua franca della comunicazione/filosofia contemporanea che contrappone la generosità alla bassezza, il coraggio alla viltà, l’impudenza all’alterigia, l’audacia dell’impudore al pudore ipocrita dei valori e delle morali costituiti.

Nel disordine delle idee, Toscani riporta l’ordine del cuore e dentro la pratica di una fenomenologia dell’inattuale rovesciato, insegna a decostruire l’ordine del discorso fotografico imperante e costruire la felicità possibile nel rovesciamento di prospettiva di un mondo rovesciato che non va aiutato a sopravvivere ma aiutato a crollare. Etty Hillesum, prima di passare per i forni crematori di Auschwitz, appuntava sul suo diario: “Anche oggi il mio cuore è morto più volte, ma ogni volta ha ripreso a vivere. Io dico addio di minuto in minuto e mi libero da ogni esteriorità. Recido le funi che mi tengono ancora legata, imbarco tutto quel che mi serve per intraprendere il viaggio. Ora sono seduta sulla sponda di un canale silenzioso, le gambe penzolanti dal muro di pietra, e mi chiedo se il mio cuore non diventerà così sfinito e consunto da non poter più volare liberamente come un uccello”[7]. Ecco, la fotografia di Toscani è come un volo d’uccello che s’innalza ai quattro venti della terra (o nelle strade del mondo) e libera il piacere di esistere fuori dalle devastazioni culturali, politiche, religiose sulle quali regna la disumanità dominante.

È lo stile di un’infanzia interminabile quello che Toscani affabula nel suo fare-fotografia… nelle sue immagini, anche quelle più criticate o censurate (o celebrate) fiorisce la bellezza di tutto ciò che è giusto e la poesia a venire che si fa storia… la felicità, come la libertà, non si concede, ci si prende. “Non c’è dubbio che oggi è soprattutto di questo che avremmo bisogno: di un po’ di luce sopra la nostra frammentaria esperienza morale, ma anche di un po’ di voce articolata o di ragione da dare alla meraviglia, allo sgomento e alla pietà” (Roberta De Monticelli)[8]. Tutto vero. I servi contenti, come i fotografi del mondano, non sembrano capire che il bisogno più importante e più disconosciuto è quello dell’anima bella o dell’angelo necessario che si oppone alla dissipazione della bellezza, tanto del passato quanto del futuro. “La perdita del passato – ci ricorda Simone Weil –, collettivo o individuale, è la grande tragedia umana, e noi abbiamo gettato via il nostro come un bambino strappa una rosa”[9]. L’immaginario fotografico di Toscani, appunto, riprende un passato disconosciuto e lo dissemina in un futuro dell’accoglienza, rispetto, condivisione… contrasta il brutto e l’osceno nell’elevazione delle forme, nella sapienza delle luci, nel coraggio di fotografare l’indicibile… non alimenta il marketing internazionale della moda, ma lo denuda e restituisce le sue spoglie all’autodistruzione della coscienza personale e collettiva.

La fotografia di Toscani architetta una filosofia del risveglio, una catenaria del dolore o dell’amore che, incidentalmente, è anche grande espressione comunicativa e al di là dalla campagna pubblicitaria (ma non solo) dalla quale parte, passa dal disagio sociale alla disobbedienza civile. Ci ricorda che morale, giustizia, politica, religione si rinnovano a partire dalla coscienza verso la bellezza, vista come fondamento di valori e giustizia sui quali si poggia. La conquista di una società libera è giusta sbaraglia tutte le banalità del male e rivendica lo spirito pubblico di una pubblica felicità. “Noi siamo liberi di cambiare il mondo e di introdurvi il nuovo. Senza questa libertà mentale di riconoscere o negare l’esistenza, di dire sì o no, non ci sarebbe alcuna possibilità di azione; e l’azione è, evidentemente, la sostanza stessa di cui è fatta la vita politica (Hannah Arendt)[10] e sociale. La cultura non è pane ma lo difende o lo toglie dalla bocca degli esclusi dal gioco delle parti. Il turbamento della legalità imposta, fuoriesce dall’azione culturale libera, innovativa del fare-fotografia di Toscani e alla pratica dell’ingiustizia risponde con la violazione dell’ordine costituito (non solo dei mercati), sa che l’arte fine a se stessa è il marchio di cui si servono i codardi e gli artisti falliti. La sola obbligazione che incombe ad un artista è di fare sempre quello che crede sia bene, bello e giusto, e tutto ciò che fa non può mai essere genuflesso a nessun potere.

La radicalità visuale di Toscani ha pochi eguali nel gazebo culturale di questo Paese (e oltre)… in questa landa di abusi e soprusi impuniti, le immagini storiche di Toscani contengono il giusto e l’onesto a molti fotografi sconosciuto… al fondo di quel fare-fotografia c’è lo splendore del vero, del nobile, dell’autentico, che sono poi aspetti importanti della giustizia. Toscani combatte l’osceno, la bruttezza, la volgarità attraverso le sue fotografie (interviste, articoli, saggi, incursioni televisive) e ovunque dice che l’idiozia, la violenza e la domesticazione sociale sono parte della vita totalmente svalorizzata. Insegna, in qualche modo, a fare buon uso del mezzo fotografico a fianco della sofferenza, dell’indignazione, della diversità… denuda l’irresponsabilità e l’impotenza della politica di fronte ai calcoli gelidi della finanza e fa dell’eccellenza estetica/etica il principio libertario della sua poetica.

La perfezione, in ogni opera d’arte, è il lavatoio dove tutti i talenti mancati si danno convegno… l’imperfezione il terreno della resistenza e dell’insubordinazione dove il temperamento dei poeti maledetti si forgia e rompe i vertici artistici dell’infamia. Non riesco ad immaginare la Fotografia senza il romanzo autobiografico che l’accompagna.

La prima immagine che Oliviero Toscani ha visto, credo, era una fotografia di suo padre, Fedele Toscani. Forse l’angelo nuovo che gli è venuto in sogno, forse il sorriso aperto di Don Lorenzo Milani o la visione libertaria, desacralizzata, impudica di Pier Paolo Pasolini lo hanno accordato a quel possibile magico che fa di un uomo un maestro ed ha compreso presto che un artista non si definisce tanto per la sua libertà di coscienza, quanto per la capacità di rifiutare la propria arte ad essere incatenata alle inferriate dell’obbedienza. La fotografia gli è apparsa lì, pura e indimenticabile, e nel contempo il ragazzo dagli occhi volanti deve avere avvertito che di qui all’eternità la fotografia è una puttana che non sorride.

Il ’68 è stato un’eruzione libertaria generazionale che ha infranto l’ingiustizia che governava l’universo. Uno dei libri che hanno annunciato la rivoluzione della gioia nel ’68 in Italia, Lettere a una professoressa[11], è opera di un prete un po’ burbero, un po’ diverso, un po’ sovversivo, don Lorenzo Milani (e dei ragazzi della scuola di Barbiana), esce nel maggio 1967 (don Milani muore per un linfoma a 44 anni nel giugno 1967), e da quella canonica sperduta nell’Appennino toscano, senza acqua, né corrente elettrica, né una strada per arrivarci (ci vivono nemmeno quaranta persone), il grido del parroco contro l’autoritarismo nella scuola è diretto, qualche volta feroce… è un testo scritto per i figli dei lavoratori, di fatto esclusi dall’università (che in massima parte accoglie i figli dei ricchi), e alla solerte professoressa fiorentina (non voleva i pidocchiosi in classe che non parlavano correttamente l’italiano, anche per la fame che avevano addosso) scrive: “Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia la lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro… Che siete colti ve lo dite da voi. Avete letto tutti gli stessi libri. Non c’è nessuno che vi chieda qualcosa di diverso… Solo i figlioli degli altri qualche volta paiono cretini. I nostri no. E neppure svogliati. O per lo meno sentiamo che sarà un momento, che gli passerà, che ci deve essere un rimedio. Allora è più onesto dire che tutti i ragazzi nascono eguali e se in seguito non lo sono più, è colpa nostra e dobbiamo rimediare… La lotta di classe quando la fanno i signori è signorile. Non scandalizza né i preti né i professori che leggono l’Espresso… Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come vuole amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola? Siamo sovrani. Non è più tempo delle elemosine, ma delle scelte. Contro i classisti che siete voi, contro la fame, l’analfabetismo, il razzismo, le guerre coloniali”[12]. Tutto vero. Don Milani tocca qui le tematiche del proprio tempo e lo fa con la forza della sfrontatezza o dell’utopia, e affermava: «Io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi»[13]. Si capisce perché il Sant’Uffizio ordina la censura del suo primo libro, Esperienze pastorali[14] e, successivamente, il prete di Barbiana viene più volte minacciato di sospensione adivinis… la seminagione dei suoi scritti tra i ragazzi del ’68 fu esplosiva, dilagante, atonale a quanto correva nella sinistra comunista e nei beghini democristiani… le parole di don Milani rinnegavano i titoli risolutivi della civiltà moderna e mostravano anche possibilità e disobbedienze contro tutto ciò che rappresentava l’assoluto della chiesa e dei partiti. Sotto ogni formula giace un’oppressione secolare e i politici, insieme alle gerarchie ecclesiastiche, sono gli assassini gentili di vittime predestinate.

Una delle letture più attente di Lettera a una professoressa è quella di Pier Paolo Pasolini, il libro lo impressiona, scrive che il «contenuto ideale violentissimo, addirittura, in certi momenti, meravigliosamente terroristico, dei ragazzi di Barbiana, si immerge però, prende forma, dentro uno schema, che è lo stesso schema della moralità contadina diventata piccolo-borghese della professoressa»… dice anche che si è trovato tra le mani uno dei più bei libri che abbia letto negli ultimi anni[15]. Pasolini aveva avvertito nella filosofia educatrice di don Milani quella fierezza delle sconvenienze che non s’impara a scuola ma nella strada… l’ostilità appassionata di una folgorazione del giusto, del buono, del bello che farà saltare in aria le illusioni degli dèi e le mediocrità delle caste istituzionali… i giovani irrequieti del ’68, e per un certo tempo, riusciranno a far provare la paura a chi l’aveva sempre inflitta e nella creatività dei loro eccessi, dismisure e sregolatezze, mostrare di che nullità erano fatti i partiti[16]. L’ostilità delle giovani generazioni verso coloro che sono ossessionati dal peggio incarnato dai politici… è frutto di una lucidità culturale e passionale che porta all’insubordinazione, e l’abdicazione – anche estrema – di qualsiasi tirannia, verrà sempre troppo tardi.

L’iconografia (tutta) di Toscani, se guardata fuori dalle categorie e classificazioni, desta meraviglie e interrogazioni… i contenuti oltrepassano i contenitori dai quali parte e si porta dietro il romanzo autobiografico dello stupore… ma è uno stupore che non stupisce affatto, anzi, rivela il mistero dello stupore… è il risultato di una cosmogonia sovversiva che attraverso la fotografia infonde un’idea del mondo. La storia delle democrazie spettacolari e dei regimi comunisti smentisce i loro princìpi… l’omologazione delle folle in atto, orchestra politiche, guerre e merci… l’accumulazione, il possesso, la discriminazione sono gli strumenti adeguati sulla passività generalizzata… i poveri non hanno diritto che alla loro miseria e alle speranze elettorali che li mantengono in questa miseria… solo una società partecipata da tutti i cittadini può rimuovere l’indegnità della politica, distruggere l’incompetenza e l’arroganza della ragione imposta e farle precipitare nella storia di un nuovo umanesimo.

Sulla fotografia sovversiva della bellezza. La perfezione dell’incompiutezza della fotografia di Oliviero Toscani, non infeuda menzogne né persevera nella volgarità o nell’apoteosi della necessità… rifiuta come accessorio il futile e l’entusiasmo degli stolti… libera la giovinezza sopra i tabernacoli dei potenti e si abbevera alla generosità della commedia umana… s’accosta a un’idea, spesso contro controcorrente, e la rende contagiosa… liquida le ossessioni dell’artista inafferrabile e sceglie la diversità contro l’indecenza… Toscani è un intruso nella fotografia che conta, sconfina nelle grammatiche del linguaggio definito e non teme sconfitte né adulazioni… è un incursore nella saga generale della fotografia come mito realizzato e decreta morte tutte le formule di salvezza e cristologie d’illuminazione… è fotografo nella presenza dei suoi atti, più corrosivo di un barattolo di acido solforico… sempre in lotta contro i dispotismi o le nullità del pensiero dominante e, più ancora, è un incendiario dell’immaginario! Un capitano Achab[17] sempre in cerca della balena bianca, del mostro da rigettare negli abissi… impugna la fotocamera come un arpione e imbarca nel Pequod della fotografia del disinganno, una ciurma di passatori di confine che alla dissolutezza dell’arte, preferiscono l’arte di gioire della vita.

Appena ventunenne (1963), Toscani sale sui monti del Mugello insieme al giornalista Giorgio Pecorini, per insegnare ai ragazzi di don Milani la macchina fotografica… su una parete della scuola c’è scritto grande, “I CARE”… è il motto intraducibile dei giovani americani migliori, dice il priore: “Me ne importa, mi sta a cuore. È il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”. Il pensiero disarmato di Don Milani ricongiunge le sue origini ebraiche con il cristianesimo[18], ma a noi importa poco… quello che conta è il valore pedagogico che il curato infonde ai suoi ragazzi, la forza emotiva con la quale opera uno spaesamento della mendicità professorale, della creazione raffazzonata di una vita senza amore di una società che ha costruito le cattedrali come i campi di sterminio e si è emancipata con gli orrori delle bombe. Come diceva uno sciamano cieco del deserto del Mali: “Quando un solo bambino piange per la fame, altre migliaia sono già morti perché qualcuno possa avere uno smartphone di ultima generazione e ascoltare la musica dei neri d’Africa. Misero quel popolo che ha bisogno di genocidi o di altre porcherie per parlare – solo parlare – di libertà e diritti dell’uomo.

Il priore di Barbiana aveva le idee chiare su molte cose… aveva compreso che l’intelligenza, una volta diventata sovrana, si erge contro tutti i condizionamenti della società istituita e non offre nessun appiglio o speranza ai bastonatori della storia: “Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto”, diceva[19]… è il viatico della conoscenza che soppianta tutte le attività sospette dei governi… un principio di elevatezza che si accompagna al tramonto delle belle glorie dei partiti e delle fedi che ammaestrano le genti alla sottomissione… giacché non è la politica che rende liberi, ma il desiderio di rivolta per la conquista di un mondo più giusto e più umano.

Toscani scatta alcune fotografie a Barbiana… fissa nella pellicola lo sguardo del prete che fa lezione all’aperto… si vede don Milani che pensa o legge il giornale, attorniato da ragazzi impegnati nello studio… le immagini esprimono un senso di serenità e di spiritualità, anche, ma non come predica della gerarchia cattolica, piuttosto come maestro di vita che lotta e invita a lottare per un divenire migliore. I ragazzi sono educati alla fatica della conoscenza e più di ogni cosa avviati a una ricerca della verità come congedo dal dolore di vivere… di più… nella scuola di Barbiana, l’idea-esperienza del bene comune non è una religione ma il suo contrario, un legame profondo tra la vita dello spirito e il raggiungimento della libertà: “Concepire il mondo nella luce dell’idea di creazione è concepirlo come continua genesi del nuovo” (Roberta De Monticelli)[20]. La scienza, l’arte, la filosofia, la letteratura, la politica… sono trattate da don Milani come forme di sviluppo della persona, sostengono e rimandano alla felicità personale e collettiva, che è autentica solo se condivisa. Ogni ragazzo è più del libro che ha nelle mani e la somma dei monologhi è nulla rispetto a un abbraccio, una carezza, un atto d’amore fra chi non ne ha mai ricevuti.

La scuola di Barbiana è una comunità inclusiva fondata sul dialogo… sulla disobbedienza civile, anche, che si prende cura del destino degli ultimi… se c’è tanta miseria nel mondo, vuol dire che ci sono dei responsabili di questa miseria e vanno smascherati o detronizzati… il male non è mai stato raffinato… va combattuto con il sapere, la conoscenza, la radicalità di persone aiutate a pensare… non è il voto o la delega che trasforma le cose, ma il gesto, l’azione, il disinganno che si fa desiderio, passione, eresia o fuoco di mutamento sociale… migliore è la conoscenza, migliore sarà la persona in cammino per la conquista di una vita sganciata da ogni forma di autoritarismo.

La fotografia non è una dottrina o una merce soltanto… ma un’attività culturale che filosofa col martello di Nietzsche[21] e opera nella “trasvalutazione” di tutti i valori, il rovesciamento degli “idoli” che impongono la storia del più forte. Il mondo vero diviene favola quando la favola impedisce di vedere la realtà… Hannah Arendt, Edith Stein, Simone Weil, Michel Foucault, Carl G. Jung, Martin Buber, Hans Jonas, Buenaventura Durruti… ci hanno fatto comprendere che una serie di colpi ben assestati contro gli archivi della mediocrità politica liberano i pregiudizi e con questi franano anche i simulacri… fuori dalle semplificazioni sommarie, don Milani insegnava che uno spirito rassegnato non può che insegnare la rassegnazione, uno spirito libero, la ricerca della verità. “La forza è ciò che trasforma in cosa chiunque le sia sottomesso. Quando viene esercitata fino in fondo, tramuta l’uomo in un cosa nel senso letterale del termine, perché ne fa un cadavere” (Simone Weil)[22]. I servi non hanno diritto di esprimere niente, tranne ciò che può compiacere il padrone ed è il capovolgimento di questa regola che don Milani ha lasciato in sorte a quanti vogliono spezzare i guinzagli (etici, estetici e morali) che li tengono a catena… i padroni tremano quanto gli schiavi davanti all’insurrezione dell’intelligenza e nessuno mai può fare violenza senza pensare che un giorno non sarà pagato con lo stesso sale.

Le fotografie di Toscani figurano l’agorà della scuola di Barbiana… don Milani osserva attentamente i cuccioli… i ragazzi sono chini sui quaderni, sui libri, discutono, leggono, scrivono… qualcuno guarda il fotografo in macchina, altri affondano la curiosità nelle pagine di chissà quale testo… l’impronta di Toscani è rigorosa, spuria dal reportage occasionale… c’è un’immagine (corale) importante… si vede don Milani che legge il giornale in fondo allo spiazzo bianco davanti alla scuola… al suo fianco alcuni allievi, dietro una piccola cattedra un po’ rotta, un altro ragazzo guarda nel giornale del priore… in primo piano, alla sinistra della fotografia alcuni ragazzi sono seduti sulle panche, parlano, prendono appunti, qualcuno (in piedi) si guarda intorno svagato… alla destra dell’immagine due ragazzi su una panchinetta sono immersi nello studio, uno si tiene la testa con una mano… l’insieme visuale ha la forza di un film western di John Ford o la filosofia libertaria dei ragazzi felici di Summerhill[23]… la composizione istintiva di Toscani è subito bruciante… mostra una realtà che supera e recupera la meraviglia del vero per definirla come presenza del giusto… è una fotografia del profondo, quella di Toscani, che non si rifugia nel tasso giornalistico né in forme raffinate della nostalgia… coglie alla radice l’agire di anime sensibili che nulla hanno a che vedere con i parametri consueti della scuola dell’ordine.

Il fine della fotografia qui non è la tirannia della ragione, ma la seminagione della libertà! Toscani privilegia l’insieme e all’interno dell’immagine architetta frammenti di verità… i neri i bianchi s’intrecciano a figure dell’innocenza e non includono l’oscuro, ma la luce del divenire… l’originalità è il principio di ogni fotografia, è il desiderio di fare dell’immagine una fonte di bellezza. Per conoscere la fotografia non basta conoscere la storia e una fotografia è importante quando comincia a splendere di verità e di bellezza non compromesse con i luoghi comuni… ogni fotografia che obbliga a prendere coscienza di una società dell’inganno e del dolore, è un atto rivoluzionario.

A ragione James Hillman scrive: “Sono fermamente convinto che se i cittadini si rendessero conto della loro fame di bellezza, ci sarebbe ribellione per le strade. Non è stata forse l’estetica ad abbattere il Muro di Berlino ed aprire la Cina? Non il consumismo e i gadget dell’Occidente, come ci viene raccontato, ma la musica, il colore, la moda, le scarpe, le stoffe, i film, il ballo, le parole delle canzoni, la forma delle automobili. La risposta estetica conduce all’azione politica, diventa azione politica, è azione politica”[24]. Tutto vero. È la bellezza che fa la politica, ecco perché è il brutto che domina il mondo. Il brutto è conseguente al successo che lo incensa come bello e nei governi, come nei musei, il regime del brutto s’accorda al lezzo del potere che lo smercia… la forza del potere è l’arte di modificare la realtà e mortificare la conoscenza… solo alcuni bombaroli del bello piazzano ovunque interrogazioni… non basta che una fotografia sia pericolosa, più importante è che il pensiero che l’ha affabulata sia sovversivo quanto basta per far crollare il mondo apparente.

Un giorno un Maestro di Bellezza incontrò un grande artista della fotografia e lo salutò con amorevolezza. “Io non so nulla della Bellezza, Maestro”, disse il fotografo. “Ma io vedo che tu conosci il segreto della fotografia”, rispose il Maestro. “So solo fare fotografie. Non so nulla, se non che morirò e non m’importa di essere consacrato da nessuno”, disse il fotografo. “Allora conosci il segreto della Bellezza”, disse il Maestro, sorridendo.

Ogni fotografia è condannata prima di nascere… non si comprende nulla della fotografia se non si ha il coraggio del fallimento o dell’eversione contro i vincitori o quelli che detestiamo:  “Cari ragazzi, ho voluto più bene a voi che a Dio, ma sono sicuro che non baderà a queste piccolezze”, il priore di Barbiana, diceva… e queste parole riverberano nell’intimità alchemica delle fotografie di Toscani… quei volti, quei gesti, quel modo di accogliere del precettore e dei ragazzi di Barbiana, travalicano il momento fotografico… Toscani non scippa niente all’evento, né rende eccezionale qualcosa o qualcuno che lo è già… il fotografo – ma è solo un esempio fatturale – s’accosta a quella fragilità e al contempo risolutezza infantile, in eguale misura di Pier Paolo Pasolini, quando errabondava nelle periferie di Roma e per mano a ragazzini scalzi nel fango cercava quella “straziante meravigliosa bellezza del creato”[25]. Il realismo nudo delle immagini di Toscani, raccontano una vivenza senza vergogna, un risveglio spirituale, culturale, ben più importante delle affermazioni politiche che cadono nel vuoto di sentenze sommarie… il giovane fotografo non lascia niente all’improvvisazione, semmai aderisce alla passionalità di una fotografia che è coscienza della coscienza… si tiene in disparte e mostra che non c’è storia autentica che non sia dell’anima liberata.

C’è una fotografia (che configura Toscani già come artista fuori dagli schemi e dai vezzi dell’elogio interessato) dove si vede il priore attorniato da quattro ragazzi che cammina in una strada sterrata con dietro un casolare… don Milani guarda in macchina, sicuro, bello, con il corpo e il passo del giusto… i ragazzi camminano ciascuno per proprio conto e se ne fregano della fotocamera… tre hanno gli ombrelli, l’altro, più grande, è accanto al padre… sembra di “toccare” l’atmosfera di alcune fotografie fatte proprio a Pasolini tra le baracche di Roma, quando cercava i luoghi dove girare Accattone. Il giovane fotografo interroga la storia di un prete inviso alle gerarchie della chiesa e raccoglie il romanzo della sua vita… in quell’immagine c’è un’evidente linea di confine che separa chi ha potere e chi non ne ha… ma c’è anche altro… la bellezza della dignità di una geografia umana che non vuole essere condannata all’invisibilità, alla paura, alla solitudine, al silenzio e si prende il diritto all’istruzione, alla bellezza e alla libertà… a fare della propria vita un’opera d’arte… che “cos’è l’arte – don Milani, – se non una mano tesa al nemico perché cambi”. Quando raggiungono il limite estremo della povertà gli esseri umani trovano il servaggio, oppure sfuggono ad ogni controllo istituzionale e cominciano a scavare alle fondamenta del Palazzo, per minarlo alle radici e farlo crollare.

Ci piace pensare anche che la fotografia di don Milani con i ragazzi seduti nei banchi disposti a cerchio nella scuola di Barbiana (un ragazzino più piccolo è al centro della stanza, accanto alla stufa) l’abbia scattata Toscani… ma questo importa poco… contiene la medesima bellezza creativa/sovversiva di molte immagini d’impianto sociale del fotografo milanese, come quelle, ad esempio, fatte nella metropolitana di New York (o davanti a Wall Street), i pretini che sorridono alla fotocamera nelle strade di Palermo, i bambini morenti per la carestia in Somalia[26] o il cieco con la fisarmonica in Oxford Street a Londra che risplende di dignità (1962)… qui, come altrove, Toscani mostra che l’atto creativo non è un elemento di fuga o di elusione dei problemi trattati, ma è una condizione mentale, culturale, politica che profana le speranze istituzionalizzate, banalizzate al rango di pretesti e in più, deterge le giustificazioni, le definizioni, gli inganni che contribuiscono a mantenere la magnificenza dei privilegiati sulla disperazione degli ultimi. La verità della fotografia (non solo di Toscani) vive nobilmente negli avvenimenti che la negano.

[Continua…]

[1] Pino Bertelli, Guy Debord. Anche il cinema è da distruggere. Sul cinema sovversivo di un filosofo dell’eresia e commentari sulla macchina/cinema, Mimesis, 2016.
[2] Guy Debord, La società dello spettacolo, Vallecchi, 1979.
[3] Gilles Deleuze, Istinti e istituzioni, a cura di Ubaldo Fadini e Katia Rossi, Mimesis, 2014.
[4] Albert Camus, Micromega. Almanacco di filosofia,  1/2017. Il testo di Camus, inedito in Italia, è stato pubblicato per la prima volta nel n. 42 de «La società degli individui», quadrimestrale di filosofia e teoria sociale, edito da Franco Angeli (6 febbraio 2012).
[5] Guy Debord, La società dello spettacolo, Vallecchi, 1979.
[6] Raoul Vaneigem, Noi che desideriamo senza fine, Bollati Boringhieri, 1999.
[7] Etty Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, 1998.
[8] Roberta De Monticelli, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Garzanti, 2003.
[9] Simone Weil, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, SE, 1990.
[10] Hannah Arendt, La disobbedienza civile e altri saggi, Giuffrè, 1985.
[11] Lorenzo Milani (e la scuola di Barbiana), Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, 1967.
[12] Don Lorenzo Milani (Scuola di Barbiana), Lettera a una professoressa, come Scuola di Barbiana, Libreria Editrice Fiorentina, 1967.
[13] Don Lorenzo Milani, L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del processo di Don Milani, Libreria Editrice Fiorentina, 1965.
[14] Don Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1957.
[15] Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, 1999.
[16]  Pino Bertelli, Guy Debord, l’Internazionale Situazionista e la rivoluzione della gioia nel ’68, Interno4, 2018
[17] Herman Melville, Moby Dick, BUR, 2015.
[18] Paolo Levrero, L’ebreo don Milani, il Nuovo Melangolo, 2013.
[19] Don Lorenzo Milani, L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del processo di don Milani, Libreria Editrice Fiorentina, 1996.
[20] Roberta De Monticelli, Sullo spirito e l’ideologia. Lettera ai cristiani, Baldini Castoldi Dalai Editore,  2007.
[21] Friedrich Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello, Adelphi, 1983.
[22] Simone Weil, Il libro del potere, Chiarelettere, 2016.
[23] Alexander S. Neill, I ragazzi felici di Summerhill, Red Edizioni, 1990.
[24] James Hillman, Politica e bellezza, Moretti & Vitali, 2002.
[25] Pier Paolo Pasolini, Che cosa sono le nuvole?, episodio di Capriccio all’italiana, 1968. Gli altri autori erano Mario Monicelli, Steno, Mauro Bolognini, Franco Rossi e Pino Zac.
[26] Oliviero Toscani, Più di 50 anni di magnifici fallimenti, Electa, 2015.

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