Nel 19551 Bertolt Brecht scrive “L’Abicì della Guerra”, un’opera fondamentale, innovativa e simbolica della costante ricerca della verità da parte dell’autore. A questo proposito cito un passo in cui elenca le cinque difficoltà nel raccontare la verità: “Oggigiorno, chiunque voglia combattere la menzogna e l’ignoranza e scrivere la verità, deve superare almeno cinque difficoltà. Deve avere il coraggio di scrivere la verità quando ovunque ci si oppone a essa, l’acume per riconoscerla, anche se ovunque la tendenza è di cercare di occultarla, l’abilità di utilizzarla come se fosse un’arma, l’abilità dell’arbitrio, per essere in grado di scegliere coloro nelle cui mani sarà efficace e l’astuzia per riuscire a diffonderla tra coloro i quali abbiamo scelto.”
Negli anni dell’esilio, il drammaturgo ritagliò e archiviò una considerevole quantità di fotografie di guerra (o che rimandavano alla guerra) convinto della loro drammaticità e riconoscendo alle stesse un potente valore evocativo e pedagogico. In calce alle immagini selezionate, aggiunse quartine che andavano oltre la mera funzione didascalica offrendo al lettore “un’apertura verso il futuro”. Le immagini suscitarono scalpore e vennero censurate. È stato un tentativo di far deragliare il valore puramente documentale della fotografia. Gli epigrammi conferivano all’immagine un nuovo significato, ridefinendone l’evidenza. L’opera diventava anche un messaggio per le generazioni future. Mostrava empatia per i deboli e ironia penetrante per coloro i quali abusavano del potere e dichiaravano guerre. Nel fotoepigramma 69 dedicato a Hitler scrisse: “Per poco costui dominava il mondo:/I popoli lo hanno fatto fuori. Ma intanto/non vorrei che voi celebraste il trionfo:/è ancora fecondo il grembo da cui è strusciato.” Un invito chiaro a non dimenticare e a non trascurare la natura maligna degli uomini.
Nel fotoepigramma 48 è ritratta una madre ebrea. La figura è una Madonna con Bambino, e insieme una Pietà. Lei lo sorregge, ma anche lo ostende. I loro sguardi divergono: quello di lei invoca appunto pietà, quello di lui è sereno, curioso, forse divertito. In calce alla foto, quattro versi: «E molti di noi affondarono nei pressi / delle coste, dopo lunga notte, alla prima aurora. / Verrebbero, dicevamo, se solo sapessero. / Che sapevano, noi non lo sapevamo ancora» A fianco, una didascalia dal ritaglio stampa: «Rifugiati senza rifugio. Questa madre ebrea e il suo bambino sono stati ripescati dal mare insieme con 180 altre persone, che cercavano rifugio in Palestina. Ma 200 sono annegate quando il Salvador si sfracellò contro le coste rocciose della Turchia (…). A parte l’odissea dei 500 ebrei su una nave che fu rimandata di porto in porto per quattro mesi. Vengono da tutte le parti d’Europa, ammassati come bestie su carrette incapaci di tenere il mare(…). Le navi da carico e per il bestiame portano un carico nuovo, una nuova specie di contrabbando umano. (…) Il bambino può giocare con il suo piede – si senta a casa sua in braccio alla madre. Non sa che suo padre è annegato nel mare di Marmara. Solo la madre sa che la morte per annegamento in vista della costa è doppiamente atroce».
Come non pensare al dramma dell’immigrazione clandestina e a come si faccia presto a cancellare la memoria storica alla luce dei recenti avvenimenti del conflitto arabo-israeliano?
Brecht era molto attento a tutte le questioni riguardanti il problema del rapporto tra immagine e documentazione, tra fotografia e realtà, tra informazione e veicolazione di raffigurazioni fotografiche. Lo si evince chiaramente da questa sua citazione così attuale da risultare inquietante: “L’enorme sviluppo del reportage fotografico, nelle mani della borghesia può trasformarsi in una temibile arma contro la verità”.
In fondo, ben poco è cambiato da settanta anni a questa parte. È ancora evidente il pericolo che si corre quando le fotografie entrano nel meccanismo dei mass-media. Il libro di Bertolt Brecht è un’occasione per tornare a riflettere su temi estremamente importanti, per tornare a confrontarci con fotografie che pur appartenendo al passato, forse, ci parlano ancora del nostro presente e probabilmente del futuro. Non a caso due noti e talentuosi artisti, Adam Broomberg e Oliver Chanarin ne hanno tratto ispirazione per realizzare il libro War Primer 2 (2011), in cui, mantenendo l’impaginato originale de “L’Abicì della Guerra”, sostituiscono le immagini di Brecht con immagini di conflitti o sofferenza dei giorni nostri, accompagnate dagli epigrammi originali.
Infine, attratti dalle frequenti annotazioni del drammaturgo sulla sua Bibbia e ispirati dal testo Divine Violence di Adi Ophir, hanno prodotto il libro Holy Bible (2013), dove mettono in relazione immagini tratte dall’Archive of Modern Conflict, un archivio di più di otto milioni di immagini, con frasi del testo sacro da loro sottolineate per evidenziare la violenza del linguaggio usato. Due progetti provocatori, intensi, coraggiosi, in cui l’influenza del drammaturgo tedesco è chiara e in cui si evince l’importanza del saper leggere un‘immagine. “L’Abicì della Guerra”, infatti, non fa riferimento solo alla difficoltà nel raccontare la verità, ma anche all’arte del leggere le immagini. Perché, per chi non vi è abituato, farlo è difficile quanto leggere dei geroglifici. Forse è proprio questo il punto per fare buona fotografia e raccontare: imparare a leggere le immagini.
Fonte: Scatti del Pensiero – La fotografia come problema filosofico (cap. Messinscena della guerra nei fotoepigrammi di Bertolt Brecht di Carlo Fanelli)
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Massimo Mastrorillo
Ha lavorato a progetti a lungo termine concentrandosi sulle profonde conseguenze di conflitti e disastri naturali sulla società.
Ha ricevuto diversi premi, tra cui il World Press Photo, il Picture of the Year International (Magazine Photographer of the Year, terzo premio), il Best of Photojournalism (Magazine Photographer of the Year, terzo premio), il PDN Photo Annual, il Fnac Attenzione Talento Fotografico, l’International Photography Award, l’International Photographer of the Year al 5° Lucie Awards e il Sony World Photography Awards. E’ stato finalista all’Aftermath Grant 2011. Ha ricevuto la nomination per il Prix Pictet 2009 “Earth” e 2015 “Disorder”. Il suo progetto “Il Mare siamo Noi” è stato selezionato per il Vevey Images Grant 2015 e 2017.
E’ stato Leica Ambassador e Talent Manager dell’agenzia LUZ una delle più importanti agenzie fotografiche italiane.
Da anni è impegnato nella didattica con esperienza pluriennale presso la Scuola Romana di Fotografia, la Leica Akademie, la REA e la D.O.O.R. Akademy.
È uno dei membri e fondatori di D.O.O.R., una factory romana che si occupa di fotografia, talent scouting e publishing.
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