Nel 1978, a Dawson City, nello Yukon, i lavori di costruzione in un cantiere edile, portarono alla luce un tesoro del tutto inaspettato. Dawson City è stata al centro della leggendaria corsa all’oro nel Klondike. Situata sulle rive del fiume Yukon, era un tranquillo borgo prima dell’arrivo di migliaia di aspiranti cercatori: nel 1898 contava ben 40.000 abitanti e numerosi saloon dove succedeva di tutto. L’arrivo di tante persone favorì anche la criminalità, che il governo cercò di arginare inviando i Mounties, la polizia a cavallo canadese. Nel 1899, con l’esaurirsi dei giacimenti, la popolazione di Dawson City scese a 8.000 abitanti. Nel 2016, ne contava appena 1.375.
Il tesoro di cui parliamo non ha tuttavia a che fare con l’oro. All’interno di una piscina, sotto il vecchio centro ricreativo della città, vennero rinvenute centinaia di bobine di film muti. Nel 1929, quando la piscina era stata riempita e sostituita con una pista di hockey, i rulli erano stati utilizzati come tamponamento. Avevano chiaramente subito danni causati dall’acqua, ma non tali da rendere i film inguardabili. Il valore di questa scoperta sta nel fatto che più del 70% dei film muti prodotti era andato completamente perso negli anni e di fatto questi reperti rappresentavano un archivio di inestimabile valore (circa 500 pellicole).
Uno dei principali problemi che si presentò al momento del ritrovamento fu il supporto dei film. Erano per lo più pellicole con supporto in celluloide (nitrocellulosa), il primo utilizzato nel cinema, altamente infiammabile, che finiva col rendere difficile lo stoccaggio, il restauro e l’archiviazione.
Nel 2016 è uscito un documentario dal titolo “Dawson City: Frozen Time”, realizzato dal noto regista americano Bill Morrison, in cui partendo da questo ritrovamento, in circa due anni di lavoro, l’autore ricostruisce tutta la storia di Dawson City, dal periodo della corsa all’oro ad oggi, e di conseguenza anche quello delle pellicole rinvenute.
Il deterioramento delle bobine di film perdute ha finito con l’essere per Morrison il punto di ingresso in molte altre storie, interconnesse, sulla rapida ascesa e il successivo decadimento della città di Dawson City, sull’impatto devastante della corsa all’oro sullo Yukon e sulla storia antica del film stesso, segnata anche dal degrado spesso causato dai frequenti incendi in magazzini e teatri. Le bobine di film erano state gettate in una piscina in parte perché era troppo costoso rispedirle ai distributori, ma anche perché era pericoloso conservarle. Il fatto che così tanti film dell’inizio del 20° secolo siano stati distrutti in questo modo, semplicemente per essere stati buttati o per un incendio accidentale, per certi aspetti rende la storia del film di Dawson City ancora più improbabile e importante (e non sono pochi i colpi di scena nella sua lunga narrazione, basti pensare alla scoperta di alcuni antenati di Donald J. Trump tra i fondatori di una delle strutture più importanti della città o allo scandalo dei Black Sox, una degli eventi più cupi nella storia del baseball americano).
Quando Bill Morrison si avvicinò all’archivio in cui erano custodite le pellicole, scoprì che Il vero punto forte di questa collezione erano gli anni tra il 1917 e il 1920. Questa parte era in qualche modo il prisma attraverso cui vedere l’andamento dello sviluppo della città, mineraria e aziendale, troppo remota per tutti e tutto, un caso di studio per ciò che accade a un’autocrazia aziendale, quando sostanzialmente prende il controllo e distrugge una città. Non solo, attraverso l’analisi di più di un terzo dei titoli a disposizione e la loro collocazione storica, a cui corrispondevano anche i cambiamenti inevitabili della città e il successivo montaggio, Morrison è riuscito a costruire un racconto in cui viene inventato un parallelo tra l’espansione commerciale a Dawson City e l’invasione cinematografica in tutto il mondo, inclusa Dawson City. Una sorta di ritratto del ventesimo secolo in cui c’è sempre qualche elemento che rappresenta il passare dei decenni e l’inevitabile cambiamento del mezzo usato per documentarli.
Dalle fotografie su lastre di vetro alle pellicole al nitrato che vengono salvate su carta o su acetato; i primi film amatoriali in 16mm, i bei film in acetato girati negli anni ’50 e le riprese dei cinegiornali degli anni ’60; le fotografie degli anni ’70 e i video degli anni ’70.
Nella folle corsa all’oro, c’è stata anche una relazione particolare con il mondo di Hollywood. Diversi personaggi coinvolti nella ricerca, diventarono attori famosi e tra l’altro Jack London trovò proprio a Dawson City l’ispirazione per i suoi racconti. Hollywood era in qualche modo un’altra frontiera, un luogo in cui, se hai fortuna, puoi fare il grande colpo. Non c’è da stupirsi nel vedere che personalità folli, capaci di trasportare 2.000 libbre di merci dal lato di una montagna per raggiungere questa città e diventare interpreti della leggendaria corsa all’oro, potessero essere attratte da Hollywood e il sogno che l’accompagnava.
Il cinema e le sue pellicole, erano anche una sorta di rifugio in un luogo dal clima così impervio. Gli inverni incredibilmente lunghi, non ispiravano gli abitanti stanziali o di passaggio a uscire. Quattro o cinque cinema diversi proiettavano film ogni giorno, a volte c’era un programma di quattro film diversi a settimana. Era possibile vedere qualcosa come 20 o 30 film diversi in una settimana. Ci sono aneddoti di cacciatori di pelli o di minatori o boscaioli che vedevano tutto ciò che era possibile per poi tornare nella boscaglia o nei luoghi remoti e inospitali da cui provenivano.
Il film di Morrison parla in maniera profonda e sofisticata della memoria, di ciò che viene ricordato e di ciò che diventa storia, di quanto velocemente le persone dimenticano o di quanto spesso si pensa di scoprire qualcosa che in realtà era già stato scoperto, ma non era stato visto. Queste pellicole si sono rivelate una sorta di filo conduttore, di binario dove poter viaggiare e al tempo stesso fermarsi, per guardare con più attenzione, per creare connessioni inaspettate che erano lì, in attesa di essere osservate e approfondite.
Un ultimo punto, estremamente affascinante e attuale, è quello del danneggiamento e del nuovo significato e fascino che ha finito con il donare alle pellicole. Una nuova identità che in un certo senso ha equalizzato i diversi tipi di filmato ritrovati. Nonostante la distanza temporale e spaziale, in qualche modo sono tutti legati dal fatto di essere stati sepolti in una piscina per 50 anni. La pellicola ha inevitabilmente a che fare con il tempo, non solo nel momento dell’esposizione. È destinata a mutare con il passare degli anni. Il tempo si prende spesso una rivincita sul tentativo, insito nella fotografia e nel cinema, di fermarlo, o alterarlo. La pellicola è materia viva, destinata a rimanere tale anche nei nostri archivi e nei nostri cuori e questa storia, in definitiva, non fa che dimostrarlo.
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Massimo Mastrorillo
Ha lavorato a progetti a lungo termine concentrandosi sulle profonde conseguenze di conflitti e disastri naturali sulla società.
Ha ricevuto diversi premi, tra cui il World Press Photo, il Picture of the Year International (Magazine Photographer of the Year, terzo premio), il Best of Photojournalism (Magazine Photographer of the Year, terzo premio), il PDN Photo Annual, il Fnac Attenzione Talento Fotografico, l’International Photography Award, l’International Photographer of the Year al 5° Lucie Awards e il Sony World Photography Awards. E’ stato finalista all’Aftermath Grant 2011. Ha ricevuto la nomination per il Prix Pictet 2009 “Earth” e 2015 “Disorder”. Il suo progetto “Il Mare siamo Noi” è stato selezionato per il Vevey Images Grant 2015 e 2017.
E’ stato Leica Ambassador e Talent Manager dell’agenzia LUZ una delle più importanti agenzie fotografiche italiane.
Da anni è impegnato nella didattica con esperienza pluriennale presso la Scuola Romana di Fotografia, la Leica Akademie, la REA e la D.O.O.R. Akademy.
È uno dei membri e fondatori di D.O.O.R., una factory romana che si occupa di fotografia, talent scouting e publishing.
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