
È morto all’età di 78 anni, il fotografo Tim Page, fotografo di guerra, libero, impegnato, che raccontando la guerra del Vietnam, sempre ostinatamente alla ricerca delle verità più nascoste, ha contribuito a cambiarne il corso. Non ha mai conosciuto l’identità della madre naturale e il padre biologico, arruolato nella marina britannica, morì nella Seconda Guerra Mondiale. A 17 anni lasciò alla famiglia adottiva, nel Kent, un biglietto in cui diceva che stava lasciando casa per l’Europa “e forse la marina e quindi il mondo”.

Attraversò l’Europa, il Medio Oriente, l’India e il Nepal. Negli anni ’60 ebbe un incidente quasi mortale in motocicletta. Ecco un estratto di ciò che scrisse in seguito a quell’episodio della sua vita:
“Ero morto. Sono sopravvissuto. Avevo visto il tunnel. Era nero. Non c’era niente. Non c’era luce alla fine. Non c’era un aldilà. Non c’era nulla di religioso in tutto questo. E non sembrava spaventoso. Era un’onda lunga, fluida, senza colore, che semplicemente scompariva. Il mistero era in parte risolto, tutta la propaganda paurosa della Chiesa, assumeva il suo vero e vergognoso significato. Ero contento. Ero vivo. Non ero morto, e mi sembrava tutto molto chiaro. Era l’alba, l’inizio della perdita di una parte responsabile della mia psiche. In quell’incrocio avvenne la mia liberazione. Da quel momento in poi tutto sarebbe stato libertà, un dono degli dei.”


A vent’anni si ritrovò in Laos, all’epoca della guerra civile e finì per lavorare come inviato per la United Press International. Da lì si trasferì a Saigon, dove ha coperto la guerra del Vietnam per i cinque anni successivi. Il ruolo di fotografo di guerra si adattava perfettamente alla voglia di pericolo ed eccitazione di Page. Ha attraversato il fronte in motocicletta ed è salito su elicotteri militari. Ha vissuto e raccontato la guerra in modo tanto personale e particolare da essere di ispirazione per il regista Francis Ford Coppola. A lui è ispirato il personaggio del fotografo di guerra, drogato e amante del rischio, interpretato da Dennis Hopper nel film “Apocalypse Now” (1979). Non a caso, si narra che la sua dimora a Saigon, fosse una sorta di “quartier generale” per feste a base di musica rock e fiumi di droghe. Sul campo si guadagnò la fiducia dei marines, stando sempre al loro fianco, anche nelle situazioni più difficili, non facendosi scrupolo di usare le armi, se necessario.


La guerra del Vietnam è stata la prima e forse ultima guerra in cui non c’è stata censura. I militari incoraggiarono attivamente il coinvolgimento della stampa e Page andò ovunque, riprendendo i luoghi della guerra da vicino. Fu ferito quattro volte, una volta dal “fuoco amico” e l’ultima volta quando saltò giù da un elicottero per aiutare a caricare i feriti e la persona davanti a lui calpestò una mina. All’ospedale venne dichiarato morto. Dovette sottoporsi a un’ampia operazione di neurochirurgia e trascorse la maggior parte degli anni Settanta in convalescenza.
Nella primavera del 1970, mentre si stava riprendendo in ospedale, venne a sapere che il suo migliore amico, compagno di casa e fotografo Sean Flynn, figlio dell’attore hollywoodiano Errol, era scomparso in Cambogia. Per tutti gli anni ’70 e ’80 la missione di Page fu quella di scoprire il destino e l’ultima dimora del suo amico e di erigere un memoriale per tutti i giornalisti uccisi o dispersi in guerra. Questo lo portò a fondare la IndoChina Media Memorial Foundation e a realizzare insieme all’amico Horst Faas, photo editor dell’Associated Press e vincitore di un doppio premio Pulitzer, il libro “REQUIEM” che contiene le immagini di 135 fotografi morti in Indocina tra il 1945 e il 1975. Una mostra, con lo stesso titolo, viene ospitata permanentemente presso il War Remnants Museum di Ho Chi Minh City (ex Saigon).


Recentemente è stato nominato uno dei “100 fotografi più influenti di tutti i tempi”. Il suo interesse e la sua passione lo hanno portato ad occuparsi attivamente delle conseguenze dei conflitti, spesso dimenticate dai media, e a richiamare l’attenzione del mondo sulla condizione delle vittime civili innocenti. Per questo motivo è tornato regolarmente in Vietnam e in Cambogia per tenere workshop fotografici, svolgere incarichi e fotografare le conseguenze delle mine e gli effetti ancora devastanti dell’Agente Orange.
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Massimo Mastrorillo

Ha lavorato a progetti a lungo termine concentrandosi sulle profonde conseguenze di conflitti e disastri naturali sulla società.
Ha ricevuto diversi premi, tra cui il World Press Photo, il Picture of the Year International (Magazine Photographer of the Year, terzo premio), il Best of Photojournalism (Magazine Photographer of the Year, terzo premio), il PDN Photo Annual, il Fnac Attenzione Talento Fotografico, l’International Photography Award, l’International Photographer of the Year al 5° Lucie Awards e il Sony World Photography Awards. E’ stato finalista all’Aftermath Grant 2011. Ha ricevuto la nomination per il Prix Pictet 2009 “Earth” e 2015 “Disorder”. Il suo progetto “Il Mare siamo Noi” è stato selezionato per il Vevey Images Grant 2015 e 2017.
E’ stato Leica Ambassador e Talent Manager dell’agenzia LUZ una delle più importanti agenzie fotografiche italiane.
Da anni è impegnato nella didattica con esperienza pluriennale presso la Scuola Romana di Fotografia, la Leica Akademie, la REA e la D.O.O.R. Akademy.
È uno dei membri e fondatori di D.O.O.R., una factory romana che si occupa di fotografia, talent scouting e publishing.
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