Nel 2004 Miguel Calderón ha partecipato alla Biennale di San Paolo con il video Mexico vs Brazil, che è stato poi mostrato alla mostra LACMA Fútbol: The Beautiful Game a Los Angeles insieme a opere di Andy Warhol, Douglas Gordon, Antoni Muntadas, Andreas Gursky, Gustavo Artigas, Stephen Dean, tra gli altri.”
Settembre 2004. Pomeriggio, in un bar affollato di San Paolo del Brasile. Gli avventori, sparpagliati tra le sedie e gli sgabelli dei locali, bevono, chiacchierano, leggono il giornale come in qualsiasi altro bar nel mondo. Viene accesa la TV e sul canale internazionale di Televisa viene trasmessa una partita di calcio, un incontro tra le squadre del Brasile e del Messico. I clienti, seppur distratti, mormorano, sono sconcertati. Nessuno era a conoscenza dell’evento, cosa che avviene raramente in Brasile, quando si parla di football e in particolare della Nazionale. Alcuni di loro vanno alla ricerca della notizia tra le pagine sportive e la programmazione televisiva dei giornali. Il gioco inizia e tutti gli occhi si rivolgono, inevitabilmente, allo schermo. Il match sembra essere amichevole, ma ciò non toglie che il mancato annuncio risulti strano, insolito.
La partita prende subito una brutta piega per il Brasile. Subisce due gol in pochi minuti. Non sembra davvero essere giornata per i fuoriclasse del Brasile. Arrivano il terzo, il quarto, il quinto, e il…sesto gol del Messico e alla fine del primo tempo il risultato è Messico 9, Brasile 0. Sulle facce delle persone che osservano la partita si legge sgomento; tutto appare illogico, quasi ridicolo, ma credibile. Era evidente che il Messico stava dando una dura lezione al Brasile. Non sembra cambiare nulla neanche nel secondo tempo. I gol messicani si susseguono mentre i cronisti di Televisa non riescono più a nascondere la loro gioia per la batosta inflitta ai cinque volte campione del mondo. Tra gli avventori comincia a prevalere l’idea che sia uno scherzo. Il risultato finale è quasi scandaloso: Messico 17, Brasile 0. Nessuno, sia in Brasile che in Messico, ritiene possibile un simile esito. Né lo score né la vittoria sono credibili nell’immaginario collettivo. È qui l’intervento e l’opera dell’artista appare sofisticato ed evidente: entrare nella convinzione popolare e nel meccanismo, da un lato ragionevole ma dall’altro perverso e senza via di uscita, del “destino segnato e inevitabile”. Lo fa attraverso il calcio, lo sport più popolare al mondo, con l’utilizzo di un “fake” e con uno sguardo rivolto ad un’analisi più profonda su cui riflettere. Il Brasile è destinato a vincere quasi sempre, il Messico no. Come sottolineato dallo scrittore Gilberto Prado, “nel calcio e nella vita di tutti i giorni, il messicano ama l’ornamento e non l’efficienza; gli piace l’eccesso invece del raggiungimento di un obiettivo e questo atteggiamento non ha mai permesso al Paese di arrivare anche solo ad una semifinale del mondiale. Al contrario, il gioco del Brasile, sempre spettacolare, è allo stesso tempo efficace e decisivo, in contrasto con l’immagine che la maggior parte dei brasiliani ha spesso del proprio Paese. La massiccia vittoria del Messico, sembra mettere in dubbio i ruoli predefiniti di vincitori e vinti.
Con questa opera, presentata alla Biennale di San Paolo, l’artista ha voluto infiltrarsi nei sentimenti dei fan. Lo ha fatto con un mezzo povero e apparentemente estraneo all’arte, per destare sconcerto, almeno fino al momento in cui il sospetto ha preso il sopravvento. Ogni dettaglio è stato controllato alla perfezione per rendere il tutto più credibile possibile. Gol, cronisti, dibattiti in studi televisivi. Un “falso” costruito a regola d’arte.
Sostengo da tempo che l’arte, ancor più che la fotografia, o meglio gli artisti che usano l’immagine, negli ultimi anni stanno ponendo interrogativi e provocando pensieri con più coraggio rispetto ai fotografi. Forse la ragione sta nel DNA di entrambe. L’arte moderna è nata per stupire, scioccare, provocare, la fotografia per mostrare. Ne consegue che la prima è più libera di esprimersi, indipendentemente dal mezzo che usa. Quello che fa riflettere è che se un’artista può usare la fotografia in modo libero e svincolato da cliché e gabbie, forse lo può fare anche un fotografo o più in generale un autore che si esprime attraverso la fotografia.
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Massimo Mastrorillo
Ha lavorato a progetti a lungo termine concentrandosi sulle profonde conseguenze di conflitti e disastri naturali sulla società.
Ha ricevuto diversi premi, tra cui il World Press Photo, il Picture of the Year International (Magazine Photographer of the Year, terzo premio), il Best of Photojournalism (Magazine Photographer of the Year, terzo premio), il PDN Photo Annual, il Fnac Attenzione Talento Fotografico, l’International Photography Award, l’International Photographer of the Year al 5° Lucie Awards e il Sony World Photography Awards. E’ stato finalista all’Aftermath Grant 2011. Ha ricevuto la nomination per il Prix Pictet 2009 “Earth” e 2015 “Disorder”. Il suo progetto “Il Mare siamo Noi” è stato selezionato per il Vevey Images Grant 2015 e 2017.
E’ stato Leica Ambassador e Talent Manager dell’agenzia LUZ una delle più importanti agenzie fotografiche italiane.
Da anni è impegnato nella didattica con esperienza pluriennale presso la Scuola Romana di Fotografia, la Leica Akademie, la REA e la D.O.O.R. Akademy.
È uno dei membri e fondatori di D.O.O.R., una factory romana che si occupa di fotografia, talent scouting e publishing.
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