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Piergiorgio Branzi-Uno sguardo silenzioso sul mondo (1928-2022)

di Massimo Mastrorillo

Potrà sembrare un’affermazione azzardata ma, a mio giudizio, fotografare è un’operazione compromettente. Compromettente perché quel fondo di bicchiere che conosciamo, e che capta quel lampo di luce che racchiude un frammento di realtà, è rivolto verso l’esterno, ma l’immagine proviene dal nostro intimo più profondo e nascosto: e ci racconta e ci smaschera“. (Piergiorgio Branzi)

Piergiorgio Branzi, autore delicato ed elegante, ci ha lasciato in questi giorni.  È stato sicuramente un personaggio anomalo nell’ambito della fotografia italiana, perché accanto alla figura di fotografo, ha accompagnato anche quella di giornalista di successo della RAI. Iniziò a fotografare negli anni ’50 e nel ’55 andò in giro per il Sud Italia con una Moto Guzzi,  regalandoci uno spaccato “pasoliniano” di un Paese profondamento segnato dalla guerra. Racconta Branzi: “L’Italia, uscita dal conflitto da meno di un decennio, era un Paese povero, nel migliore dei casi di dignitosa indigenza. E nel Meridione, un Paese del tutto arcaico e doloroso. Questo arcaismo mediterraneo, che trovai non solo in Italia, ma anche in Spagna e in Grecia – gli altri due Paesi che poi attraversai –, mi interessava anche perché mi sembrava di intravvedervi l’essenza stessa dell’uomo allo stato di pre-omologazione consumistica: genuino come in effetti era. Cercai di affrontarlo con uno sguardo di empatia e anche di compassione, sperando di dare alle immagini un contenuto di messaggio sociale”.

Lo stile di Branzi è stato, per sua stessa ammissione, fortemente influenzato da Henry Cartier Bresson e dai fotografi americani Walker Evans, Bourke-White, Paul Strand e piú tardi Robert Frank, di cui ammirava la “capacitá di realizzare un libro epocale sulla societá americana, senza avere nessuna immagine spettacolare”.

Anche le radici toscane si riflettono nel suo stile.  Riconosceva in prima persona l’influenza della tradizione figurativa della sua regione sul suo lavoro e sulla sua predilezione per il bianco e nero: “Preferisco il bianco e nero perché negli anni Cinquanta, quando ho cominciato, il colore era una costosa curiosità. Ma anche perché noi toscani consideriamo il disegno l’“etica” stessa di ogni espressione figurativa. Firenze è una città figlia di due cave di pietra: di “pietra serena”, quindi il grigio della grafite, e l’altra di “pietra dura”, cioè l’ocra spento del Palazzo della Signoria. È una città dall’aspetto severo, e il colore rimane accessorio gradevole, un riempitivo, pur se splendido possa risultare. Anche la campagna è bicolore e disegnata, come si sa. Verde scuro del cipresso, che non cade e non perde foglie, e verde argento dell’ulivo, anch’esso ben solido sul terreno, e fogliame indenne al più duro inverno. Potevo mai allontanarmi da questa rassicurante “gabbia”?

Branzi è stato uno dei più grandi tra i fotoamatori di successo italiani, tra i quali possiamo annoverare Giacomelli, Monti, Roiter, Berengo Gardin. Tuttavia difficilmente amava essere inquadrato, tanto è vero che, tra tutti questi autori, quello a cui  si legò maggiormente fu Mario Giacomelli, il più anarchico e vicino alla poesia.

Dopo aver collaborato con il prestigioso “Il Mondo” di Mario Pannunzio, iniziò a cercare di costruirsi una carriera nel giornalismo scritto e all’inizio degli anni ‘60 venne assunto dalla RAI. Di lì a poco, l’allora direttore del telegiornale Enzo Biagi, lo inviò a Mosca come corrispondente. Non era un incarico qualunque. Per la prima volta, in piena guerra fredda, un Paese occidentale apriva una sede giornalistica in Unione Sovietica. Portò con sé la sua Leica, che per quanto piccola e silenziosa, pesava come un macigno in un contesto in cui era vietato quasi tutto, soprattutto fotografare. Ma Branzi capì subito che in Unione Sovietica, ciò che era proibito non era  impossibile, e usando tatto,  delicatezza e astuzia, ci regalò delle fotografie piene di bellezza e umanità.

A Mosca lavorò per 4 anni, per poi essere trasferito a Parigi e infine tornare a Roma, dove diventò conduttore del telegiornale. Fu in questi anni che decise di abbandonare la fotografia e lo fece per i 30 anni che seguirono: “Tornato da Mosca appesi la macchina al chiodo. Non si possono fare due mestieri insieme – fotografia e televisione – e il secondo era diventato la mia principale professione. Avvertivo inoltre il bisogno di riflettere sui quindici anni della mia attività fotografica. L’esperienza delle immagini moscovite mi aveva condotto su strade diverse da quelle fino ad allora praticate, e desideravo ritrovare il filo di Arianna, le tracce costanti, i “segni”, se ve ne fossero stati, introdotti nel mio linguaggio figurativo.” In quegli anni si dedicò alla pittura e all’incisione, come aveva fatto il “suo” Cartier Bresson, l’autore che amava e che aveva voluto assolutamente conoscere, presentandosi, a inizio carriera, nell’ufficio della Magnum di Parigi con il suo portfolio.

Riprese a fotografare solo negli anni ’90, portando avanti per diverso tempo un progetto sui luoghi pasoliniani e cominciando poi a sperimentare con la fotografia digitale, rivedendo con tecniche moderne, alcune sue vecchie immagini, su consiglio dell’amico Nino Migliori.

Le sue opere sono state esposte nei musei di tutto il mondo: dal Museum of Modern Art di San Francisco al Guggenheim di New York (nella prestigiosa mostra “Italian Metamorphosis”), dal Fine Art Museum di Houston alla Bibliothèque Nationale de France di Parigi, dalla Tate Gallery di Londra al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia di Madrid.

È considerato a livello internazionale un indiscusso maestro della fotografia italiana. Era un osservatore attento, curioso, pronto a meravigliarsi difronte al manifestarsi della vita, con una visione chiara di quello che voleva fare con la fotografia. In un’intervista gli chiesero se c’era differenza tra guardare e vedere e lui rispose, senza esitazione, che esisteva e che lui aveva cercato sempre e solo di “vedere”.

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