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Rahim Fortune: “I can stand to see you cry”

di Massimo Mastrorillo

© Rahim Fortune

Rahim Fortune è un giovane talento da tenere d’occhio. Dopo essere stato selezionato per il Prix Découverte Louis Roederer 2022 del Festival Rencontres de la Photographie di Arles, lo ha vinto, ricevendo sia la maggioranza dei voti del pubblico che quella della giuria.

Sicuramente una grande mano nel porre l’attenzione sul suo lavoro, è stata data dalla casa editrice Loose Joints Publishing che ha pubblicato il libro “I can stand to see you cry” (anche titolo della mostra esposta ad Arles) nel 2021.  Non si è trattato in realtà solo di una pubblicazione, ma di un vero e proprio processo di editing e selezione a due mani: “La chiarezza è venuta dalla collaborazione con Loose Joints, che mi ha aiutato a demistificare il processo di creazione del libro. La portata del progetto era ancora limitata. Volevo che riguardasse solo il processo di cura di mio padre, l’idea della mia famiglia e la natura mutevole del tempo. Ma quando ho inviato loro i provini a contatto, Loose Joints ha tirato fuori altre immagini, trovando un possibile filo conduttore. Mi chiesero di inviare altre foto che fossero coerenti e così ho finito per esaminare tutto ciò che avevo scattato nel Texas centrale, circa 400 immagini. Mi hanno aiutato a vedere e trovare una linea narrativa, risolvendo insieme a me la questione sul come trasformare quello che avevo prodotto, in un’opera”.

© Rahim Fortune

In un giorno di primavera di due anni fa, il fotografo e la sua ragazza lasciano Brooklyn, New York, con tutte le loro cose stipate in un camion per traslochi, per tornare in Texas, il suo Stato di origine, e aiutare la famiglia a prendersi cura del padre, che stava perdendo una battaglia di anni contro la SLA. Entro quell’estate, suo padre morì.

Cosa poteva aspettarlo dopo quel tragico evento? “Rimanere: dovevo aiutare la mia sorellina a trovare una nuova sistemazione”. In quel periodo di dolore e guarigione, sullo sfondo di una pandemia e di proteste per i diritti civili, Rahim puntò la macchina fotografica sul mondo che lo circondava, immortalando le gravidanze degli amici, i rapper locali di Austin, i cavalieri neri che galoppano nei campi e la malattia che coinvolgeva la sua famiglia.

© Rahim Fortune
© Rahim Fortune
© Rahim Fortune/Loose Joints Publishing

Nell’ambito del libro, il padre di Rahim Fortune appare in una sola immagine, ma di grande intensità e importanza. Il ritratto mostra l’uomo anziano appoggiato al letto, con un tubo per l’ossigeno sul naso, che stringe la mano del figlio, che si allunga da dietro la macchina fotografica. Fortune, a soli ventisette anni, si ritrova nel nuovo ruolo di custode, mentre la pandemia di COVID-19 stava accelerando e le proteste contro gli omicidi della polizia si diffondevano in tutto il Paese. Tra un turno e l’altro al capezzale del padre, porta la sua macchina fotografica per le strade di una città che conosce intimamente, ma che ora si accinge a fotografare con una nuova urgenza, nata dalla malattia del padre. Puntare la macchina fotografica verso l’abisso: ecco cos’era quell’energia. Tutti i momenti in cui ero lontano da casa, pensavo solo a lui. E tutto era intenzionale. Non c’erano movimenti sprecati“.

“Durante questo difficile periodo iniziarono le proteste per l’uccisione di George Floyd Jr. Ad Austin, un altro uomo, di nome Mike Ramos, era stato ucciso dalla polizia, un tragico evento che ebbe grande risonanza sui media. Molte persone fotografavano le proteste. Volevo allontanarmi da quel tipo di documentazione e concentrarmi maggiormente sulle relazioni interpersonali che stavo vivendo. Così, ad esempio, mi interessai alle gravidanze durante la pandemia. Una delle mie amiche diede alla luce il suo primo figlio in quel periodo. Poi c’era mia sorella e le sue figlie e poi ore e ore di assistenza a mio padre. Inoltre mia nonna si ammalò di leucemia e perse un figlio”

La famiglia per Rahim è un elemento portante della sua educazione, del suo modo di vedere il mondo e raccontarlo: “La grande famiglia nera del Sud, con gli zii, la nonna che cucinava e il nonno, con il suo linguaggio tagliente e provocatorio, è stata, anche visivamente, fonte di ispirazione. Mio padre era cintura nera, quindi ho avuto una sorta di educazione al kung fu nero. Mia nonna, da parte di mio padre, è una pittrice, e anche questo mi ha ispirato. E la musica: la mia famiglia è appassionata di musica. Il titolo del libro è” I can’t stand to see you cry” (Non sopporto di vederti piangere), una canzone dei Whatnauts. Quando mio padre era malato, andavo nella sua stanza e mettevo su un vecchio mix di Delfonics, Earth, Wind & Fire e tutti quei generi di musica. Mio padre era un batterista prima di perdere la destrezza. Sedendo nella stanza con mio padre e ascoltando le canzoni che avevano su CD, si creavano momenti di pura riflessione in cui non serviva parlare. Approfittavamo di quegli istanti, consapevoli del fatto che forse non ce ne sarebbero potuti essere degli altri”.

© Rahim Fortune

Alla base delle scelte stilistiche di Fortune, c’è un processo di ricerca della bellezza e del dolore della vita quotidiana, evidenziati da un linguaggio visivo familiare. Spesso guarda alla storia e alla tradizione per ispirare e guidare tutto ciò che fotografa. “Miro a realizzare un lavoro che sia in conversazione con gli artisti che mi hanno preceduto”, aggiunge, “pur aggiungendo qualcosa di particolarmente mio”.

Rahim trae spesso ispirazione da piccoli e sottili momenti della sua vita, da qualcosa che ha visto in un documentario o che ha notato dal finestrino di un’auto mentre guidava. “Molte delle mie idee partono da un sentimento che voglio esprimere, poi faccio riferimento e studio le immagini che evocano quell’emozione”, dice. Si tratta di un rapporto bidirezionale tra il funzionamento interno della sua mente e le influenze esterne del mondo, incanalate attraverso la sua macchina fotografica e intrecciate in una serie fotografica di tipo narrativo.

Le immagini di Fortune sono intense, piene di umanità e mostrano emozioni sincere, nonostante spesso siano in bilico tra realtà e finzione. La fotografia è un mezzo che usa per dare un senso al mondo. Si vede che c’è consapevolezza, che ci sono obiettivi: Spero che le persone che interagiscono con il mio lavoro si colleghino, imparino o creino un discorso con le fotografie”. “Ho iniziato a fare foto come un modo per esplorare un mondo complesso che offriva poche risposte – spero che le persone provino un senso di visibilità o di guarigione dal mio lavoro.

“Qualcosa a cui ho pensato è l’idea di forza, relativamente all’esperienza di malattia di mio padre. Vedere il proprio elemento di forza, smontato davanti ai miei occhi, mi ha fatto comprendere come la debolezza non sia negativa, ma una realtà di cui prendere atto. Queste esperienze ti preparano per affrontare il mondo. Ti danno la forza di metterti in gioco.

Non da meno è la necessità di dare il giusto spazio e risalto ai fotografi documentaristi di colore e non perdere mai di vista le sue origini. “Ti selezionano e metttono in un posto con altri fotografi bianchi, che sono cresciuti per tutta la vita in un sobborgo, e poi sono andati a scuola, e poi sono andati a New York e hanno fatto uno stage. Non è da lì che io sono venuto”.

“Non ci sono molti esempi di giovani fotografi documentaristi neri che riescono a uscire dal Sud. Voglio che la gente capisca le vere lotte che ho affrontato. Non è stato facile. Niente di tutto ciò è stato bello. E credo che questo parli davvero a tutti noi.

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