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“Speak the Wind” – Hoda Afshar

di Massimo Mastrorillo

“Una notte, mentre dormivo, è entrato nel mio corpo.

Il mio cuore batteva forte e le mie braccia e le mie gambe tremavano. 

Non riuscivo a smettere di piangere. Potevo sentirlo roteare dentro il mio cranio.”

 

Hoda Afshar è una fotografa iraniana trapiantata dal 2015 a Melbourne, in Australia. Il suo progetto “Speak the Wind” è attualmente in mostra al Festival di Reggio Emilia Emilia per Fotografia Europea (Chiostri di San Pietro) e svela gli incredibili paesaggi delle isole dello stretto di Hormuz, al largo della costa meridionale dell’Iran. Un lavoro poetico in cui l’autrice attraverso fotografie di paesaggio e fiction racconta l’invisibile e ciò che vi si nasconde.

 

Queste sono terre di cacciatori di perle e di discendenti di schiavi, portati dai commercianti musulmani. Per circa tredici secoli (la schiavitù è stata abolita in Iran solo nel 1929) queste storie di schiavitù sono rimaste celate, per emergere solo nelle credenze popolari. Per gli abitanti questa è una regione  perduta, posseduta dal vento africano proveniente dall’est, un vento dominante che ha generato storie complesse, di possesso, di magia  e che si confonde con la realtà di tutti i giorni. La cultura di questo luogo ne è permeata e lo si sente risuonare nel paesaggio, surreale, fatto di rocce scolpite dalle sembianze umane, e tra le vallate.

Hoda Afshar ci fa vedere l’invisibile attraverso immagini evocative, l’occhio dell’immaginazione. Il racconto dell’autrice si sviluppa attraverso due voci: quella in bianco e nero, predominante, in cui vengono descritti per lo più i paesaggi lunari e quella a colori legato alla documentazione del popolo e dei colori della terra. Una scelta stilistica chiaramente ispirata al regista Andrej Tarkovskij e in particolare al suo film Lo Specchio. Il bianco e nero in lui evoca il ricordo, la nostalgia, il sogno, la spiritualità, il colore la vita pragmatica di tutti giorni

In un continuo alternarsi di sogno e realtà, fede e ritmo, veniamo accompagnati da immagini fisse in cui i soggetti sono decontestualizzati dai centri abitati per assumere pose teatrali, quasi performative; da paesaggi spettrali, misteriosi; da immagini in movimento che ci fanno sentire il rumore di quel vento che incute timore e possiede chi ci entra in contatto; da ritmi di danze e musiche che quello stesso vento ha ispirato.

Mondi immaginari e reali si fondono senza possibilità di distinzione. L’autrice si cimenta in un’opera ardua, specie in fotografia. Come raccontare qualcosa che si sa per certo che accade ma che non è visibile, tangibile, perché ti lavora da dentro, perché ha a che fare con l’anima? La fotografia è fatta solo per rappresentare, descrivere o anche per evocare? Non è forse l’impossibilità dell’oggettività nella descrizione a fornirci la chiave per la risposta? È proprio questo limite, oramai assodato, a cui molti si abituano con fatica, che può liberare questo linguaggio dalla gabbia in cui è stato relegato per decenni, facendoci dono della possibilità di spaziare, creare, non subire passivamente, ma immaginare.

Hoda Afshar ce ne dà un esempio, ci accompagna in un luogo lontano, lasciandoci liberi di percepire e sentire quello che ci viene da dentro, stimolati dalle suggestioni da lei rivelate.

C’è ancora spazio per dare emozioni in fotografia. Speak the Wind ci riesce. Mack ha stampato nel 2021 un bel libro, per consentirci di continuare a provarle, anche dopo la mostra.

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