
Raccontare il paesaggio americano attraverso la fotografia è impresa ardua. Tanti sono i riferimenti iconici che appartengono in pianta stabile alla storia della fotografia e che finiscono con il rendere spesso un “deja-vù” qualunque nuova immagine.
Basta pensare ad autori come Robert Adams e il movimento dei New Topographics, Stephen Shore, Mitch Epstein, Richard Misrach, Joel Sternfeld, Joel Meyerowitz e ai più recenti Todd Hido e Alec Soth o ai registi Michelangelo Antonioni e Wim Wenders (sia con il cinema che con la fotografia) o ad artisti come Ed Ruscha, solo per citarne alcuni.
In fotografia come nell’arte, nulla di assolutamente nuovo può essere inventato, ma è possibile lavorare ancora sulle sfumature, sulle zone di luce e ombra, sul “concept”, così come si fa in letteratura dove, anche in contesti noti, c’è sempre spazio per nuove storie.
Vanessa Winship e George Georgiou lo hanno fatto, con talento, con approcci totalmente diversi, donandosi quel rispetto, ammirazione, amore e quella voglia di sostenersi che sono alla base del rapporto che li lega affettivamente dai tempi dell’università.
Dopo aver vagabondato insieme a George per circa dieci anni (dal 1999) nei Balcani, in Turchia e nei territori del Mar Nero, vivendoci e realizzando lavori che hanno incontrato il consenso di pubblico e critica, Vanessa raggiunge il meritato successo con una serie di ritratti realizzati in Anatolia dal titolo Sweet Nothings (2007). Giovani studentesse con indosso le uniformi scolastiche, in un’area dove l’educazione scolastica femminile non appartiene alla storia e alla tradizione, vengono ritratte con empatia e sensibilità, evidenziandone la fragilità, la semplicità, la grazia e la naturalezza. Il progetto rappresenta una svolta fondamentale nell’approccio formale di Vanessa. Abbandona la fotografia intimista e di reportage in 35 mm e passa al ritratto in banco ottico, quindi ad una fotografia ancor più lenta e riflessiva, che le vale un primo premio al World Press Photo nella sezione ritratto, il Photographer of the Year ai Sony World Photography Awards, il National Portrait Gallery Prize e infine l’Henry Cartier Bresson Award (la prima donna a vincerlo), che le garantisce i fondi per lavorare ad un nuovo progetto, quello che la porta in America.

Le fotografie vengono scattate nel West, Midwest e South degli Stati Uniti in perfetta sintonia con la filosofia del “road trip” tanto cara a Jack Kerouac e Robert Frank. Al suo fianco c’è George che le fa da assistente, compagno, autista e nel frattempo prende nota e comincia a ragionare su un suo possibile progetto, quando verrà il suo turno, in questo stesso paese, così sconfinato e pieno di contraddizioni.
Ciò che emerge in questo lavoro di Vanessa, è la sempre maggiore sensibilità per l’individualità delle persone e per i luoghi in cui vivono. L’ odissea americana di Vanessa è una scoperta senza nessuna pretesa di raccontare qualcosa di preciso o di definito, dove si rivela un’attenzione particolare per il marginale e un amore per le parole, quelle sentite per caso o rubate da un libro. In definitiva, sono proprio le parole che hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nel guidarla e portarla per mano nei suoi viaggi e nella sua ricerca.
“She Dances on Jackson” viene esposto alla HCB Foundation e Michael Mack pubblica il libro, ormai sold out, selezionato da diversi critici e addetti ai lavori come uno dei migliori libri prodotti nel 2013.
Nel 2018 viene organizzata alla Barbican Art Gallery di Londra, una mostra retrospettiva di Vanessa Winship accompagnata dal catalogo “And Time Folds” pubblicato anch’esso da Mack Books. Vedere tutta la produzione di questa autrice, ha aiutato a comprendere quanto la sua indagine sia sempre stata alla ricerca di nozioni quali il confine, la terra, la memoria, il desiderio, la storia, la transitorietà, sia essa del paesaggio o della società. Tanto nel libro quanto nella mostra viene inserito anche del materiale d’archivio personale che rivela il processo di pensiero della Winship, i suoi metodi di lavoro, decretandone la definitiva consacrazione come poetessa dell’immagine coerente, consapevole e partecipe.

Nel 2016, sullo sfondo delle elezioni presidenziali, George Georgiou decide di ritrarre le folle che assistono alle parate, una delle usanze americane più diffuse e tipiche. In Americans Parade, questa volta ad accompagnare George c’è Vanessa, pronta a donare il medesimo sostegno da lei ricevuto in precedenza. George usa anche lui il ritratto ma differentemente da Vanessa non isola i soggetti, li riprende in maniera totale, seriale, usando un linguaggio che si pone tra la scuola di Düsseldorf e il meraviglioso lavoro di Paul Fusco “RFK Funeral Train”.


Georgiou in dodici mesi (lo stesso tempo utilizzato da Vanessa nel suo progetto) visita ventisei parate, in ventiquattro città, attraverso quattordici stati, con il sostegno del New York Times Magazine.
«Osservavo il paesaggio e i gruppi di persone che attiravano la mia attenzione, i momenti fugaci, ma ho anche abbracciato la generosità del medium fotografico, la sua capacità di registrare e fermare molto più di quanto io potessi captare».
La folla dona alla fotografia quell’elemento di casualità da cui spesso viene generata la fotografia stessa. Ne viene fuori un ritratto incredibilmente intenso, complesso, ambiguo, multietnico degli Stati Uniti. Nelle immagini apparentemente innocue, lo spettatore è in grado di leggere i confini razziali, sociali e geografici che contraddistinguono la società americana.

Americans Parade è stato esposto in diversi paesi e George è riuscito a portare a termine una campagna di crowdfunding molto impegnativa per stampare un libro autoprodotto che eccelle per qualità e cura.
Una cosa accomuna le immagini di Vanessa e George: l’essenzialità, la semplicità nell’approccio, l’empatia e la profondità della visione che non ha nulla a che vedere con lo stile ma solo con l’umanità che contraddistingue i due autori.
Vanessa e George continuano a muoversi tra la loro piccola casa in Bulgaria e l’abitazione in Inghilterra, nei ritagli di tempo che avanzano tra mostre, workshop e talk. Sempre disponibili, attenti, generosi.
Martedì saranno con noi, per condividere la loro passione e visione. È un dono che non possiamo non apprezzare.
Per partecipare gratuitamente all’incontro con Vanessa e George martedì 19 ottobre alle 19:00 su Zoom registrati qui
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Massimo Mastrorillo

Ha lavorato a progetti a lungo termine concentrandosi sulle profonde conseguenze di conflitti e disastri naturali sulla società.
Ha ricevuto diversi premi, tra cui il World Press Photo, il Picture of the Year International (Magazine Photographer of the Year, terzo premio), il Best of Photojournalism (Magazine Photographer of the Year, terzo premio), il PDN Photo Annual, il Fnac Attenzione Talento Fotografico, l’International Photography Award, l’International Photographer of the Year al 5° Lucie Awards e il Sony World Photography Awards. E’ stato finalista all’Aftermath Grant 2011. Ha ricevuto la nomination per il Prix Pictet 2009 “Earth” e 2015 “Disorder”. Il suo progetto “Il Mare siamo Noi” è stato selezionato per il Vevey Images Grant 2015 e 2017.
E’ stato Leica Ambassador e Talent Manager dell’agenzia LUZ una delle più importanti agenzie fotografiche italiane.
Da anni è impegnato nella didattica con esperienza pluriennale presso la Scuola Romana di Fotografia, la Leica Akademie, la REA e la D.O.O.R. Akademy.
È uno dei membri e fondatori di D.O.O.R., una factory romana che si occupa di fotografia, talent scouting e publishing.
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