Analizziamo il pensiero di Luigi Ghirri e in particolare prendiamo spunto da ciò che rappresenta per lui la fotografia, per approfondire un tema, quello del linguaggio, su cui spesso si creano equivoci e che è in definitiva fondamentale per comprendere la differenza tra il fare fotografia ed essere un autore.
Per Ghirri la fotografia è strumento di conoscenza, deriva dal desiderio di conoscere e dall’affetto, perché quello che si vuole conoscere va compreso con umiltà.
Desiderio e affetto rappresentano due componenti spesso trascurate o sottovalutate, ma alla base del gesto del fotografare. L’umiltà è ciò che le sostiene e le ispira.
La fotografia è strumento per comprendere perché solo se il fotografo si approccia al mondo libero da un “immaginario”, se non guarda solo ciò che è stato detto di vedere, solo allora può domandarsi e comprendere l’insieme di segni che si moltiplicano e sono in conflitto tra di loro. In sostanza per osservare con attenzione il caos che ci circonda e dargli un ordine, il nostro ordine, abbiamo bisogno di essere liberi, ispirati da chi ci ha preceduto ma non vincolati alla loro visione.
È linguaggio, dalle molte qualità e liberatorio, perché permette di esprimersi senza filtri e vincoli. Un linguaggio nel quale la differenza tra riproduzione e interpretazione esiste e dà luogo a un’infinità di mondi immaginari. È proprio nella differenza tra riproduzione e interpretazione che esiste la vera libertà di espressione. Una differenza sottile, come sottolinea Ghirri, che contiene infinite soluzioni e sfumature e ci fa comprendere quanto a volte limitiamo le potenzialità di questo linguaggio.
Infine è dualismo perfetto: oltre alle classiche opposizioni bianco-nero, luce-buio ecc la fotografia riproduce e interpreta, rileva e rivela, rappresenta e cancella, testimonia e reinventa. Sono questi alcuni dei punti fondamentali per rendere un fotografo non un semplice specialista della visione ma un artista che vede la fotografia come una grande avventura del pensiero.
C’è nel linguaggio fotografico un elemento che l’avvicina alla vita e al suo funzionamento. La semplicità che si confonde spesso con la complessità. Il fotografo e saggista giapponese Takuma Nakahira in un testo dal titolo “Perché un dizionario botanico illustrato” scriveva: “Se già conoscessimo le cose, se già sapessimo com’è il mondo, sarebbe possibile spiegarlo. Invece, dobbiamo essere pronti a catturare i simboli offerti da questo mondo sconosciuto che si estende davanti a noi”
Come descrivere meglio questa semplicità e complessità?
Nel 1969, in occasione della prima missione spaziale sulla Luna venne realizzata la prima immagine fotografica della Terra. Per Ghirri non era soltanto l’immagine del mondo, ma l’immagine che conteneva tutte le immagini del mondo: graffiti, affreschi, dipinti, scritture, fotografie, libri, film. Contemporaneamente la rappresentazione del mondo e tutte le rappresentazioni del mondo in una volta sola. Eppure quello sguardo totale, quel descrivere nuovamente tutto, annullava ancora una volta la possibilità di tradurre il geroglifico-totale. Il potere di contenere tutto spariva davanti all’impossibilità di vedere tutto in una volta sola.
I due poli del dubbio e del mistero secolare, l’immagine dell’atomo e l’immagine del mondo, erano finalmente una di fronte all’altra. Lo spazio tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande era riempito dall’infinitamente complesso: l’uomo e la sua vita. La natura.
L’esigenza di una informazione o conoscenza nasce dunque tra questi due estremi: oscillare dal microscopico all’infinitamente lontano, per potere tradurre e interpretare il reale o geroglifico (come viene mostrato in maniera eccellente nel breve filmato “Powers of Ten” di Charles and Ray Eames del 1977).
Concluderei con una frase da Kodachrome che sintetizza la profondità dell’approccio di Ghirri alla fotografia: “Il senso che cerco di dare al mio lavoro è quello di verificare come sia ancora possibile desiderare e affrontare la strada della conoscenza per poter infine distinguere l’identità precisa dell’uomo, delle cose, della vita, dall’immagine dell’uomo, delle cose, della vita.”
Fonte: Scatti del Pensiero – La fotografia come problema filosofico (cap. Come Pensarla la fotografia, la filosofia di Luigi Ghirri di Caterina Martino).
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Massimo Mastrorillo
Ha lavorato a progetti a lungo termine concentrandosi sulle profonde conseguenze di conflitti e disastri naturali sulla società.
Ha ricevuto diversi premi, tra cui il World Press Photo, il Picture of the Year International (Magazine Photographer of the Year, terzo premio), il Best of Photojournalism (Magazine Photographer of the Year, terzo premio), il PDN Photo Annual, il Fnac Attenzione Talento Fotografico, l’International Photography Award, l’International Photographer of the Year al 5° Lucie Awards e il Sony World Photography Awards. E’ stato finalista all’Aftermath Grant 2011. Ha ricevuto la nomination per il Prix Pictet 2009 “Earth” e 2015 “Disorder”. Il suo progetto “Il Mare siamo Noi” è stato selezionato per il Vevey Images Grant 2015 e 2017.
E’ stato Leica Ambassador e Talent Manager dell’agenzia LUZ una delle più importanti agenzie fotografiche italiane.
Da anni è impegnato nella didattica con esperienza pluriennale presso la Scuola Romana di Fotografia, la Leica Akademie, la REA e la D.O.O.R. Akademy.
È uno dei membri e fondatori di D.O.O.R., una factory romana che si occupa di fotografia, talent scouting e publishing.
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