Per anni si è dibattuto sulla questione legata alla veridicità della fotografia. Dalla certezza che la fotografia racconti la verità si è passati alla certezza (o quasi) che non possa che raccontare quella del fotografo. Del resto, al di là di tutte le considerazioni filosofiche, il solo atto di inquadrare un pezzo di realtà, implica di fatto una selezione, una scelta su cosa mostrare o meno.
Ne deriva inevitabilmente un racconto parziale, soggettivo, determinato dal modo di vedere e vivere del fotografo, dal suo vissuto e dal suo modo di percepire il contesto che ha davanti agli occhi.
La realtà oggettiva gli sfugge e non potrebbe essere altrimenti dal momento che il mezzo ci impone comunque di “selezionare”. Joan Fontcuberta sostiene che il fotografo corrisponde alla figura del “cieco perfetto”. Una definizione forte, apparentemente contraddittoria o se non altro provocatoria, visto che parliamo di un’arte visiva.
Perché non vede, se in realtà cerca continuamente di osservare con maggiore attenzione?
Perché quello che il mondo gli vieta è infinitamente superiore a quanto lui riesce a trattenere. H.C.Bresson sosteneva che per capire se uno scatto era di valore, bisognava osservare prima di tutto quello che accadeva ai suoi margini. Inquadrare riguarda il mettere al centro, ma pure chiedersi cosa rimarrà fuori o starà in bilico, là, sul bordo.
Allora cosa bisognerebbe fare? Rassegnarsi? Accettare i propri limiti o considerare il mezzo fotografico come inutile?
Sarebbe sciocco e al tempo stesso una rinuncia, dal momento che oramai non esiste persona che non provi il desiderio di realizzare delle immagini. In realtà la consapevolezza dei propri limiti è il trampolino di lancio per una maggiore centratura, capacità di osservazione e autorialità.
La fotografia in definitiva non è la testimonianza dell’esistenza di un evento o di altre persone, ma è ancor più testimonianza della nostra esistenza. Dietro una macchina fotografica c’è un essere umano e in ogni lavoro fotografico c’è una forte soggettività. Possiamo avere controllo su di un’immagine, che di per sé ha già un suo carattere, ma non dimentichiamoci, che indipendentemente dal fatto che si fotografi per professione o per semplice diletto, siamo liberi di farlo come meglio crediamo. E la libertà non ha prezzo.
Allora cosa determina la qualità di un lavoro fotografico o la qualità di un autore?
Direi un’intenzione chiara, senza compromessi. Il linguaggio fotografico non è semplice, né universale. Siamo noi a limitarlo. Ha infinite possibilità.
Paul Graham, grande autore britannico da anni trapiantato negli Stati Uniti, ha scritto un articolo dal titolo: ”Photography is easy, photography is difficult”. Ve lo sintetizzo in queste due frasi: “E’ talmente facile da essere ridicola. È talmente facile che non posso neanche cominciare, non so proprio da dove cominciare. Dopo tutto è semplicemente osservare le cose.”…” E’ così difficile perché è ovunque, in ogni luogo, tempo, anche adesso…. Perché la vita fluisce dentro e attorno a noi, incessantemente, in ogni direzione.”
Come si fa ad avere un’intenzione chiara?
L’atto di semplificare può essere di grande aiuto. Semplificare non significa impoverire. È dalla semplicità che nasce la profondità. Bruno Munari sosteneva che alla base dell’atto creativo c’è l’arte dell’eliminare ciò che è superfluo. Un lavoro complesso, già di per sé creativo e contrapposto al complicare, definito come un atto banale, basato sull’aggiungere tutto quello che ci viene in mente, senza pensare alle conseguenze che questo comporta.
Infine ispirarsi agli altri autori, trarre spunto senza mai affermare di saper fare anche noi quello che hanno fatto loro. Rifare è davvero un limite. Implica che qualcuno è arrivato prima di noi e non abbiamo altro da aggiungere.
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CONFINI (WORK IN PROGRESS): Carlotta Tornaghi
Ha lavorato a progetti a lungo termine concentrandosi sulle profonde conseguenze di conflitti e disastri naturali sulla società.
Ha ricevuto diversi premi, tra cui il World Press Photo, il Picture of the Year International (Magazine Photographer of the Year, terzo premio), il Best of Photojournalism (Magazine Photographer of the Year, terzo premio), il PDN Photo Annual, il Fnac Attenzione Talento Fotografico, l’International Photography Award, l’International Photographer of the Year al 5° Lucie Awards e il Sony World Photography Awards. E’ stato finalista all’Aftermath Grant 2011. Ha ricevuto la nomination per il Prix Pictet 2009 “Earth” e 2015 “Disorder”. Il suo progetto “Il Mare siamo Noi” è stato selezionato per il Vevey Images Grant 2015 e 2017.
E’ stato Leica Ambassador e Talent Manager dell’agenzia LUZ una delle più importanti agenzie fotografiche italiane.
Da anni è impegnato nella didattica con esperienza pluriennale presso la Scuola Romana di Fotografia, la Leica Akademie, la REA e la D.O.O.R. Akademy.
È uno dei membri e fondatori di D.O.O.R., una factory romana che si occupa di fotografia, talent scouting e publishing.
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