La “Giornata della Memoria” non può che essere commemorata anche attraverso la fotografia, l’arte che forse più di tutte è stata capace di raccontare gli orrori dell’Olocausto. Migliaia sono gli scatti noti e meno noti che lo hanno fatto senza filtri, con realismo, e la loro immutabilità ha permesso alla storia di non cedere a nessuna indulgenza del tempo. L’esercizio della memoria della Shoah, va detto, non sarebbe stato lo stesso senza le testimonianze fotografiche e videografiche dell’epoca grazie alle quali quel dramma è stato consegnato alla storia come la più grande ferita dell’umanità contemporanea. Si pensi alla forza rappresentativa delle immagini del cancello di ingresso a Auschwitz-Birkenau e alla scritta “Arbeit Macht Frei – Il lavoro rende liberi” che dei campi di concentramento era il beffardo benvenuto ai deportati. O a quelle dei cumuli di corpi senza vita, emaciati e smunti, ammassati ai bordi dei campi di sterminio e sepolti sotto un sottile strato di neve e ghiaccio. O ancora a quella dei binari gelati che si perdono nella coltre di nebbia oltre il cancello di un campo di concentramento. Immagini iconiche che abbiamo visto migliaia di volte e che comunque riescono sempre ad evocare sentimenti forti, sensazioni asfissianti.
Proprio per l’elevato numero di scatti (si stima siano oltre 2 milioni) capaci di raccontare quell’orrore, è complicato scegliere un punto di vista unico e specifico quando si pensa alle fotografie scattate durante il periodo della deportazione e dell’uccisione di milioni di ebrei innocenti perché rischia di lasciar fuori elementi narrativi determinanti. Gli album ricostruiti con gli scatti prodotti dal regime nazista, quelli degli Alleati al momento della liberazione o addirittura quelli degli stessi prigionieri sono in grado di fornire una documentazione ampia che supera il confine dello spazio e del tempo. E solo dalla loro consultazione congiunta è possibile ottenere un quadro completo.
Una chiave di lettura differente, ma allo stesso tempo esaustiva e capace di calare l’osservatore nel clima gelido di morte che si respirava nei campi di concentramento può essere cercata in scatti realizzati negli anni successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Una chiave di lettura del genere l’ha offerta Simcha Shirman, artista, fotografo, nonché poeta e filosofo delle immagini. La sua figura è particolarmente significativa perché si tratta di un artista ebreo nato in Germania proprio all’indomani della fine della Guerra, nel 1947, da genitori entrambi sopravvissuti alla Shoah. Già questa condizione lo pone, di per sé, in una posizione singolare.
Ed è altrettanto singolare il suo modo di raccontare l’Olocausto dal momento che per la rappresentazione dei luoghi dell’orrore ha scelto di privarli di ogni forma estetizzante, di ogni fronzolo, riducendo all’essenza l’immagine e quindi ciò che ne traspare per arrivare a riprodurre, a distanza di anni, le sensazioni di vuoto, di nulla, di solitudine, emarginazione e paura provate dai suoi genitori e dai milioni di ebrei uccisi nell’Europa delle leggi razziali e della deportazione di innocenti.
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Nato a Catanzaro nel 1984, è giornalista, fotografo e consulente di comunicazione. Attualmente collabora con Gazzetta del Sud e dirige il magazine della Camera di Commercio di Catanzaro CalabriaFocus.it. Nella sua fotografia ha introdotto gli elementi della professione giornalistica concentrandosi sul reportage (anche nelle cerimonie) e sulla narrazione per immagini della realtà. Alcuni suoi reportage sulla baraccopoli di Rosarno sono stati pubblicati dal Corriere della Sera.
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