Nira Burstein è piccola di statura, ha occhi grandi e intensi e dimostra meno dei suoi 38 anni. Vederla dal vivo, dopo aver visto il suo film, stupisce ed allo stesso tempo rassicura. Perché per 76 minuti – la durata del primo documentario lungometraggio di questa regista Newyorkese- noi siamo stati lei. Nira in video non appare mai, e pochissime sono le interazioni tra la realtà che rappresenta e lei che riprende, eppure la sua telecamera è, forse, il personaggio più significativo del film.
Charm Circle è la zona del Queens dove la famiglia di Nira abita e dove lei è cresciuta. Ricorda un’infanzia felice, andata lentamente alla deriva, come testimoniano i filmini di famiglia che costruiscono parte del documentario finale.
La casa è naturalmente il nucleo centrale, il luogo e simbolo delle dinamiche famigliari che si snodano, in modo progressivo e ripetitivo. Come la famiglia, anche la casa pian piano smette di funzionare, si sgretola, è soffocata dai problemi non affrontati, dai discorsi non fatti.
Circolare come il titolo è anche la struttura del film, che, procedendo per una serie di anelli concatenati, ci svela lentamente la storia dei suoi genitori, due promettenti musicisti di origine ebraica, pieni di sogni, che hanno smarrito progressivamente le loro coordinate esistenziali, finendo per rinunciare quasi del tutto al loro posto nel mondo, pur di aiutare la loro figlia maggiore affetta da problemi neuro-psichiatrici.
Nira, la figlia di mezzo, è andata via di casa molto giovane, a 18 anni. In seguito, le pesava tornare in quella casa problematica. Così un giorno ha deciso di portare con se la telecamera: con il tempo è diventato quello il suo modo di stare in famiglia. Le riprese per il documentario sono iniziate nel 2015 con il sostegno dei genitori e sono durate per 6 anni. In qualche modo, il film ha dato l’opportunità a tutti i membri della famiglia di essere visti, di dare voce a questioni mai discusse prima, in una forma di spontanea videoterapia.
Puntando la sua Black Magic su casa, genitori e sorelle abbandonati all’incuria, Nira ci conduce poco per volta a scoprire le cause di una discesa nelle stanze oscure di un fitto malessere esistenziale. Con un gioco straordinario di punti di vista, in modo estremamente efficace, in Charm Circle la telecamera di Nira, Nira stessa, e noi, diventiamo un unico personaggio terzo, presente e assente, testimone e complice, e sfondiamo la quarta parete in modo naturale, senza quasi rendercene conto.
Il documentario è per Nira uno strumento di comprensione, di indagine vitale, lo usa per capire ed elaborare le dinamiche disfunzionali della famiglia e per riallacciare i rapporti con i suoi genitori e le sue sorelle. Noi spettatori proviamo, insieme alla regista, empatia, imbarazzo, solidarietà ma mai giudizio o vergogna. Partecipiamo del suo amore filiale e fraterno. Ridiamo e soffriamo con loro.
In modo intimo e catartico, dopo aver visto Charm Circle, ci sentiamo anche noi compresi, assolti, come lo sono tutti i protagonisti, che non possiamo fare a meno di amare. Questo è un film che non incasella i comportamenti o le problematiche altrui, con etichette, giudizi, o diagnosi. Insegna la tolleranza, la forma di amore più alto e incondizionato, quello che deriva dall’accettazione dell’altro. Come, in modo così squisitamente americano, farà il padre di Nira decidendo di partecipare al matrimonio poligamo della figlia minore.
Questo è infatti un film pieno di amore, che ci racconta quanto sia difficile aiutare le persone a cui si vuole bene, senza esserne travolti e perdere se stessi. Grazie allo sguardo senza fronzoli nè abbellimenti superflui con cui Nira osserva la sua realtà familiare, discretamente, senza giudizio ne conclusioni, noi usciamo da questa visione alleggeriti, purificati, consci che è bello essere come si è, anche se sregolati, e che si può restare uniti, pure essendo completamente fuori dagli schemi.
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