
Si può fotografare con un occhio. Non ne servono due. La realtà è tridimensionale, ma le foto sono a due dimensioni. A che servono due occhi se poi guardiamo la realtà solo con un occhio? Un occhio appoggiato al mirino, un occhio per valutare l’immagine, un occhio per inquadrare e esporre correttamente.
La foto, sul computer o stampata su carta, è bidimensionale, se la guardiamo con due occhi o con uno non cambia nulla. Eppure ogni giorno assistiamo al miracolo della fotografia, di splendide foto che sembrano finestre aperte sulla realtà e scene incredibilmente realistiche, cioè tridimensionali.
Come può avvenire tutto ciò? Come può un’immagine piatta assumere i volumi e le distanze della realtà?
Se non parliamo di fotografia stereo, che sfrutta la capacità del nostro cervello di fondere le due immagini provenienti dai due occhi, quindi leggermente distanziate tra loro (due diversi punti di vista), la tridimensionalità è solo un trucco, un’illusione. Ci illudiamo tutti i giorni di vedere quadri, disegni e fotografie tridimensionali, ma è solo un abile gioco di rappresentazione della realtà a rendere credibile l’inganno: basta osservare la storia della pittura per scoprire quando e come le immagini dei dipinti sono diventate tridimensionali. E’ il giorno in cui sono state create le ombre, le luci e le sfumature.
Un bambino disegna un cerchio su un foglio di carta, dice che è un pallone e noi lo “vediamo”, ma in realtà si tratta solo di un cerchio, non di una sfera. Il cerchio diventa sfera solo nel momento in cui ci viene detto: il cervello e la nostra fantasia mettono le informazioni che mancano. Aggiungendo anche un semplice tratteggio per simulare l’ombra, vediamo come il cerchio inizi immediatamente a diventare una sfera.

I pittori hanno creato sempre migliori giochi di luci, ombre e sfumature per ottenere il senso di tridimensionalità, in fotografia è lo stesso. A parte cercare soggetti con una buona luce e la giusta percentuale di luci e ombre, ci sono obiettivi che sono maggiormente in grado di restituire il senso di tridimensionalità. Una volta era un vanto della scuola tedesca rispetto a quella giapponese e, in effetti, le foto scattate con un obiettivo tedesco avevano “quel certo non so che”, quella grande tridimensionalità che mancava nelle pur nitidissime foto scattate con gli obiettivi giapponesi.
Oggi le cose sono cambiate e, nonostante sia sempre stato un sostenitore della scuola tedesca, le differenze non sono più così eclatanti: le ottiche tedesche sono diventate più giapponesi e le ottiche giapponesi sono diventate più tedesche, parole come “bokeh” sono diventate di uso comune rispetto a poche decine di anni fa.

Già, il bokeh, ovvero il contributo dello sfocato: una volta sembrava che solo Zeiss e Leica se ne interessassero, motivo per cui la loro resa era unica e contava molto il talento (non solo la bravura tecnica) degli ingegneri che progettavano le ottiche e facevano infiniti prototipi per vederne la resa sul campo – tanto tempo e costi elevati – mentre ora, con la progettazione al computer è diventato tutto più facile, veloce e, soprattutto, economico. La maggior parte delle ottiche di recente progettazione riesce a coniugare nitidezza con tridimensionalità e contributo dello sfocato.

Ed i nostalgici di una certa età che avevano goduto la magia delle immagini stereo “per tutti” nei primi anni Quaranta? Fu la rivoluzione a prova di bambino: prima esistevano alcune fotocamere stereo costose, dei giocattoli per adulti, ma Viewmaster cambiò le carte in tavola: un economico visore in plastica e dei dischetti con immagini da osservare coi due occhi (da qui l’effetto stereo). Panorami, serie televisive, cartoni animati, tutti con la magia della visione stereo ed infiniti pomeriggi passati con gli amici a guardare ripetutamente le stesse immagini. Eppure ogni volta era un “WOW!” di meraviglia e, quando qualcuno arrivava con un nuovo dischetto, diventava il leader del gruppo per almeno una settimana… o fino al nuovo dischetto portato da qualcun altro!
Rino Giardiello © 05/2021
Riproduzione Riservata
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