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Victor Burgin – Linguaggio e percezione nei “Miti d’Oggi”

di Martina Elizabeth Di Carlo

Quel che fa l’arte è smantellare i codici di comunicazione esistenti e ricombinare alcuni dei loro elementi in strutture che possono essere utilizzate per generare nuove immagini del mondo.” (Victor Burgin)

Victor Burgin (Sheffield, Inghilterra, 1941) artista e autore di saggi sulla fotografia e sulla teoria dell’arte, analizza e decodifica la natura dell’immagine, cercando di indagare e mettere in discussione i modelli dominanti della rappresentazione ed evidenziando la necessità di interrogare le ideologie che occupano quello spazio incerto tra testo e immagine.

Il suo lavoro è un tentativo di rendere l’arte occasione di interpretazione e non oggetto di consumo, di produrre invece di consumare significati, incoraggiando un impegno critico verso questioni come il ruolo dell’inconscio nello sguardo, il gender, la sessualità, le disuguaglianze, la città moderna, la famiglia, il linguaggio come qualcosa che ci forma e ci riforma, il potere delle immagini, la rappresentazione, la memoria, la storia, il linguaggio dei mass media e il ruolo che hanno questi ultimi nel creare o controllare produzione di significato. Analizzare, trovare, decostruire quelli che Barthes chiama “Miti d’oggi”. Le mitologie della contemporaneità secondo Barthes hanno uno scopo ben preciso, cioè far pensare che lo stato delle cose, della modernità, di com’è il mondo, delle strutture di classe, delle ideologie, delle abitudini, sia il loro modo naturale di essere. È infatti una mistificazione che impedisce di vedere diversamente o di mettere in discussione il modo in cui si guarda il mondo. Ciò che crea il mito è un sistema di comunicazione, un messaggio che viene mandato, implicito o esplicito; è una forma, un modello di significazione. Il mito non viene definito dall’oggetto del suo messaggio (perché qualsiasi materia può essere arbitrariamente dotata di significato) ma dal modo in cui questo messaggio viene proferito. «Il mito è una parola scelta dalla storia: il mito non può sorgere dalla “natura” delle cose» (R. Barthes, Miti d’oggi). Questa parola può essere costituita da scritture o da rappresentazioni: il discorso scritto, la fotografia, il cinema, lo sport, gli spettacoli, la pubblicità possono servire da supporto alla parola mitica. Barthes analizza soggetti diversi come il wrestling, i film, le macchine, ricercando i simboli codificati e profondamente criptati nella contemporaneità: smaschera così le ideologie nascoste e i significati che implicitamente modellano il comportamento e il pensiero umani. Burgin lavora in maniera simile, nel tentativo di demistificare le “immagini teatrali” della contemporaneità. L’analisi sviluppa sensi plurimi, lavora sulle illusioni di verità, sulla produzione di ideologia, sulle strategie della persuasione. Ciò che in questo senso porta a mettere in dialogo Burgin e il Barthes di Miti d’Oggi è l’insofferenza per entrambi gli autori alla “naturalità” di cui la stampa, il senso comune rivestono la realtà. L’insofferenza nel vedere come Natura e Storia vengono spesso confuse. L’obiettivo della loro scrittura, della loro riflessione è ritrovare nell’ovvio l’abuso ideologico che vi si nasconde. Vivisezionando, ritagliando, riproducendo una certa postura brechtiana che isola un elemento dal proprio contesto originario, posandolo a distanza e rendendolo «spoglio di ciò che gli sta dietro e di ciò che lo circonda». «Adoro apporre delle didascalie alle immagini» (R. Barthes, L’arte questa vecchia cosa, in Id., L’ovvio e l’ottuso), scrive Barthes in riferimento a queste operazioni.

In UK 76 Burgin riproduce il rapporto familiare fra testo- immagine che siamo abituati a trovare nelle riviste, esaminando la relazione tra significato implicito ed esplicito tipica del linguaggio pubblicitario. Testi e immagini evidenziano il contrasto tra la vita quotidiana e i desideri e sogni creati mass media, a volte riproducendo quel tono giornalistico che si sforza di nascondere i propri pregiudizi attraverso l’apparente obiettività, oppure con tono provocatorio o poetico. Il lavoro consiste in 11 fotografie in stile documentaristico-sociale della Gran Bretagna. Le immagini stampate in grande formato e incollate direttamente sulla parete della galleria, vengono poi raschiate via, come pubblicità, alla fine della mostra.

L’atto stesso di fotografare diventa così un atto di appropriazione, che restituisce gli sguardi che la pubblicità ci punta addosso, atto anche violento o di vendetta verso questi poster e tabelloni che costringono ad alzare gli occhi, quasi in un gesto di obbedienza visiva.

Framed (1979)

Burgin qui gioca con i significati, i rimandi, le inferenze linguistiche. Normalmente, in rapporto all’immagine, i testi che siamo abituati a trovare sono quelli usati come commento, ad esempio quando contengono informazioni aggiuntive rispetto a quello che ci viene mostrato. Oppure, spesso, troviamo l’immagine che illustra un testo. Burgin non utilizza queste due modalità ma scava nell’implicito e nelle inferenze del testo e dell’immagine: la parola chiave dell’opera, cioè “Framed, viene da lui usata per riferirsi a una serie di frame letterali e visuali. Il frame del pannello stesso, il frame del poster Marlboro, il frame della fotografia descritta nel testo, il frame dello specchio in cui la donna si guarda. In secondo luogo, dice Burgin, la parola ‘framed’, nel linguaggio gangster o in film western, significa interpretare qualcuno in maniera errata. Il personaggio buono viene normalmente “framed” dai cattivi. L’idea di venire incastrati, di attribuire a qualcuno una certa immagine contro la sua volontà può quindi anche riferirsi agli stereotipi che alcune parole, considerate come opposte l’una dell’altra nel nostro linguaggio, inferiscono in maniera implicita: ad esempio giovane donna/donna di mezza età. Possiamo andare ancora oltre con questa lettura: il cowboy nel poster sta fumando una sigaretta e lo slang per sigaretta in alcune zone dell’Inghilterra è ‘fag’, che è anche un termine dispregiativo per riferirsi a uomini gay. E ancora, sotto il poster vediamo una “bag”, che è anche il termine usato come insulto sessista per descrivere una donna non più giovane (Between, Mack (2020). Questo tipo di letteralizzazione degli elementi nell’inconscio di un’immagine contribuisce a consolidare determinati significati e determinate visioni del mondo.

Patriarchitecture

L’opera Patriarchitecture appartiene alla serie di foto US 77, scattate durante il soggiorno di Burgin negli Stati Uniti tra il 1976 e il 1977 e che l’artista stesso descrive come un “road movie”. Qui vengono mostrate la vita e la cultura americana degli anni ’70. Il testo e la fotografia si completano a vicenda o sono a in netto contrasto. “Patriarchitettura” riflette sulla feticizzazione delle donne come oggetti di fantasie maschili e sull’immagine stereotipata della femminilità nei media. L’uso del corpo femminile come oggetto diventa un punto di partenza per riflettere su questioni ancora più ampie come il sessismo, la violenza domestica e l’abuso sessuale. Lo stile delle immagini ricorda riviste patinate e manifesti pubblicitari con i loro personaggi seducenti e stereotipati. Ma l’immagine è decentrata e nel frame è incluso un paesaggio desolato dietro il tabellone. Mostrare tali elementi significa mostrare l’artificio, in questo caso quello dell’umanità. Di conseguenza, ciò che è presente diventa tanto interessante quanto ciò che è assente. Si creano significati ma si mostra anche come tali significati vengono creati. Nel momento in cui vengono resi visibili il “ritaglio”, gli artifici, qualcosa può succedere in quello spazio. L’interruzione disturba la coerenza e crea distacco, momento di riflessione.

Burgin cerca di avvicinarsi e avvicinarci alla domanda “In quale misura lo sguardo codificato maschile dell’oppressione sessuale è l’archetipo di tutti i discorsi oppressivi? Come si ramifica l’oppressione nella società?”

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