«Quando sono intenti a esaminare un uomo, gli occhi di un animale sono vigili e diffidenti. Quel medesimo animale può benissimo guardare nello stesso modo un’altra specie. Non riserva uno sguardo speciale all’uomo. Ma nessun’altra specie, a eccezione dell’uomo, riconoscerà come familiare lo sguardo dell’animale. Gli altri animali sono tenuti a distanza da quello sguardo. L’uomo diventa consapevole di sé stesso nel ricambiarlo.»
In Why Look at Animals?, saggio compreso in About Looking (1980), una raccolta di scritti sulla vita, l’arte e il modo in cui vediamo il mondo attorno a noi, John Berger esamina l’evoluzione del nostro rapporto con gli animali, analizza il modo in cui li pensiamo in epoca moderna, e come sono passati da essere fonte di ispirazione per le primissime forme d’arte, divinità e elementi spirituali a forme di spettacolo in cattività. L’assenza di contatto con gli animali viene paradossalmente compensata da istituzioni come zoo, circhi, riserve naturali. I giocattoli per bambini, i film d’animazione e giochi che riproducono immagini della natura non fanno che esasperare la nostalgia di una reale interazione con gli animali, che vengono tenuti dall’uomo in ambienti innaturali, castrati, nutriti con cibi artificiali, limitati nello spazio. Il concetto che Berger affronta è la loro crescente marginalizzazione; le creature in gabbia sono diventate “il monumento vivente alla propria scomparsa”. Reprimere gli animali e allo stesso tempo usare le loro immagini, scrive Berger, non è altro che il capitalismo che riproduce le vecchie pratiche coloniali europee. Il vedere si lega a forme di sorveglianza e controllo e il guardare gli animali diventa un’osservazione fatale, la causa della loro estinzione.
«Lo zoo non può che deludere. Il suo scopo pubblico è dare ai visitatori l’opportunità di guardare gli animali. Eppure, in uno zoo, il visitatore non incontrerà mai lo sguardo di un animale. Al massimo, quello sguardo è un lampo passeggero. Gli animali guardano obliquamente. Guardano ciecamente al di là. Scrutano meccanicamente. Sono stati immunizzati dall’incontro perché nulla può più occupare un luogo centrale nella loro attenzione. È questa la conseguenza estrema della loro marginalizzazione. Quello sguardo fra animale e uomo, che potrebbe aver giocato un ruolo cruciale nello sviluppo della società umana e con il quale, in ogni caso, tutti gli uomini hanno convissuto fino a meno di un secolo fa, si è estinto. Quando guarda gli animali dello zoo, il visitatore non accompagnato è solo. Quanto alle folle, esse appartengono a una specie che alla fine è stata isolata. Per la cultura del capitalismo si tratta di una perdita storica ormai irreparabile: i giardini zoologici ne sono il monumento.»
Guardare un animale nello zoo è guardare un essere che è stato reso completamente marginale. Anche impiegando tutta la concentrazione possibile, non si riuscirà a ridargli centralità. L’animale tenderà sempre a mettersi ai margini del suo spazio (oltre forse vi è spazio vero) e il suo istinto di sopravvivenza, è diventato attesa passiva di una serie di interventi arbitrari dall’esterno.
In passato le relazioni uomo-animale erano più integrate e l’Iliade è uno dei testi più antichi dove l’uso della metafora riflette la prossimità uomo-animale. Omero descrive la morte di un soldato sul campo di battaglia e poi la morte di un cavallo. Ciò che distingueva l’uomo dagli animali nasceva dalla relazione con loro.
«Non è irragionevole supporre che la prima metafora fosse animale. Rousseau, nel suo Saggio sull’origine delle lingue, sosteneva che la metafora è all’origine stessa del linguaggio: «Come le emozioni furono i primi motivi che indussero l’uomo a parlare, le sue prime espressioni furono dei tropi (metafore). Il linguaggio figurato fu il primo a nascere, i significati propri furono trovati per ultimi».
Se la prima metafora fu animale, fu perché la relazione fondamentale fra uomo e animale era metaforica. All’interno di quella relazione, ciò che i due termini – uomo e animale – avevano in comune rivelava ciò che li differenziava. E viceversa. […] Quel che stiamo cercando di stabilire, visto che l’esperienza si è quasi perduta, è l’uso universale dei segni animali per tracciare la mappa dell’esperienza del mondo. In otto segni zodiacali su dodici comparivano degli animali. I greci rappresentavano ognuna delle dodici ore del giorno con un animale. (La prima con un gatto, l’ultima con un coccodrillo.) Gli indù pensavano che un elefante reggesse la terra sul dorso e che una tartaruga sostenesse l’elefante. Gli esempi sono infiniti. Ovunque gli animali offrivano spiegazioni o, più precisamente, prestavano il proprio nome o il proprio carattere a una qualità che, come tutte le qualità, era, nella sua essenza, misteriosa.»
Se gli animali sono passati dalle caverne, ai carri, alle gabbie, rimuovere gli animali dal nostro sguardo, rileva Berger è stato dannoso per il nostro senso di realtà. Oggi gli animali e il mondo naturale sono diventati quasi una presenza fantasma nelle nostre vite. La domanda da porsi rimane dunque nel titolo: Why? Look at animals.
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