«Ma la lingua non sarà mai linguaggio»
JL Godard, Le livre d’image (2018)
Jean-Luc Godard ha sfidato i limiti estetici e narrativi del cinema, infrangendo e mettendo in discussione le regole classiche di quest’arte.
Insieme a Éric Rohmer, Jacques Rivette e François Truffaut, è stato una figura centrale della Nouvelle Vague, il movimento cinematografico sperimentale emerso in Francia alla fine degli anni ’50.
Il modo di fare cinema di Godard è una riflessione continua sul mezzo, sul linguaggio e sulla società. Il pubblico diventa parte attiva del processo interpretativo e viene coinvolto in questi momenti di riflessione, brechtianamente innescati attraverso l’interruzione del flusso filmico: fotografie (spesso prese dalla pubblicità), frasi che compaiono sullo schermo, citazioni, sguardi in macchina, parole rivolte agli spettatori, improvvisazioni, giochi etimologici e linguistici diventano espedienti attraverso i quali allontanare l’immedesimazione e muovere chi guarda verso l’analisi e la creazione di significati plurimi.
«Il tempo dell’azione è finito, quello della riflessione comincia». Le petit soldat (1961)
Il primo lungometraggio di Godard è stato À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro), uscito nel 1960, prodotto da François Truffaut e interpretato da Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo. Trae spunto dai film noir americani degli anni ’40 e ’50, per poi rielaborarli in maniera sperimentale utilizzando tecniche rivoluzionarie per l’epoca: riprese a mano libera, illuminazione naturale, monologhi in camera e jump cuts.
À bout de souffle diventa il manifesto della Nouvelle Vague, insieme a I 400 colpi di Truffaut.
Le Mépris (1963)
Tratto dall’omonimo romanzo Il disprezzo del 1954 di Alberto Moravia, il film è superficialmente strutturato come la cronaca del matrimonio in disgregazione dei protagonisti Camille Javal (Brigitte Bardot) e Paul Javal (Michel Piccoli). È una trasposizione sovversiva dell’Odissea di Omero attraverso la quale Godard commenta la molteplicità delle nevrosi della società moderna, l’immagine e il suo senso e i miti della società capitalistica. Mette in scena un fallimento collettivo, privato, politico e culturale.
Bande à Part (1964)
Godard ha definito questo film come «Alice nel Paese delle Meraviglie incontra Franz Kafka», in un particolare dialogo tra fantasia e realtà. Come in Kafka, i personaggi si sentono impotenti e alienati dalla frenetica società che li schiaccia. I tre personaggi romantici di Godard devono ricorrere all’immaginazione per sentirsi padroni della realtà. Pianificano così una rapina ispirata ai loro film preferiti di gangster americani e ai romanzi pulp, ma dovranno fare i conti con le conseguenze fin troppo reali. Anche in questo film il romanticismo dei personaggi e l’identificazione dello spettatore vengono messe alla prova. Il narratore interrompe il flusso filmico e dice: «Ora è arrivato il momento di una digressione in cui descrivere i sentimenti dei nostri eroi». Godard immerge gli spettatori in un sogno romantico e poi li sveglia.
Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution (1965)
Una miscela di fantascienza e discorso filosofico con i protagonisti interpretati da Eddie Constantine e Anna Karina. Una riflessione sulla logica, il libero arbitrio e il linguaggio. Alphaville è una città disumanizzata, a pochi anni luce dalla Terra e qui va in missione l’agente segreto Lemmy Caution. Deve trovare una persona scomparsa e liberare la città dal tirannico computer Alpha 60, che impone dei limiti sul linguaggio. Un dizionario presente in ogni stanza d’albergo viene costantemente aggiornato, man mano che parole che esprimono la complessità dei sentimenti umani vengono bandite. Tutto ciò di cui non si può parlare, ovvero parlare di etica, amore, poesia, estetica, emozioni, è punibile con la morte. Quando Lemmy afferma la sua libertà, Alpha 60 risponde che la sua risposta non ha senso. Il film si apre con la citazione di Borges: «A volte la realtà è troppo complessa per la comunicazione orale. Ma la leggenda la incarna in una forma che gli consente di diffondersi in tutto il mondo».
Spesso i testi dei film di Godard sono composti da una serie di “altri testi” e citazioni: film, classici della letteratura, fumetti, saggi di filosofia. E anche il linguaggio è sempre stato un tema centrale per il regista: basta pensare a quanto sono importanti anche solo il testo scritto e la tipografia in ogni suo film; diventano questi dei mezzi per far emergere i rapporti paradossali di testo e immagine. E anche riflessioni sulla filosofia del linguaggio, come in Vivre sa vie (1962), dove Anna Karina interpreta un personaggio che vuole vivere in un mondo senza parole ma si confronta con la necessità del linguaggio. In 2 ou 3 choses que je sais d’elle(1967), la protagonista, citando Ludwig Wittgenstein, descrive il linguaggio come «la casa in cui vive l’uomo». In uno dei suoi film più recenti, Adieu au Language (2014) Godard riflette sulla discrasia fra mondo e linguaggio, sui limiti della comunicazione. Queste riflessioni sul linguaggio scritto, parlato, cinematografico sono un tentativo di liberarsi dai vincoli stessi del linguaggio, di avvicinare a complessità della realtà all’arte.
MASCULIN FÉMININ (1966)
Notoriamente, una delle didascalie di questo film recita: «Questo film potrebbe chiamarsi Les enfants de Marx et du coca-cola».
L’icona della Nouvelle Vague francese Jean-Pierre Léaud interpreta Paul, un intellettuale idealista innamorato della pop star Madeleine (Chantal Goya).
Ispirato a due racconti di Guy de Maupassant, il film è un tentativo di esplorare le vite e gli atteggiamenti dei giovani. «Ho scelto i giovani perché non so più dove mi trovo dal punto di vista del cinema. Sono alla ricerca del cinema. Ho la sensazione di averlo perso. Chiacchierare con i giovani per ritrovare me stesso era più facile che farlo con gli adulti, perché gli adulti hanno troppi problemi personali e per andare a fondo c’è un’immensa mole di lavoro che non si esaurirebbe in un film… Questo film è quindi una necessità di parlare con persone più aperte. Che hanno la vita davanti».
Il film è costruito senza copione, proprio per riflettere nella maniera più immediata possibile l’intento del regista. È quasi costruito dagli attori stessi, che improvvisano e parlano tra loro come se non ci fosse una telecamera nella stanza. Le scene si dispiegano a volte in dialoghi, a volte con riflessioni del regista stesso, in un costante meccanismo di stravolgimento delle aspettative del pubblico.
Il cinema di Godard ha ispirato non solo registi europei e americani, ma anche la cinematografia emergente dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia. È un artista che ha costantemente cercato di sfidare il pubblico, sempre alla ricerca di nuovi mezzi espressivi, pur rimanendo centrato e mosso dalle proprie ossessioni. La sua filmografia di oltre settanta opere-capolavori è parte della storia del cinema e continuerà a contribuire alla sua evoluzione.
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