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Mario Giacomelli

di Paolo Ranzani

Ecco uno di quei miti della fotografia che mi sarebbe piaciuto conoscere!

Me ne hanno parlato in tutte le salse, ognuno con il proprio sentire, con la propria esperienza ma tutti d’accordo nel dichiarare che era un visionario, un uomo imprevedibile sempre alla ricerca di qualcosa con cui interagire.
Per coloro che non lo conoscessero ancora vi invito a immergervi nella ricerca su tutto ciò che lo riguarda e che potete trovare sul web.

Intanto vi offro qualche suggestione.

Mario Giacomelli nasce il 1° agosto 1925 a Senigallia in una famiglia poverissima. A nove anni resta orfano di suo padre. La madre, lavandaia presso l’ospizio di Senigallia, fatica a mantenere i tre figli ancora piccoli. Mario era il più grande. A tredici anni diventa garzone presso la Tipografia Giunchedi dove resterà fino all’arrivo della guerra. Vi ritorna dopo aver partecipato ai lavori di ricostruzione dai bombardamenti post bellum, stavolta come operaio tipografo. Nel 1950 decide di aprire una tipografia tutta sua. A permettergli il gran passo, prestandogli tutti i suoi risparmi, sarà un’anziana dell’ospizio in cui la madre lavorava.
Nasce così la Tipografia Marchigiana via Mastai 5, che diverrà, negli anni, luogo di “peregrinaggio” da parte di artisti, critici, studiosi e appassionati di tutto il mondo. Nello stesso periodo comincia a dipingere, si appassiona di corse motociclistiche e scrive poesie.

Nel 1954 acquista la sua prima macchina fotografica e partecipa a numerosi concorsi fotografici in Italia. Dopo aver completato la sua prima serie “Vita d’ospizio”, comincia una serie di nudi femminili e maschili che abbandona negli anni sessanta. Assalito da un’ansia investigativa sulla sua identità di narratore, Giacomelli inizia a viaggiare, ma sono solo delle escursioni in altri mondi e in altri modi di vivere più che dei veri e propri viaggi, che lo riportano alla sua infanzia e condizione sociale. Nella primavera del 1957 si reca a Scanno, un villaggio dell’Italia centrale che aveva affascinato anche Cartier-Bresson, dove Giacomelli produce capolavori quali “Il ragazzo di Scanno”.  Questa immagine piena di magia è sempre stata avvolta da un’aura di mistero riguardante la sua storia e le modalità con cui è stata scattata. A distanza di sessant’anni Simona Guerra, nipote del fotografo, è tornata sulle tracce del Bambino e ha raccontato il suo viaggio attorno a questa fotografia, nei luoghi dello scatto, fra la gente e i vicoli di Scanno. Il volume è corredato da materiali inediti come immagini, provini, lettere e documenti d’archivio per la prima volta visibili al pubblico. Tra i fac-simili allegati in una busta applicata in quarta di copertina anche la lettera del 30 ottobre 1964 con cui Pietro Racanicchi comunicava a Giacomelli che la sua foto “Scanno” era stata selezionata ed accettata per la grande mostra The Photographer’s Eye curata da John Szarkowski al Moma di New York.

Negli anni sessanta, Giacomelli lavora al progetto “Non ho mani che mi accarezzino il volto”, universalmente conosciuto come la serie dei “Pretini”, un gruppo di immagini realizzate nel seminario di Senigallia, presentate da Ferrania per la prima volta nell’edizione di Photokina di Colonia.
I protagonisti erano giovani seminaristi. Il fotografo aveva chiesto e ottenuto, non senza difficoltà, di poter trascorrere un anno con loro. Voleva mostrare come vivevano i ragazzi in un luogo chiuso, lontano dalle attrattive del mondo esterno, affrontando tante rinunce. «Non c’era da stupirsi: papà — ci racconta il figlio Simone — era un tragico. Tuttavia  le foto che scattava non lo soddisfacevano. Ma un giorno una nevicata cambiò tutto. Vide i ragazzi giocare felici con la neve. In quell’immagine colse quella realtà  in un modo diverso da come l’immaginava. Comprese che ci si può realizzare credendo fortemente in qualcosa, anche a costo di rinunce. Per lui, che si confrontava quotidianamente con un mondo in cui stava perdendo fiducia, fu un sollievo».

 Così, pur non rispondendo a pieno alle sue aspettative, le foto dei “pretini” costituiscono uno dei lavori più importanti dell’opera di Giacomelli.
La serie “Pretini” venne esposta anche al Metropolitan Museum e a Bruxelles, negli anni settanta Giacomelli approfondisce la sua ricerca sulla natura, con i primi scatti aerei di paesaggi, con un’incursione nel colore. Dalla fine degli anni settanta, caratterizzati da un sempre crescente legame tra fotografia, arte astratta e poesia, Giacomelli attraversa un periodo di analisi e approfondimento della propria attività artistica.

Apprezzato da critica e pubblico, Giacomelli per tutta la vita ha continuato a definirsi un tipografo (maggiore di tre fratelli, orfano di padre, aveva iniziato tredicenne a lavorare alla Tipografia Marchigiana). Ma per molti resta il più grande fotografo italiano del Novecento, di quell’Italia perennemente in bianco e nero, della dura rinascita dalla guerra, delle scarpe risuolate e i vestiti rivoltati, della brillantina tra i capelli e delle sigarette fatte con i mozziconi raccolti da terra, che si ritrovava la domenica mattina in chiesa, a casa per il pranzo rigorosamente in famiglia e il pomeriggio al bar, incollata alla radiolina per l’immancabile rito della partita di calcio. Un maestro capace di raccontare l’essenziale e la complessità della vita in un semplice scatto, di fermarsi a guardare l’altro e di riconoscervi una parte di sé. E che nella sua parabola artistica ha cercato di rispondere a quanto scrisse nel 1967: «Trovi la speranza dove c’è il dolore e quella che par gioia lascia la bocca amara. Forse la vita vera è là, dove il dolore di ognuno è tanto grande che non basta la vita del mondo a viverlo tutto».

Mario Giacomelli muore il 25 novembre del 2000.

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