Si chiama Adolfo Porry-Pastorel ed è ricordato come l’inventore del fotogiornalismo italiano nonché antesignano dei “paparazzi”, sapeva farsi trovare sempre nel posto giusto al momento giusto.
Nato vicino a Treviso da una famiglia cosmopolita (nonno francese, nonna inglese) si trasferisce a Roma ed è il direttore de Il Messaggero, Ottorino Raimondi, che lo indirizza verso esperienze tipografiche tenendolo in sede e poi lo ingaggia come giornalista e fotografo nel nuovo giornale “VITA” e poi ne “Il Giornale d’Italia”.
Fin dall’inizio i suoi articoli si distinguono, oltre che per l’arguzia della penna, anche per l’originalità delle sue foto. Aveva sempre quel qualcosa in più, fuori dai consueti schemi.Con i reportage illustrati ha raccontato la storia del Paese in ben nove milioni di di fotografie, così viene riportato dalla fondazione che gestisce il suo archivio, e lo ha fatto trovando quell’angolazione anticonvenzionale che rappresentava il suo originale carattere.
Una delle sue caratteristiche fu proprio quella di essere un folle sperimentatore di tecniche di stampa e trasmissione delle immagini, di stratagemmi infiniti per procacciarsi eventi e scoop.
Nelle varie biografie su Pastorel viene spesso ricordato come “Il fotografo di Mussolini” ma anche un fotografo scomodo al regime. Con la sua intraprendenza ha avuto accesso alle stanze più segrete del potere e più di una volta è stato segnalato dalla censura fascista.
Le celebri fotografie del Duce ritratto mentre trebbia il grano, mentre prende in braccio la piccola orfana di un legionario caduto nella guerra di Spagna, gli scatti sulla raccolta del ferro alla patria, una enorme serie di immagini dove da fotoreporter diventa allestitore di scene, prepara il set, decide la posizione, spiega la posa, esattamente come un regista di cinema.
La fotografia che Mussolini non gli ha mai perdonato, durante un convegno a favore della guerra Mussolini venne arrestato a piazza Barberini.
Senza molti “inchini” fotografa la marcia su Roma e il raduno fascista di Napoli e mostra lo squadrismo nel suo esibizionismo eclettico, grottesco e minaccioso. Inquadra i volti dei gerarchi e dei gregari, ma anche le violenze contro i giornali e le sedi degli avversari. Indaga sull’episodio più eclatante di tutti: l’assassinio di Giacomo Matteotti e pubblica fotografie anonime dei gerarchi ritenuti mandanti.
Questa vicinanza ma con sberleffo viene evidenziata da un scambio di battute, divenuto ormai famoso, tra i due: «Sempre il solito fotografo» disse il Duce… «Sempre il solito presidente del Consiglio» replicò Porry-Pastorel.
Con questo modus operandi ha raccontato grandi eventi storici e politici di quell’epoca ma anche la leggerezza del tempo libero e le nuove abitudini degli italiani. Nel 1908 a soli 20 anni fonda la sua agenzia, dal nome rivelatore:
VEDO: Visioni Editoriali Diffuse Ovunque”
Acronimo a cui faceva seguire:
«Telefonare subito 16 66 – fotografa tutto ovunque» scritto e stampato su locandine e anche su gadget, come specchietti per donna, e orologi da taschino regalati a vigili urbani con la raccomandazione di segnalargli situazioni allettanti da raccontare.
Tra le invenzioni, anzi, innovazioni, che ha ideato, si racconta di aver lavorato ad un’apertura posteriore della sua Leica per facilitare e velocizzare l’inserimento della pellicola e poi fa montare su un furgoncino tutta l’attrezzatura per lo sviluppo immediato dei negativi. E non finisce qui. E’ stato il primo a inviare le immagini attraverso la telefotografia, utilizzando le linee del telegrafo e del telefono.
Ed è nel corso della Grande Guerra che Porry-Pastorel impara a servirsi dei piccioni viaggiatori per l’invio dei negativi e di notizie. Una tecnica antichissima, tornata in uso anche fra i soldati del 1915-18 per la spedizione dalla prima linea alle retrovie, e che gli consentì di inserire i negativi all’interno di piccoli astucci fissati ai volatili.
Memorabile resta il servizio fotografico del 5 maggio 1938 quando Porry-Pastorel lasciò di stucco i due leader Mussolini e Hitler, a bordo della corazzata Cavour. Le cose andarono più o meno così: erano in mare aperto e oltre all’attrezzatura portatile per lo sviluppo delle immagini, Adolfo decise di portare con sé, sulla nave, anche una coppia di piccioni viaggiatori, finite le fotografie importanti legò i rotoli dei negativi scattati e sviluppati in mezzo al mare alla zampe dei volatili che presero il volo verso Roma, lì vennero recuperati dalla moglie Franca che li recapitò alla redazione del quotidiano. La scena, immagino, fu impressionante per l’epoca, immaginate la faccia di Mussolini e Hitler che, sbarcati a Napoli qualche ora dopo, trovarono Il Giornale d’Italia con le foto dell’incontro in prima pagina.
Questa storia di vita incredibile ha un epilogo triste, il figlio Alberto, fotografo militare, perde la vita nella campagna di Russia.
Scrive il sociologo Enrico Menduni: «La sua passione per l‘immagine, che il figlio aveva condiviso, s’inaridisce e presto si estingue: quasi fosse la fotografia ad avergli tolto il figlio. Come se lo sguardo fotografico, troppo proteso a guardare oltre le convenzioni e le apparenze, fosse stato punito con la morte».
L’ormai ex fotoreporter — non fotografa quasi più anche se la sua agenzia prosegue l’attività — si ritira a Castel San Pietro Romano, di cui viene eletto sindaco. E come tale incontra nel 1953 Vittorio De Sica, proponendogli di girare nel suo paese Pane, amore e fantasia, il film che Luigi Comencini ha in preparazione. Proposta che viene accettata. E così lo sconosciuto, piccolo borgo si trasforma in un set cinematografico.
Muore a Roma il 1° aprile 1960 per un male incurabile, assistito fino all’ultimo dalla moglie Franca e dell’inseparabile nuora Adriana Coltellacci.
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Fotografo ritrattista. Venti anni di esperienza nella fotografia di “people” spaziando dal ritratto per celebrity, beauty, adv e mantenendo sempre uno sguardo al reportage sociale.
Ha coordinato il dipartimento di fotografia dell’Istituto Europeo di Design ed è docente di Educazione al linguaggio fotografico presso la Raffles School, Università di design di Milano.
Il suo portfolio comprende lavori autoriali e commerciali per FIAT, Iveco, Lavazza, Chicco, Oréal e la pubblicazione di quattro libri fotografici: “Ecce Femina” (2000), “99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 it/Universiadi 2007”.
Ha curato l’immagine per vari personaggi dello spettacolo, Arturo Brachetti, Luciana Littizzetto, Fernanda Lessa, Antonella Elia, Neja, Eiffel65, Marco Berry, Levante …
Negli ultimi anni ha spostato la sua creatività anche alle riprese video, sia come regista che come direttore della fotografia, uno dei suoi lavori più premiati è il videoclip “Alfonso” della cantautrice Levante (oltre otto milioni di visualizzazioni).
Ha diretto il dipartimento di fotografia dello IED di Torino ed è docente di “Educazione al linguaggio fotografico” presso la RM Moda e design di Milano.
Paolo Ranzani è referente artistico 4k in merito al progetto “TORINO MOSAICO” del collettivo “DeadPhotoWorking”, progetto scelto per inaugurare “Luci d’Artista” a Torino.
E’ stato nominato da Giovanni Gastel presidente AFIP Torino.
Nel 2019 il lavoro fotografico sul teatro in carcere è stato ospite di Matera Capitale della Cultura.
Pubblicati e mostre:
“Ecce Femina” (2000),
“99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 you/Universiadi 2007” ,
Premio 2005 per il ciack award fotografo di scena
Premio 2007 fotografia creativa TAU VISUAL
Premio 2009 come miglior fotografo creativo editoriale
Ideatore e organizzatore del concorso fotografico internazionale OPEN PICS per il Salone del Libro di Torino – 2004
Dal 2017 scrive “Ap/Punti di vista” una rubrica bimestrale di fotografia sul magazine Torinerò.
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