L’abilità del fotografo che racconta la disabilità.
Il fotografo spagnolo Joan Fontcuberta, nel volume “La furia delle immagini”, ha coniato l’espressione “homo fotograficus”, che riassume meglio di qualsiasi altro termine l’impatto sociale e culturale della fotografia nelle nostre vite: una bulimia delle immagini generata da quel bisogno impellente di raccontarsi, alimentato oggi dai social media.
In questa valanga di informazioni fotografiche mi emoziono quando trovo progetti fotografici che sembrano viaggiare ad un livello differente. Quando vedo delle fotografie e le percepisco meravigliosamente silenziose, magnificamente lente ma profondissime, finalmente immagini che si lasciamo osservare prendendosi del tempo, se poi accanto a me c’è l’autore che mi dà la voce fuori campo il tutto si trasforma in una esperienza catartica che desidero raccontare.
Questo è accaduto a Verona durante l’evento IHA – Italian Healt Award, una bellissima e intelligente manifestazione ideata dal dottor Pasquale D’Autilia, dove hanno trovato luogo incroci fantastici, arte, benessere, educazione alimentare, sport, disabilità e abilità del produrre pensieri importanti su cui tutta l’umanità dovrebbe riflettere.
Sono stato invitato anche io per realizzare ritratti in merito al progetto “TANTI PER RIDERE“, un’idea nata insieme a Jacopo Fo per trovare fondi a favore della clownterapia. E proprio nella sala dove stavo realizzando i ritratti ho avuto modo di conoscere GIACOMO ALBERTINI.
Ma non vi voglio anticipare troppo, ecco qui l’intervista che ne è nata guardando il lavoro presentato all’evento: “Whellchair hands” e chiedendo all’autore di raccontare tutto il suo lavoro fotografico, lavoro che ho intravisto sul suo sito e che vi consiglio di andare a vedere. www.giacomoalbertini.com
– Giacomo, ti va di raccontarmi di te mentre guardo i tuoi lavori e registro l’intervista?
Certo, mi fa davvero piacere e grazie. Allora, iniziamo dalla presentazione, mi chiamo Giacomo Albertini e sono nato nel 1973 a Verona, dove tuttora risiedo, sono sordo (mia madre si ammalò di rosolia quando era all’ottavo mese di gravidanza) e soffro di acalasia esofagea (malattia rara dell’esofago).
A undici anni seguendo le orme di mio padre ho iniziato ad appassionarmi alla fotografia usando la piccola macchina fotografica Ricoh, mi occupavo di fotografie paesaggistiche e architettoniche, ma da oltre 8 anni sono specializzato in fotografia sociale e lavoro soprattutto sul tema della disabilità e delle malattie rare.
– Il tuo approdo alla fotografia nasce dalle suggestioni di tuo padre ma poi come si è sviluppata verso il sociale?
Un giorno un conoscente mi fece una domanda magica: voleva sapere come sentiamo noi sordi. Da li mi venne l’idea di spiegare attraverso la fotografia che cos’è la sordità.
Nacque il primo reportage sui sordi che si intitola “Ti vedo, ti sento” lavoro che colpì la fotografa Letizia Battaglia e che mi consigliò di proseguire su questa strada.
In quel momento è iniziato tutto il percorso fotografico sul mondo dei sordi, che poi ho voluto ampliare a tutto il mondo della disabilità.
– Capisco, quindi questa è la radice di tutto ciò che vedo nei tuoi lavori, ora ti faccio una domanda che seppur leggermente diversa, feci proprio a Letizia Battaglia, a lei le chiesi il senso di fotografare la mafia, se poteva servire a qualcosa o meno, quindi chiedo anche a te, a cosa può essere utile, occuparsi di fotografia a tema disabilità?
Mi occupo di disabilità perché il mio scopo, il mio tentativo è di divulgare il mondo della disabilità e delle malattie rare per farle conoscere a chi non ne ha esperienza diretta.
Mi concentro molto sulla storia delle singole persone, perché penso che nella
vita tutto sia possibile e qualsiasi situazione difficile possa essere affrontata e
superata: chi meglio di un disabile lo può testimoniare?
Fotografare persone disabili e persone affette da malattie rare mi offre la
possibilità di dare loro la dignità che meritano: la mia diretta esperienza miaiuta a colmare le distanze tra l’ignoranza e la consapevolezza.
Ho imparato che nella vita tutto è possibile e che si possono superare i
problemi generati dai pregiudizi. Inoltre l’incontro con le persone con disabilitàmi ha fatto comprendere meglio il senso della vita.
Tuttora sto realizzando alcuni progetti a lungo termine, tra cui uno su una ragazza sorda con la sindrome di Usher, una ragazza colpita dalla sclerosi multipla e un altro sulla storia di una ragazza disabile che è andata a vivere da sola, giusto per citarne alcuni.
– Tra i lavori che ho visto ce n’è uno dal titolo “Uno su centomila”, puoi dirmi di più?
E’ un lavoro intimo personale sulla mia rara malattia.
Il 22 gennaio 2015 sono stato operato per una forma di una grave e rara patologia ad eziologia sconosciuta che colpisce uno su 100.000 e si chiama acalasia esofagea.
Hanno eseguito una procedura chirurgica in laparoscopia, una miotomia secondo Heller, con 5 buchi sulla pancia.
Il mio storytelling fotografico vuole raccontare la mia esperienza, attraverso i continui viaggi avanti e indietro da Verona a Milano per andare all’ospedale Humanitas di Rozzano per una serie infinita di esami: la manometria, RX con il bario e la gastroscopia, fino ad arrivare all’intervento chirurgico.
Sono stato inserito nel gruppo di studio perché voglio che scoprano come curare al meglio questo male. Il mio è un messaggio rivolto a coloro che non conoscono questa malattia, dato che
molti medici non sanno riconoscerla ancora. Spesso i medici scambiano questa malattia per un reflusso oppure per anoressia o bulimia.
– Quindi le immagini che produci raccontano l’esperienza per poter migliorare il futuro di altre persone e per aumentarne la conoscenza?
Si, esatto, le mie fotografie cercano e vogliono trasmettere la mia esperienza, vissuta tra le paure, i pensieri e la sfida con la forza e il coraggio di combattere e di andare avanti, sconfiggendo o riducendo questa malattia.
Un coraggio personale senza precedenti tra la fotografia come arma di battaglia e gli esami da affrontare. Il mio smartphone come una spada che sconfigge l’invisibile male.
– Mi piace questa sensazione di arma fotografica. E cosa mi racconti del lavoro “La voce del silenzio”
Durante il primo reportage che ho fatto sui sordi “Ti vedo, ti sento”, vedevo alcuni sordi che comunicavano con la lingua dei segni (LIS) e ho scoperto l’importanza che ha per loro e come la usano; ho cominciato quindi a studiarla di più attraverso la fotografia, perché non non l’ho mai imparata.
La lingua dei segni Italiana, in acronimo LIS, è una lingua naturale veicolata attraverso il canale visivo-gestuale ed utilizzata nel territorio italiano da parte dei componenti della Comunità Sorda, che possono essere sordi e udenti, segnanti nativi o tardivi. Il mio progetto presenta le foto dei sordi che “parlano” con la LIS e dimostro la differente interpretazione di ogni persona, come succede con gli udenti e il tono e il timbro vocale. Qui si nota la differenza nel modo di interpretare la lingua con le mani e con le espressioni facciali. La LIS non è solo “parlata” con le mani, ma anche con i movimenti della faccia. Si devono mettere le cuffie antirumore per potersi immedesimare con la persona sorda e per creare il silenzio mentre si guardano le foto.
– Una serie di immagini che ho visto tra i tuoi lavori è quella dei ritratti a persone sorde ma con un intruso, tra le persone ritratte c’è un udente. Perché?
Si, proprio così, ho deciso questa sequenza per far capire la differenza facciale tra un udente e un sordo. So che sembra strano ma ci sono dei piccoli dettagli che fanno la differenza tra un sordo e un udente. L’idea è nata perché anni fa avevo conosciuto una signora che lavora presso il comune di Trento, per precisione presso l’ufficio anagrafe, e mi disse che sapeva distinguere le foto ritratto dei sordi da quelle degli udenti. Da lì mi sono incuriosito e ci ho lavorato sopra scoprendo che in effetti è proprio così ma pochi lo sanno.
Questo lavoro l’avevo esposto a Fotografia Europea a Reggio Emilia e una delle curiosità che è saltata fuori è che tra tutti i visitatori, quelli che riuscivano ad indovinare “l’intruso” e cioè la persona udente, erano proprio i figli di genitori sordi. Il nostro sguardo, la postura, ti sembrerà strano, ma è davvero leggermente diverso.
– Incredibile, non ci avevo mai pensato, è interessante tutto ciò che mi racconti, spero di poterla vedere dal vivo. Adesso, mentre guardiamo le immagini presentate qui a Verona devo chiederti di parlarmi proprio di questo lavoro che hai esposto qui al Palazzo della Gran Guardia: “La forza delle mani: mani da carrozzina”. Io mi sono emozionato perché le trovo magiche, adoro quando la fotografia semplice, e questo usare la parola semplice la intendo illuminata di grande valore, ti trasporta in profondità inaspettate.
Il progetto fotografico prevede una serie di foto di mani di persone disabili che usano e si muovono sulla carrozzina. Niente di più niente di meno. Il concetto è tutto lì. Nei segni e nelle tracce e nelle deformazioni che assumono le mani. Ed è proprio su quella parte corporea che mi sono concentrato, per dare un senso visivo a quanta forza e quanti sacrifici devono fare per andare in giro con questo mezzo.
Si vedono i segni, le forme, la morfologia alterata delle mani dopo anni di fatiche e di sforzi ormai diventati abitudinari, le mani che si sono adattate alla situazione in cui sta il loro “proprietario”. Le mani che si sono legate alle loro ruote, che sono diventate le loro gambe. Così i disabili si sono resi consapevoli di possedere un palmo e delle dita,
E la loro mente si è estesa in nervi e muscoli per mezzo dei quali hanno preso movimenti di forza, l’articolazione di gesti e compiti più complessi.
Grazie, grazie davvero per questa scoperta che mi hai donato, anche io ho lavorato alla ricerca dell’essenza del vivere del cosiddetto “diversamente abile”, oggi ho imparato molte cose nuove e hai reso migliore anche me.
Paolo Ranzani ha intervistato l’architetto e fotografo Giacomo Albertini
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TOMMASO OTTOMANO – IL REGISTA DEI MANESKIN
Fotografo ritrattista. Venti anni di esperienza nella fotografia di “people” spaziando dal ritratto per celebrity, beauty, adv e mantenendo sempre uno sguardo al reportage sociale.
Ha coordinato il dipartimento di fotografia dell’Istituto Europeo di Design ed è docente di Educazione al linguaggio fotografico presso la Raffles School, Università di design di Milano.
Il suo portfolio comprende lavori autoriali e commerciali per FIAT, Iveco, Lavazza, Chicco, Oréal e la pubblicazione di quattro libri fotografici: “Ecce Femina” (2000), “99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 it/Universiadi 2007”.
Ha curato l’immagine per vari personaggi dello spettacolo, Arturo Brachetti, Luciana Littizzetto, Fernanda Lessa, Antonella Elia, Neja, Eiffel65, Marco Berry, Levante …
Negli ultimi anni ha spostato la sua creatività anche alle riprese video, sia come regista che come direttore della fotografia, uno dei suoi lavori più premiati è il videoclip “Alfonso” della cantautrice Levante (oltre otto milioni di visualizzazioni).
Ha diretto il dipartimento di fotografia dello IED di Torino ed è docente di “Educazione al linguaggio fotografico” presso la RM Moda e design di Milano.
Paolo Ranzani è referente artistico 4k in merito al progetto “TORINO MOSAICO” del collettivo “DeadPhotoWorking”, progetto scelto per inaugurare “Luci d’Artista” a Torino.
E’ stato nominato da Giovanni Gastel presidente AFIP Torino.
Nel 2019 il lavoro fotografico sul teatro in carcere è stato ospite di Matera Capitale della Cultura.
Pubblicati e mostre:
“Ecce Femina” (2000),
“99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 you/Universiadi 2007” ,
Premio 2005 per il ciack award fotografo di scena
Premio 2007 fotografia creativa TAU VISUAL
Premio 2009 come miglior fotografo creativo editoriale
Ideatore e organizzatore del concorso fotografico internazionale OPEN PICS per il Salone del Libro di Torino – 2004
Dal 2017 scrive “Ap/Punti di vista” una rubrica bimestrale di fotografia sul magazine Torinerò.
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