“Io avevo in mente il mio aspetto. Lui aveva in mente la luce. Tutto qui.”
Se amate la fotografia di ROBERT MAPPLETHORPE e tutto quel che sapete di lui e quello che avete appreso dai libri fotografici o dalle mostre che girano il mondo, allora non è sufficiente, dovete procurarvi una copia del libro “JUST KIDS” scritto da PATTI SMITH. (Feltrinelli)
È una di quelle storie d’amore che sono ormai nel regno del mito: due giovanissimi ancora sconosciuti al mondo dell’arte, decisamente borderline, in quella New York di fine anni ‘60 dove tutto ha iniziato ad accadere e dove poi tutto è accaduto. Momenti decisivi per diventare qualcuno o qualcosa passando per droghe alcool e notti insonni. Schizzi di egocentrismo e cadute nella depressione, appartamenti sporchi intrisi di collera e di sesso, amicizia vera e profonda che sa fare anche male; ma anche amori romantici, dolcissimi, gesti poetici e parole memorabili.
E poi la fotografia. La fotografia di Robert.
Patti ci racconta della loro storia e in quelle frasi possiamo cogliere il germoglio ossessivo di quello che diventerà il grande Mapplethorpe. Amava disegnare, amava creare, collage, murales, sculture. C’era qualcosa di indefinito che non riusciva a prendere forma, la sua arte e la sua sessualità erano come bloccate o forse erano solo immerse in una lenta trasformazione.
Si incontrarono in una notte estiva del 1967. Uno dei parchi newyorchesi fa da sfondo. Lei è in fuga da un fidanzato assillante, lui ha modi gentili e accetta di fingersi il nuovo fidanzato. Inizia la poesia, inizia l’arte, inizia la morte, finisce tutto, inizia tutto.
Dopo tanti anni e dopo incredibili incontri, sappiamo cosa sono diventati questi due grandi artisti, fu proprio Robert nel 1975 a realizzare l’immagine per la copertina del disco Horses di Patti Smith.
Più o meno andò così:
« …Non avevo idee, sapevo soltanto che avrebbe dovuto essere autentica. L’unica cosa che promisi a Robert fu che avrei indossato una camicia in ordine, senza macchie.
Andai all’Esercito della Salvezza sulla Bowery e comprai una pila di camice bianche. Alcune erano troppo grandi; quella che mi piacque aveva delle iniziali sotto il taschino. Mi ricordò una fotografia scattata da Brassaï nella quale Jean Genet indossa una camicia bianca monogrammata con le maniche avvoltolate. Sulla mia c’era ricamato RV – immaginai che la camicia fosse appartenuta a Roger Vadim,che aveva curato la regia di Barbarella. Tagliai via i polsini per indossarla sotto la giacca nera, che adornai con la spilla a forma di cavallo che mi aveva regalato Allen Lanier. Robert voleva scattare la fotografia da Sam Wagstaff, perché nell’attico sulla Quinta Avenue c’era una bella luce naturale. La finestra ad angolo proiettava un’ombra che creava un triangolo di luce, e Robert voleva servirsene per la fotografia. La luce stava scemando. Robert non aveva un assistente. Non avevamo parlato di ciò che avremmo fatto, o di cosa volessimo ottenere. Lui avrebbe fotografato. Io sarei stata fotografata.»
Io avevo in mente il mio aspetto. Lui aveva in mente la luce. Tutto qui.
« L’appartamento di Sam era spartano, bianco e quasi sgombro, con una grossa pianta di avocado accanto alla finestra che affaccia sulla Quinta Avenue. Un enorme prisma rifrangeva la luce spaccandola in arcobaleni che ricadevano sulla parete di fronte a un termosifone bianco. Robert mi posizionò nel triangolo. Si preparò con un leggero tremolio alle mani. Scattò qualche fotografia. Abbandonò l’esposimetro. Una nuvola passò e il triangolo svanì. Mi disse: “Sai una cosa, mi piace molto il biancore della camicia. Ti toglieresti la giacca?”
Mi gettai la giacca in spalla, alla Frank Sinatra. Avevo un mucchio di riferimenti visivi. Robert possedeva luce e ombra.
“Eccola, ce l’ho” disse”.
Ancora oggi la guardo e non vedo me stessa, vedo NOI.»
«Take their picture. I think they’re artists,” and he responded, “Oh go on. They’re just kids.»
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Fotografo ritrattista. Venti anni di esperienza nella fotografia di “people” spaziando dal ritratto per celebrity, beauty, adv e mantenendo sempre uno sguardo al reportage sociale.
Ha coordinato il dipartimento di fotografia dell’Istituto Europeo di Design ed è docente di Educazione al linguaggio fotografico presso la Raffles School, Università di design di Milano.
Il suo portfolio comprende lavori autoriali e commerciali per FIAT, Iveco, Lavazza, Chicco, Oréal e la pubblicazione di quattro libri fotografici: “Ecce Femina” (2000), “99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 it/Universiadi 2007”.
Ha curato l’immagine per vari personaggi dello spettacolo, Arturo Brachetti, Luciana Littizzetto, Fernanda Lessa, Antonella Elia, Neja, Eiffel65, Marco Berry, Levante …
Negli ultimi anni ha spostato la sua creatività anche alle riprese video, sia come regista che come direttore della fotografia, uno dei suoi lavori più premiati è il videoclip “Alfonso” della cantautrice Levante (oltre otto milioni di visualizzazioni).
Ha diretto il dipartimento di fotografia dello IED di Torino ed è docente di “Educazione al linguaggio fotografico” presso la RM Moda e design di Milano.
Paolo Ranzani è referente artistico 4k in merito al progetto “TORINO MOSAICO” del collettivo “DeadPhotoWorking”, progetto scelto per inaugurare “Luci d’Artista” a Torino.
E’ stato nominato da Giovanni Gastel presidente AFIP Torino.
Nel 2019 il lavoro fotografico sul teatro in carcere è stato ospite di Matera Capitale della Cultura.
Pubblicati e mostre:
“Ecce Femina” (2000),
“99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 you/Universiadi 2007” ,
Premio 2005 per il ciack award fotografo di scena
Premio 2007 fotografia creativa TAU VISUAL
Premio 2009 come miglior fotografo creativo editoriale
Ideatore e organizzatore del concorso fotografico internazionale OPEN PICS per il Salone del Libro di Torino – 2004
Dal 2017 scrive “Ap/Punti di vista” una rubrica bimestrale di fotografia sul magazine Torinerò.
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