Come possiamo presentarti in poche righe?
Per sintetizzare in poche parole la mia strana professione, posso dire che nella vita mi occupo di storie. Alcune storie diventano i romanzi che scrivo nella solitudine del mio studio, altre sono storie collettive che diventano spettacoli teatrali o progetti di animazione comunitaria. Il filo rosso della mia professione è sempre la narrazione, che prende forme differenti.
Che rapporto hai con la fotografia fuori dal tuo mestiere?
Un rapporto molto stretto. Io e mio marito condividiamo la passione per la fotografia e quella per i viaggi. Insieme riusciamo a trascorrere ore e ore davanti a un paesaggio in attesa di una luce particolare o di un elemento inatteso da cogliere in uno scatto. La fotografia, inoltre, mi ha educata e mi educa alla diversità dei punti di vista, all’attesa, alla bellezza che, a volte, sta proprio nell’imprevisto, nell’effimero e nell’imperfetto.
Che rapporto hai con la fotografia nel tuo mestiere?
Molte persone dicono che la mia scrittura sia “fotografica”, che proceda per immagini. Forse il mio è un approccio mentale, oltre che fisico: prima di scrivere un romanzo mi immergo nel suo paesaggio e inizio un lungo processo di avvicinamento a luoghi, persone e relazioni esplorando il contesto e accumulando immagini che, oltre alla vista, utilizzano il gusto, l’udito, l’olfatto, il tatto. Questo prezioso archivio di immagini sensoriali mi serve moltissimo durante la scrittura.
Quali sono i fotografi (italiani e non italiani) che conosci e che apprezzi?
Oltre “ai classici” Salgado e McCurry, mi piacciono gli scatti naturalistici di Paul Nicklen e i reportage di Paolo Pellegrin e Letizia Battaglia.
Usi molto i social? Quanto per lavoro e quanto non per lavoro?
Uso molto i social per l’associazione torinese ASAI (Associazione di Animazione Interculturale) con la quale collaboro. Insieme a un collega, non ci occupiamo solo di “fare post” su FB e Instagram, ma cerchiamo di accompagnare gli educatori e gli operatori a sviluppare una mentalità che consideri la buona comunicazione un ambito importante quanto la buona relazione. Per raccontare una storia non si deve partire dalla penna, bensì dallo sguardo: prima di tutto occorre “vedere” le storie, saperle riconoscere nel momento in cui le attraversiamo. Il nostro lavoro insiste proprio lì, sulla narrazione come processo sociale complesso che include paesaggi, relazioni, immagini. Fotografie che raccontano storie e storie che sono fotografie.
Nella vita privata, invece, limito l’uso dei social per due motivi: prima di tutto mi piace l’intimità della sfera personale. Seconda cosa, ciò che ho voglia di dire, di solito lo esprimo nei romanzi. In quelle pagine metto le mie convinzioni più profonde.
La fotografia è una delle espressioni che più ha subito la mutazione tecnologia, come ti immagini il suo proseguo nel futuro?
Avremo sempre più mezzi in grado di riprodurre il contesto, il che non significa necessariamente fotografare. A volte, nel mio lavoro nel sociale, mi stupisco del fatto che i giovani e gli adolescenti usino solo in piccola parte le potenzialità degli strumenti che maneggiano, soprattutto gli smartphone. Li sento spesso definire un’immagine “instagrammabile” (e quindi da diffondere) o “non instragrammabile” (e quindi da scartare). Queste due possibilità corrono sul binario “serve/non serve”, molto meno su quello “mi piace/non mi piace”. Del futuro tempo l’eccesso di velocità e il pericolo che le scelte e i gusti siano condizionati quasi unicamente da rimandi e giudizi social e sempre meno da un pensiero critico personale.
Usi lo smartphone per fare le fotografie o hai anche una fotocamera?
Nel quotidiano uso lo smarthphone per comodità, ma nei viaggi o in determinate occasioni ho una fotocamera. Mi piace usarla in manuale.
Quante fotografie realizzi in un giorno o in una settimana?
Dipende dalla situazione, dal tempo che ho a disposizione, dal piacere che traggo nel guardarmi attorno, dalla necessità.
Hai conoscenza sul diritto di autore delle fotografie?
Anche io mi muovo in ambito artistico e so che cosa significa “non citare la fonte”. Cerco di citare i crediti, di dare visibilità all’opera e a chi l’ha realizzata.
Oltre ad essere laureata in Psicologia hai collaborato con Moni Ovadia e ti sei specializzata in Cooperazione internazionale e diritti Umani e so che sei stata finalista al premio Calvino, quindi trovi anche tempo di scrivere, puoi dirci di più?
Si, in effetti sono stata per due volte finalista al Premio Calvino (2001, 2009) e ho pubblicato diversi romanzi, sono appassionata di storie, amo ascoltarle, scriverle e raccontarle, scrivere libri mi è venuto naturale e non smetterò mai di farlo perché i libri possono essere delle fotografie del tempo e le fotografie possono essere dei libri da leggere.
NdR. Paola ha pubblicato: Della vita di Alfredo (ed. Bellavite), Se chiedi al vento di restare (Piemme, 2014), Le tre notti dell’abbondanza (Piemme, 2016, ristampato da Giulio Perrone editore nel 2020), Confessioni Audaci di un ballerino di liscio (Baldini&Castoldi, 2017), finalista al Premio Rapallo, Asti d’Appello e Vigevano (menzione della critica), Quella metà di noi (Giulio Perrone editore, 2019)
PAOLA CEREDA
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Fotografo ritrattista. Venti anni di esperienza nella fotografia di “people” spaziando dal ritratto per celebrity, beauty, adv e mantenendo sempre uno sguardo al reportage sociale.
Ha coordinato il dipartimento di fotografia dell’Istituto Europeo di Design ed è docente di Educazione al linguaggio fotografico presso la Raffles School, Università di design di Milano.
Il suo portfolio comprende lavori autoriali e commerciali per FIAT, Iveco, Lavazza, Chicco, Oréal e la pubblicazione di quattro libri fotografici: “Ecce Femina” (2000), “99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 it/Universiadi 2007”.
Ha curato l’immagine per vari personaggi dello spettacolo, Arturo Brachetti, Luciana Littizzetto, Fernanda Lessa, Antonella Elia, Neja, Eiffel65, Marco Berry, Levante …
Negli ultimi anni ha spostato la sua creatività anche alle riprese video, sia come regista che come direttore della fotografia, uno dei suoi lavori più premiati è il videoclip “Alfonso” della cantautrice Levante (oltre otto milioni di visualizzazioni).
Ha diretto il dipartimento di fotografia dello IED di Torino ed è docente di “Educazione al linguaggio fotografico” presso la RM Moda e design di Milano.
Paolo Ranzani è referente artistico 4k in merito al progetto “TORINO MOSAICO” del collettivo “DeadPhotoWorking”, progetto scelto per inaugurare “Luci d’Artista” a Torino.
E’ stato nominato da Giovanni Gastel presidente AFIP Torino.
Nel 2019 il lavoro fotografico sul teatro in carcere è stato ospite di Matera Capitale della Cultura.
Pubblicati e mostre:
“Ecce Femina” (2000),
“99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 you/Universiadi 2007” ,
Premio 2005 per il ciack award fotografo di scena
Premio 2007 fotografia creativa TAU VISUAL
Premio 2009 come miglior fotografo creativo editoriale
Ideatore e organizzatore del concorso fotografico internazionale OPEN PICS per il Salone del Libro di Torino – 2004
Dal 2017 scrive “Ap/Punti di vista” una rubrica bimestrale di fotografia sul magazine Torinerò.
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