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Diane Arbus Della fotografia trasgressiva. Dall‘estetica dei “Freaks” all‘etica della ribellione (Parte seconda)

di PHocus Magazine

La civiltà del dominio è una vecchia troia che dice sempre sì e mette il culo in vendita ad ogni offerente. Il sistema globale è tenuto insieme dalla tensione continua del mercato. L’apparato poliziesco, militare e carcerario delle democrazie dello spettacolo sopprime ogni esempio di diversità. Le scienze del caos, le istituzioni finanziarie, la tecnocrazia dei saperi… assoldano la “piazza” e la rassicurano che la pace è incompatibile con lo sterminio legalizzato. I consumi sono obbligatori e gli arsenali sono pieni di bombe intelligenti. Le società più ricche sono anche quelle più militarizzate. Le alterità radicali si oppongono come possono al dominio dello spettacolo. L’insorgenza zapatista in Messico si riconosce nelle rizoma delle rivolte sociali e la critica radicale dell’esistente è uno dei grimaldelli per rompere i retaggi dell’obbedienza ai credi monoteisti, messianici, miracolistici e dare fuoco alle loro gogne (128).

(128) Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, Aguascalientes 1996. Messaggi del primo incontro intercontinentale per l’umanità e contro il neoliberismo, Edizioni della Battaglia, 1996

L’insurrezione dell’intelligenza o la decostruzione dell’ordine dominante è tutta qui: dare vita a eutopie di resistenza e “non-luoghi” (clandestini, anche) di comunicazione libertaria che a partire dalla decolonizzazione dell’immaginario a dalla liberazione delle passioni e dei piaceri più radicali… si schiudono ad una capacità visionaria irriverente che si oppone ai centri di potere delle
democrazie armate e attraverso l’opera critica di tutte le conoscenze imbrigliate nel conformismo delle morali, accende la premessa etica ed estetica ed avvia i processi di cambiamento consapevole del mondo  (129).

 (129) Consigli per un libro da rubare e far mangiare al primo soldato col fucile ancora caldo e sporco di sangue innocente: Del dominio umanitario e della civile barbarie, di Margherita Porete e Jonathan W. Loguen (degli splendidi pseudonimi), Edizioni Colibrì, 1999

La fotografia della deriva di Diane Arbus si esprime all’interno di una strategia creativa di appropriazione e ridefinizione dell’esistente. Le immagini che ruba nei parchi, nelle strade, nelle case e ovunque porta la sua fotocamera… contrastano con la violenza del nichilismo legittimato dall’arte organizzata… la critica della vita quotidiana che emerge dal suo affabulare fotografico, delinea una sorta di deambulazione senza mete precise né scopi particolari e l’incontro occasionale, la fascinazione del caso o la cattura di anime fragili fuori dalla ribalta del “presentismo”, sopprimono la consumabilità (e il recupero) dell’arte come patibolo dell’ignoranza. La fattualità fotografica di Diane Arbus si abbandona a molti vizi e le virtù sono apocalittiche. I suoi graffiti umani sconfinano nella liberazione della poesia vissuta e Sade, Lautréamont, Fourier o il boia di Londra fuoriescono negli eventi/segni che butta sulla pellicola. In questo senso la deriva fotografica di Diane Arbus si taglia via dall’organizzazione dell’apparenza e dalla frantumazione della sopravvivenza e fa di ogni accadere accidentale, il momento del magico.
La fotografia da marciapiede di Diane Arbus si presenta come una tecnica di passaggio (non sempre veloce e nemmeno per ingannare il tempo) attraverso svariati ambienti. “Il concetto di deriva è indissolubilmente legato al riconoscere effetti di natura psicogeografica e all’affermazione di un comportamento ludico-costruttivo, ciò che da tutti i punti di vista lo oppone alle nozioni classiche di viaggio e di passeggiata” (Guy Debord) (130). La deriva fotografica (non solo della Arbus, ma di tutti i randagi della fotografia di strada) è un lasciarsi andare alle variazioni o scambi emozionali. Il disagevole diventa superamento dell’ostacolo e l’azione del fotografo sui ritrattati fissa i soggetti alla deriva in nuovi abissi dell’erranza, restituita alla propria coscienza o conoscenza apolide. Al di là del riconoscimento del soggetto, ciò che più conta nella fotografia della deriva è la devalorizzazione dei cerimoniali, dei rituali, dei formulari… che hanno investito l’immaginale estremizzato come ghettizzazione ed espulsione dalla rete sociale. La filosofia della fotografia di strada alberga nel dettaglio, nell’atteggiamento chassidico (131) o nella surrealtà ereticale che fa della luce
saturnina l’origine di tutte le disobbedienze.

(130) Guy Debord, Internazionale Situazionista n.2, dicembre 1958, Nautilus, 1994 

(131) Martin Buber, Il cammino dell’uomo, Qiqajon, 2000

La fotografia della trasgressione di Diane Arbus è un florilegio di diversità, una periferia invisibile, libertaria, di esistenze che debuttano in una società del disamore, dalla fine. In questa fotografia/estetica della differenza, Diane Arbus affabula un’etica delle passioni e le disperde nel soddisfacimento dei desideri comuni alle genti della strada… è una forma radicale di ribaltamento dell’ordinario, l’occasionale, il genuflesso… il tentativo di superare l’arte (non solo della fotografia) per mezzo della fotografia stessa, cioè passando dall’immagine alla vita quotidiana e dalla vita quotidiana alla rottura dell’impostura iconografica d’autore.
Per non dimenticare: “La liberazione della nostra vita sociale, che noi ci prefiggiamo come compito elementare, ci aprirà la porta che dà su un mondo nuovo, un mondo in cui tutti gli aspetti culturali, tutti i rapporti interiori delle nostre vite unite avranno un altro valore. È impossibile conoscere un desiderio se non soddisfacendolo, e il soddisfacimento del nostro desiderio elementare è la rivoluzione. È dunque nella rivoluzione che è posta l’attività creatrice” (Nieuwenhuys Costant) (132) di tutti gli angeli dell’utopia. Non riconciliati o solo violenza aiuta dove violenza regna (133). A ritroso. Diane Nemerov Arbus nasce da un famiglia ebrea di aristocratici,
nei “ghetti dorati” di New York nel 1923 (134

(132) Nieuwenhuys Costant, Internazionale situazionista 1958-69, Nautilus, 1994

(133) Non riconciliati o Solo violenza aiuta dove violenza regna (1964-65), è il titolo di un film particolare, eccezionale, amoroso di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Tratta di emarginazione e di libertà. A ciascuno la propria. Ma per qualcuno la libertà è da conquistare. Non si tratta della poesia della libertà fatta da tutti, ma di cercare insieme la libertà possibile e l’amore tra le genti (con ogni mezzo). L’età della gioia è ancora sconosciuta 

(134) Pino Bertelli, Della fotografia situazionista. Storia ereticale della fotografia sociale. Sulle scritture e i simulacri fotografici della civiltà dello spettacolo nell’epoca della simulazione e dell’impostura. Critica radicale del linguaggio iconologico come linguaggio politico, religioso e artistico mercantili, La città del sole, 2004; Pino Bertelli, Della fotografia trasgressiva. Dall’estetica dei “ freaks” all’etica della ribellione. Saggio su Diane Arbus, NdA Press, 2006

Sono proprietari dei grandi magazzini Russek’s, in Fifth Avenue. Ha un’infanzia affettiva difficile con i genitori e un grande legame d’amore con il fratello, il poeta Howard Nemerov. Si sposa a diciotto anni, con Allan Arbus, un fattorino dei magazzini Russek’s e negli anni cinquanta raggiungono insieme il successo come fotografi di moda. Lavorano per le maggiori riviste del settore e le loro fotografie sono sovente pubblicate da Vogue o Glamour. Ma Diane Arbus vede altro nella macchina fotografica e lascia la mondanità e la notorietà. Nel 1958 va a studiare la “Fotografia” con Lisette Model, un’intrigante pacifista, ritenuta troppo sinistrorsa/“comunarda”, e poco affidabile dall’“austera borghesia” newyorkese, che la inizia all’avventura o al viaggio a/temporale della fotografia trasversale. Con lei apprende che “la fotografia è quello che sappiamo e quello che non sappiamo” (Lisette Model).
La fotografia ha ampliato la capacità visiva, intuitiva e culturale del mondo, ma in forme, linguaggi, surrealtà che non sempre siamo in grado di comprendere.
C’è una grande differenza tra ciò che vede l’occhio e ciò che vede la macchina fotografica. Il passaggio dalla terza alla seconda dimensione è infatti il luogo dove nasce la poesia della fotografia o dove muore.
A trentotto anni, Diane Arbus comincia a fotografare veramente e se Henri Cartier-Bresson faceva una “fotografia di rapina” e illuminava le percezioni del cuore e quell’altrove senza fine come pochi, Diane Arbus riusciva a cogliere l’attimo decisivo nella posa e oltre la posa. I suoi sono stati “gli occhi più istintivi della storia della fotografia” (Lisette Model). A vedere in profondità le “immagini sgangherate” di Diane Arbus, ad esempio — Il bambino con la bomba giocattolo — (Child with a toy hand grenade in Central Park, N.Y.C., 1962), si coglie una filosofia dello stupore o della tristezza dell’infanzia che si spinge là fin dove il desiderio dei “quasi adatti” può penetrare. La fotografia del bambino un po’ diverso, presa al Central Park, è forse l’icona più disperata del disagio mai apparsa nei territori fradici di stupido sensazionalismo da reportage. La scambio tra fotografo e bambino è forte. L’autobiografia anche.
Il gesto è d’amore. La dissociazione, reale. La bomba giocattolo e la smorfia sul viso del bambino esprimono un giudizio, estremo. Ci sono terrorismi e maltrattamenti privati che restano proprietà degli adulti. Il destino di una ghianda malformata, a volte, non trasforma in albero il bambino (che resta comunque sempre un fiore…) e spesso il disinteresse, la vergogna e il rifiuto dei genitori (o la glacialità e l’indifferenza delle istituzioni) distruggono l’amore. L’amore non ha bisogno di parole. Si esprime nei fatti. Amare i propri amori, anche i meno fortunati, vuol dire riconoscere ogni attimo della loro esistenza come atto d’amore sovrano. L’amore chiama l’amore e non ci può essere amore dove regna l’ingiustizia. Nella fotografia — Il bambino con la bomba giocattolo —, Diane Arbus si avvicina al bene autentico, alla felicità piena, che è la libertà più alta. Non giudica, condivide. C’è una sacralità dell’immagine che sborda dall’emotività dell’inquadratura. Ad una prima lettura può sembrare occasionale, accidentale o scippata al caso. Vero niente. Conosciamo i provini dai quali è tratto questo scatto eccezionale e la catarsi, l’incontro, lo scambio tra fotografo e soggetto avviene in un arco di tempo non proprio breve, nel quale s’illumina una sorta di “confessione” tra loro e l‘amore dell’una per l’altro (e viceversa) si trascolora in “segno” dolente. Amare significa far parlare il nostro cuore. Rinascere all’amore vuol dire aprirsi ad una cultura dell’amore (135) e liberare il bambino incantato o incatenato che è in noi. E non può esserci amore senza giustizia. Finché la cultura della recinzione e dell’abbandono, che sono al fondo dell’educazione infantile della civiltà dello spettacolo, non avrà imparato a difendere i diritti fondamentali dei bambini, la maggior parte dei bambini della terra non conoscerà l’amore. “Sono nata per salire la scala della rispettabilità borghese e da allora ho cercato di arrampicarmi verso il basso, il più rapidamente possibile” (Diane Arbus). È l’ignoranza dell’amore (come la paura della libertà) che rende le persone stupide. E l’amore (anche per la libertà) è l’ombra del disincanto o l’immaginale sconosciuto dell’individuo. L’amore, come la libertà, è soprattutto la distruzione dei falsi idoli. “Crediamo che l’esercizio più urgente della libertà [come dell’amore] sia la distruzione degli idoli, soprattutto quando essi si avvalgono della libertà” (Internationale Lettriste, 1952) (136). Nella civiltà dello spettacolo, l’amore (come la libertà), debbono essere reinventati, ecco tutto.

(135) Bell Hooks, Tutto sull’amore, Feltrinelli, 2003
(136) Mirella Bandini, Per una storia del lettrismo, Traccedizioni, 2005

Diane Arbus è stata una figura rivoluzionaria e solitaria nella fotografia contemporanea ma è riuscita a trasformare il convenzionale e il grottesco in emozione. L’immaginazione della realtà era più forte dell’iconologia del consenso e il cinema o le favole di Alice nel paese delle meraviglie, Il mago di Oz, lo studio di Carl G. Jung, le letture di Kafka, Emily Dickinson, Louis-Ferdinand Céline, gli acquerelli di Grosz la portarono verso quella fotografia del margine che tagliava fuori la rapacità, l’ipocrisia o l’ingiustizia deposti nei valori dominanti. Fotografava la disperazione più cupa per raggiungere una gaia scienza della seduzione. Infrangeva così la notte della fotografia di immediato consumo. Andava contro l’educazione che l’umanità si è data. Aveva compreso che la felicità dell’utopia è avere una stanza tutta per sé dove l’indecenza dell’intelligenza continua a partorire sogni e stelle danzanti.

(continua….)

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