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Ap/punti di vista: I BELIEVE di Matteo Fantolini

di Paolo Ranzani

Spesso si dice che un libro fotografico sia come un viaggio e in questo caso è più vero che mai. Anzi, molti viaggi. I BELIEVE è una moltitudine di percorsi, alcuni ruotano nello spazio dello spirito, nel dolore, nell’essenza ma anche nell’assenza, altri sono più fisici, in presenza e in compagnia di uomini e donne che vivono in quei luoghi dove il rito del sacrifico è vissuto ancora con tutta l’enfasi della carne e della devozione.

“I Believe” è un progetto fotografico editoriale, voluto e portato avanti dalla famiglia e dagli amici di Matteo Fantolini, fotoreporter prematuramente scomparso. Il lavoro era già pronto negli hard disk e per fortuna non è rimasto lì, ignoto a tutto e a tutti, per fortuna è arrivato a noi grazie ad una campagna di crowfounding e alla dedizione dei genitori e della moglie di Matteo.
Nelle pagine del volume è racchiusa tutta la sua fede per la vita, la passione fotogiornalistica e la voglia di scoprire mondi e culture differenti. Questa curiosità “atea” e genuina si traduce in un progetto che parla di una serie di rituali, basati sul dolore e il sacrificio, che si svolgono in quattro paesi: Thailandia, India, Italia e Malesia. Luoghi e culti in cui il fotografo si è immerso, abbandonando ogni sorta di pregiudizio e di sensibilità.

Le immagini sono cruente: pugnali, corpi lacerati, sangue, cicatrici, elementi di estrema ferocia, abilmente narrate da Matteo Fantolini.
Il bianco e nero si traduce nella scelta più saggia per descrivere temi così caldi, lontano da un fotogiornalismo già visto.

Credere è soffrire, perché il dolore non è sintomo di sottomissione ma si traduce in qualcosa di necessario per un fine maggiore e più grande della vita stessa.

Un grande lavoro quello di Matteo: è andato vicino, molto vicino, così vicino che non spaventa più, ci aiuta a capire un po’ di più l’uomo con le sue storture, fobie, miti, credenze, angosce.

Nessun giudizio, nessuno spettacolo.

Lo sforzo è di osservare attraverso il suo sguardo e quello che ci lascia sono immagini potenti. Nelle fotografie di Matteo non ci sono morti né guerre, non ci sono violazioni di diritti umani o condizioni di violenza o povertà estreme, nessuno dei temi caldi ormai sdoganati dal fotogiornalismo moderno.

Nel lavoro di Matteo manca completamente ogni forma di violenza. Paradossalmente, a penalizzarne la visibilità, è stata proprio la sua innocenza, l’assenza di una ragione sufficiente per sfidare il tabù del dolore: in un mondo come quello del giornalismo contemporaneo, dove i limiti dell’etica sono elastici e permeabili quanto l’andamento del mercato editoriale, il sangue può essere concepito solo come manifestazione di un torto o un’ingiustizia sociale, come un male necessario, una prova da presentare al tribunale dell’opinione pubblica per influenzarlo.

Il sangue e il dolore sono, in questo caso, autoinflitti come forma rituale di purificazione; i ruoli di vittime e carnefici, coincidendo, sfumano completamente.
Nelle fotografie di Matteo troviamo riquadri di strade polverose che il sangue trasforma in grumi, in sentieri ruvidi come catrame, occhi vacui, santoni imbellettati dai riti antichi e pelle nuda che si vanta di cicatrici. Sembra di sentirne il rumore, la vibrazione di mille voci che si allungano all’unisono. Muscoli martoriati e fisici spezzati.

Formiche umane che rincorrono labirinti come cavie disperate ma consapevoli. Loro lo sanno, perché lo fanno. Loro ci credono.

Matteo fa una scelta. Decide che non è lì per documentare, per certificare un evento. Quel che accade, per forza di cose, gli entra dentro e quando esce è qualcos’altro che prima non c’era.

Perde il colore, la vivacità cromatica se la ruba il dramma e il dramma si scioglie nel bianco e nero che l’autore sente di concedere al raccontare. In fotografia “togliere” è come aggiungere, se lo sai fare bene. Spogli il superfluo per arrivare all’essenza. E’ facile e giusto, secondo Susan Sontag, provare disgusto e orrore davanti al dolore degli altri, quando è subito dalle vittime come una forma di violenza. A sconvolgere del lavoro di Matteo è esattamente questo: ad essere considerata oscena e a creare un contrastante shock nello sguardo non è una qualche forma di ingiustizia, ma è la professione di fede di qualcuno. “Davanti al dolore degli altri”, nel caso del lavoro di Matteo, coincide con “Davanti alla fede degli altri”.

Il libro, costituito da una copertina rigida e da 160 pagine, si apre con la prefazione di Riccardo Bonomi, da cui è stato attinto parte di questo testo, e un ricordo dell’ultimo assistente di Matteo, Lorenzo Rosa-Brusin.

BIO: Matteo Fantolini, nato a Livorno nel 1978, inizia la sua carriera di fotografo nei villaggi turistici in giro per il mondo, da animatore a responsabile del diving e poi la fotografia subacquea. Nel 2010 si diploma in fotografia presso lo IED Torino e inizia l’attività di fotografo di matrimoni e new born. La voglia di scoprire e raccontare il mondo non si placa, viaggia molto soprattutto alla ricerca dei riti religiosi dove la tradizione, l’esasperazione del credo e il sacrificio si fondono in una alchimia fatta di punizione/espiazione e sangue. Per quattro anni indaga, osserva e racconta: Malesia, India, Thailandia, Italia. Matteo lascia i suoi progetti fotografici incompiuti, il 16 dicembre del 2016 muore improvvisamente nella sua casa di Pinerolo.


https://crowdbooks.com/it/i-believe/

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