Spesso si dice che un libro fotografico sia come un viaggio e in questo caso è più vero che mai. Anzi, molti viaggi. I BELIEVE è una moltitudine di percorsi, alcuni ruotano nello spazio dello spirito, nel dolore, nell’essenza ma anche nell’assenza, altri sono più fisici, in presenza e in compagnia di uomini e donne che vivono in quei luoghi dove il rito del sacrifico è vissuto ancora con tutta l’enfasi della carne e della devozione.
“I Believe” è un progetto fotografico editoriale, voluto e portato avanti dalla famiglia e dagli amici di Matteo Fantolini, fotoreporter prematuramente scomparso. Il lavoro era già pronto negli hard disk e per fortuna non è rimasto lì, ignoto a tutto e a tutti, per fortuna è arrivato a noi grazie ad una campagna di crowfounding e alla dedizione dei genitori e della moglie di Matteo.
Nelle pagine del volume è racchiusa tutta la sua fede per la vita, la passione fotogiornalistica e la voglia di scoprire mondi e culture differenti. Questa curiosità “atea” e genuina si traduce in un progetto che parla di una serie di rituali, basati sul dolore e il sacrificio, che si svolgono in quattro paesi: Thailandia, India, Italia e Malesia. Luoghi e culti in cui il fotografo si è immerso, abbandonando ogni sorta di pregiudizio e di sensibilità.
Le immagini sono cruente: pugnali, corpi lacerati, sangue, cicatrici, elementi di estrema ferocia, abilmente narrate da Matteo Fantolini.
Il bianco e nero si traduce nella scelta più saggia per descrivere temi così caldi, lontano da un fotogiornalismo già visto.
Credere è soffrire, perché il dolore non è sintomo di sottomissione ma si traduce in qualcosa di necessario per un fine maggiore e più grande della vita stessa.
Un grande lavoro quello di Matteo: è andato vicino, molto vicino, così vicino che non spaventa più, ci aiuta a capire un po’ di più l’uomo con le sue storture, fobie, miti, credenze, angosce.
Nessun giudizio, nessuno spettacolo.
Lo sforzo è di osservare attraverso il suo sguardo e quello che ci lascia sono immagini potenti. Nelle fotografie di Matteo non ci sono morti né guerre, non ci sono violazioni di diritti umani o condizioni di violenza o povertà estreme, nessuno dei temi caldi ormai sdoganati dal fotogiornalismo moderno.
Nel lavoro di Matteo manca completamente ogni forma di violenza. Paradossalmente, a penalizzarne la visibilità, è stata proprio la sua innocenza, l’assenza di una ragione sufficiente per sfidare il tabù del dolore: in un mondo come quello del giornalismo contemporaneo, dove i limiti dell’etica sono elastici e permeabili quanto l’andamento del mercato editoriale, il sangue può essere concepito solo come manifestazione di un torto o un’ingiustizia sociale, come un male necessario, una prova da presentare al tribunale dell’opinione pubblica per influenzarlo.
Il sangue e il dolore sono, in questo caso, autoinflitti come forma rituale di purificazione; i ruoli di vittime e carnefici, coincidendo, sfumano completamente.
Nelle fotografie di Matteo troviamo riquadri di strade polverose che il sangue trasforma in grumi, in sentieri ruvidi come catrame, occhi vacui, santoni imbellettati dai riti antichi e pelle nuda che si vanta di cicatrici. Sembra di sentirne il rumore, la vibrazione di mille voci che si allungano all’unisono. Muscoli martoriati e fisici spezzati.
Formiche umane che rincorrono labirinti come cavie disperate ma consapevoli. Loro lo sanno, perché lo fanno. Loro ci credono.
Matteo fa una scelta. Decide che non è lì per documentare, per certificare un evento. Quel che accade, per forza di cose, gli entra dentro e quando esce è qualcos’altro che prima non c’era.
Perde il colore, la vivacità cromatica se la ruba il dramma e il dramma si scioglie nel bianco e nero che l’autore sente di concedere al raccontare. In fotografia “togliere” è come aggiungere, se lo sai fare bene. Spogli il superfluo per arrivare all’essenza. E’ facile e giusto, secondo Susan Sontag, provare disgusto e orrore davanti al dolore degli altri, quando è subito dalle vittime come una forma di violenza. A sconvolgere del lavoro di Matteo è esattamente questo: ad essere considerata oscena e a creare un contrastante shock nello sguardo non è una qualche forma di ingiustizia, ma è la professione di fede di qualcuno. “Davanti al dolore degli altri”, nel caso del lavoro di Matteo, coincide con “Davanti alla fede degli altri”.
Il libro, costituito da una copertina rigida e da 160 pagine, si apre con la prefazione di Riccardo Bonomi, da cui è stato attinto parte di questo testo, e un ricordo dell’ultimo assistente di Matteo, Lorenzo Rosa-Brusin.
BIO: Matteo Fantolini, nato a Livorno nel 1978, inizia la sua carriera di fotografo nei villaggi turistici in giro per il mondo, da animatore a responsabile del diving e poi la fotografia subacquea. Nel 2010 si diploma in fotografia presso lo IED Torino e inizia l’attività di fotografo di matrimoni e new born. La voglia di scoprire e raccontare il mondo non si placa, viaggia molto soprattutto alla ricerca dei riti religiosi dove la tradizione, l’esasperazione del credo e il sacrificio si fondono in una alchimia fatta di punizione/espiazione e sangue. Per quattro anni indaga, osserva e racconta: Malesia, India, Thailandia, Italia. Matteo lascia i suoi progetti fotografici incompiuti, il 16 dicembre del 2016 muore improvvisamente nella sua casa di Pinerolo.
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TOMMASO OTTOMANO – IL REGISTA DEI MANESKIN
Fotografo ritrattista. Venti anni di esperienza nella fotografia di “people” spaziando dal ritratto per celebrity, beauty, adv e mantenendo sempre uno sguardo al reportage sociale.
Ha coordinato il dipartimento di fotografia dell’Istituto Europeo di Design ed è docente di Educazione al linguaggio fotografico presso la Raffles School, Università di design di Milano.
Il suo portfolio comprende lavori autoriali e commerciali per FIAT, Iveco, Lavazza, Chicco, Oréal e la pubblicazione di quattro libri fotografici: “Ecce Femina” (2000), “99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 it/Universiadi 2007”.
Ha curato l’immagine per vari personaggi dello spettacolo, Arturo Brachetti, Luciana Littizzetto, Fernanda Lessa, Antonella Elia, Neja, Eiffel65, Marco Berry, Levante …
Negli ultimi anni ha spostato la sua creatività anche alle riprese video, sia come regista che come direttore della fotografia, uno dei suoi lavori più premiati è il videoclip “Alfonso” della cantautrice Levante (oltre otto milioni di visualizzazioni).
Ha diretto il dipartimento di fotografia dello IED di Torino ed è docente di “Educazione al linguaggio fotografico” presso la RM Moda e design di Milano.
Paolo Ranzani è referente artistico 4k in merito al progetto “TORINO MOSAICO” del collettivo “DeadPhotoWorking”, progetto scelto per inaugurare “Luci d’Artista” a Torino.
E’ stato nominato da Giovanni Gastel presidente AFIP Torino.
Nel 2019 il lavoro fotografico sul teatro in carcere è stato ospite di Matera Capitale della Cultura.
Pubblicati e mostre:
“Ecce Femina” (2000),
“99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 you/Universiadi 2007” ,
Premio 2005 per il ciack award fotografo di scena
Premio 2007 fotografia creativa TAU VISUAL
Premio 2009 come miglior fotografo creativo editoriale
Ideatore e organizzatore del concorso fotografico internazionale OPEN PICS per il Salone del Libro di Torino – 2004
Dal 2017 scrive “Ap/Punti di vista” una rubrica bimestrale di fotografia sul magazine Torinerò.
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