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Mnemosyne di Aby Warburg / Georges Didi-Huberman: pensare per immagini

di Martina Elizabeth Di Carlo

Mi sembra evidente che l’immagine non sia al presente. […] L’immagine è un insieme di rapporti di tempo da cui il presente scaturisce, sia come comune multiplo sia come minimo divisore. I rapporti di tempo non sono mai visti nella percezione ordinaria, ma lo sono nell’immagine, non appena sia essa creatrice. L’immagine rende sensibili, visibili i rapporti di tempo irriducibili al presente.

(Gilles Deleuze, Il cervello è lo schermo, in Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste (1975-1995), a cura di D. Borca, Einaudi, Torino 2010)

Fig. Aby Warburg, Lamentation (dettaglio) Da “Urworte der patetischen Gehardensprache, 1927. Foto: The Warburg Institute

L’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg convoglia decenni di studi sulle immagini in un’opera che non è solo una raccolta di fotografie ma una vera e propria esibizione del pensare per immagini. Come si evince già dal nome, Mnemosyne si struttura come la rappresentazione della memoria e del suo funzionamento. Questo Atlante è un dispositivo che è stato concepito per organizzare la storia della cultura attraverso la concatenazione delle immagini più disparate, di diversi motivi iconografici, di temi e soprattutto dei gesti che si ripetono nel tempo. Warburg aveva intuito che queste costellazioni iconografiche dicevano qualcosa sulla natura dell’uomo e sull’esistenza e, in particolare, che significati e storie nascoste emergevano attraverso il montaggio e grazie soprattutto alle associazioni fra immagini.

Le immagini da lui collezionate, cioè fotografie di opere d’arte, fotografie di gesti e pose attinte da archivi storici e di antropologia, da giornali, riviste (nel 1929 ne aveva circa 25.000) furono prima incollate su degli enormi pannelli rigidi e raggruppate in base alla tematica. Tuttavia, l’evoluzione delle sue idee lo ha portato a sviluppare una struttura di supporto finale che fosse ancora più coerente e inerente al pensiero di base: il montaggio definitivo è infatti su teli di stoffa nera su cui poteva raggruppare le fotografie, attaccandole e staccandole facilmente. Si creano così degli enormi tableaux provvisori che non erano mai definitivi ma sempre in essere: sempre pronti per essere ridisposti, smantellati, integrati. L’immagine non è mai inserita in una configurazione finale ma si presta a essere sempre ricontestualizzata in modo da avere significati e combinazioni potenzialmente infiniti.

Ogni pannello aveva diverse letture interne e allo stesso tempo veniva letto insieme agli altri. Warburg fotografava questi pannelli e poi li disassemblava. Viene così esibita la struttura stessa che regge l’opera. E proprio come il pensiero dell’uomo in continua trasformazione, le immagini sui pannelli erano disposte per essere ricombinate e smantellate. Il fotografare le disposizioni di immagini sui pannelli ha reso possibile ricordarne una versione nel tempo e pertanto enfatizzare il fatto che non fossero definitivi. La particolarità dell’approccio di Warburg risiedeva proprio nella sua provvisorietà.

Fig. (sinistra) Pedagogo, dal gruppo fiorentino dei Niobidi, marmo pentelico, copia romana da originale greco di IV-I secolo a.C. (testa e braccia aggiunte), Firenze, Galleria degli Uffizi e (destra) David di Andrea del Castagno

Mnemosyne permette l’esibizione dell’archivio, di dispiegarne la stratificazione, culturale, storica, concettuale; permette a chi si avvicina di esplorare la messa in scena di un’idea, del funzionamento di un ragionamento, della sua concettualizzazione nello spazio. Le zone nere, dei pannelli di stoffa di Warburg sono un medium e un passaggio fra le immagini. Sono parti integranti del puzzle: mostrano il montaggio nello spazio di lavoro, nello spazio in cui il processo avviene. Non si tenta di ridurre la complessità ma di mostrarla.

Questi 79 pannelli, dunque, presentavano immagini estremamente variegate, sia nei soggetti che nella cronologia. L’apparente unità che si individua e le ricorrenze nei temi e nei gesti, evidenziano paradossalmente le loro differenze, i contrasti. Troviamo immagini di oggetti d’arte o foto di foto, polarità e cambiamenti in scala che creano connessioni fra oggetti così distanti nello spazio e nel tempo come l’Arco di Costantino accanto a una Gemma Augustea grande quanto l’arco o Ninfe accanto a un francobollo.

Mnemosyne è un programma aperto (Hubermann, Phantoms of Time and Time of Phantoms). È un lavoro ha a che fare in particolare con le immagini della cultura occidentale, Eine neue Theorie der Funktion des menschliche Bilddächtnisses, ovvero la storia stessa del nostro modo di pensare. Mostra il modo in cui le immagini sopravvivono nei gesti, ritornano in un singolo movimento, nella loro relazione dialettica con il tempo.

Una disposizione sperimentale che procede a un ritmo fatto di ricorrenze, di sopravvivenze, di spazi vuoti, silenzi e intervalli.

Fig. Bertolt Brecht, Kriegsfibel, (1977, Eulenspiegel Verlag)

Gli elementi costituenti di Mnemosyne sono i dettagli, che diventano significativi quando portano incertezza, lo sconosciuto, il disorientamento. Per sconosciuto si intende ciò che di cruciale troviamo in noi stessi e nella nostra cultura ed è proprio ciò che è più combattuto, di più represso, ciò che si tenta di lasciare escluso. La frase spesso citata da Warburg «Il buon Dio si trova nei dettagli» rimarca la capacità che ha il dettaglio di far emergere tutti i demoni inconfessati e di generare una conoscenza paradossale. L’apparizione del dettaglio-sintomo fa rivivere nel presente un passato che ha a che fare col rimosso, col non detto; l’immagine, l’interruzione lacerano la totalità affinché si possa lavorare sugli intervalli e gli spazi tra le cose, le relazioni quasi invisibili o sulle loro distanze. I gesti umani si ri-guardano, rispondono. (Huberman)

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